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VOLUME ARTEMODACULTURA 7 Anno I - Numero 7 - Febbraio 2009 - Reg. Trib. di Roma n.139 del 27/03/2008 J. K. Rowling - l’autobiografia - FUTURISMO | HAIDA | HIROSHIGE | ROBERTO PACE | MODA

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Monthly free magazine about: J.K Rowling, Haida, Futurism, Hiroshige

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“Ho fatto della mia cattiva sorte un diamante”

Lo scorso 3 Febbraio il Presidente francese Sarkozy ha conferito la Legion D’Onore alla creatrice del più famoso mago contemporaneo: la scrittrice Joanne Kathleen Rowling. Questo è solo l’ultimo passo dell’avanzata trionfante della scrittrice inglese che ha conquistato il cuore di milioni di lettori, non solo bambini, in tutto il mondo. Il Presidente francese ha sottolineato che, oltre ad aver restituito il piacere della lettura ai bambini, il titolo le è stato conferito per la tenacia con cui ha lottato, anche in situazioni economiche non felicissime, per il raggiungimento del suo obiettivo: la pubblicazione di quello che sarebbe diventato il primo libro della saga di Harry Potter. Ma più dello stesso Harry è la sua creatrice a rivestire un carattere veramente magico: una forza di fronte alla quale tutto cede, una forza indomabile, un movimento centripeto nell’attrarre a sé, convogliando in sé, rettificando e centrifugo nell’abbattere ogni resistenza opposta e nel procedere intrepido. Una forza paragonabile a quella di un carro condotto da un re, un grande carro composto da sette stelle , come i libri sul maghetto inglese, che i marsigliesi raffigurarono e chiamarono “Le Chariot” mentre noi, alzando gli occhi al cielo, chiamiamo Orsa Maggiore: quella costellazione che ruota attorno al polo Nord celeste come in un movimento di espansione, come l’azione che viene da un centro e da questo si propaga inarrestabile. Così, in questo settimo numero di Volume abbiamo pensato di farvi gradita sorpresa regalandovi l’autobiografia della stessa Rowling la quale ci ha ricordato la grande tradizione letteraria e magico-fantastica d’Inghilterra: quel movimento, di cui lei è divenuta l’ultimo anello, che da Shakespeare fino a Carroll Lewis e Tolkien ha infiammato l’immaginazione dei lettori, portando alla luce della coscienza, nella consueta forma fanciullesca di chi vuol celare agli occhi atrofizzati di moderni adulti cinici e lavoratori, motivi e temi fondamentali all’essere umano e che solo attraverso dei cuori semplici possono essere compresi. Vorrei però far notare che, il racconto di come la scrittrice inglese abbia inventato la saga del giovane mago, ossia l’intuizione che dice di aver avuto, aspettando il treno in ritardo, possa essere se non vera almeno verosimile e di per sé leggendaria: a ricordo di come il Genio, superindividuale, si manifesta nella vita quotidiana.

Il Direttore Editoriale

Massimo Cimarelli

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In Copertina:Olga Akhunova Women Management Milan

Photographer Nicholas RoutzenFashion Stylist: Irene De Santis

Make Up And Hair Www.Kristenarnett.com for “Smashbox cosmetics”In questa pagina:

Hiroshige Il giardino dei susini a Kameidoserie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo 1857

silografia policroma, 377x265 mmHonolulu Academy of Arts, Gift of James A. Michener, 1991

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Editorialedi Massimo Cimarelli

Ricorrenza by Roberto Pace

Futurismo 1909-2009di Francesca Eleuteri

Il Maestro della Natura | Hiroshigedi Francesca Eleuteri

Haida: la forza della tradizionedi Daniele Ricci

Tokyo tra passato e futurodi Giorgia Aniballi

30 Books reviewdi Massimo Cimarelli

14 J.K.Rowling: l’autobiografia

Window | Modadi Irene De Santis e Nicholas Routzen21

Per comunicare con la Redazione scrivi a:[email protected]

www.myspace.com/volumeedizioniwww.volumechannel.tv

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“Ricorrenza” è il titolo che l’artista romano Roberto Pace, nella mostra curata da Sandro Malossini, ha dato al suo recente lavoro: acrilici e tempere all’uovo realizzate negli ultimi anni. Di piccole dimensioni, accostati serialmente, quasi a farne un unicum espressivo, indagano nelle vibrazioni dell’astrattismo storico come negazione della leggibilità figurata, facendo scorrere elementi di natura concettuale che si esplicano in accostamenti cromatici e geometrici privi di forme, luci prive di bagliori.Roberto Pace espone dagli anni settanta, di lui si possono ricordare le partecipazioni alle mostre storiche “Le alternative del nuovo” 1980, “Anniottanta” 1985, Biennale di Venezia 1986, e le personali alla Galleria Salvatore Ala di New York 1984 – 1986. La mostra è stata allestita nello spazio di Syusy Blady ed è l’espressione di un lavoro di sintesi che l’artista ha perseguito e realizzato durante gli ultimi anni.

Salotto di Syusy BladyVia Santo Stefano n. 13 – BolognaTel. 347 1512617.

“Ricorrenza” by Roberto Pace

curated by Sandro Malossini

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“Geometria è misurazione, e la misura del tempo scandisce i molti profili presenti nelle tempere all’uovo di Pace.Percorrere uno spazio deserto di immagini introduce a una lettura che mette in difficoltà chi vi si avventura, l’atto di riconoscere un volto amico in un percorso solitatio a poco a poco fa nascere, nel continuo riguardare, un’etica dello sforzo che, a sorpresa, introduce nell’astrazione alla visione di un miraggio.Il desiderio di somiglianza o realtà è catturato nella rete luminosa di un nuovo quadro, non negletto come nell’astrattismo storico ma neanche snaturato da titti i contenuti che oggi il mondo riversa nell’arte per colonizzarla: l’apparenza accade all’improvviso, filtrata dall’infinitezza del linguaggio, illusoria come il miraggio, reale come i nostri desideri.In questo senso la personale descrizione che ogni visitatore farà dei quadri ,diventeràpalestra di un riformato modo di guardare, e l’opera non sarà più allora simbolo o rappresentazione ma bensì esempio.

(Tratto dal catalogo “Doppio3Verso”; R.Pace / R.Rizzoli Scuderie Aldobrandini, Frascati -13 genn/3 Febbr 2002 )

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Futurismo 1909-2009

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Futurismo 1909-2009Velocità + Arte + Azione

Milano Palazzo Reale 6 febbraio - 7 giugno 2009

Milano, la città che sale - qui il Futurismo è nato e ha vissuto la sua prima, entusiasmante stagione - dedica al Centenario di questa avanguardia rivoltosa e visionaria una mostra esplosiva posta sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, promossa dal Comune di Milano e da Skira Editore, curata da Giovanni Lista e Ada Masoero, prodotta da Palazzo Reale in collaborazione con Skira e Artemisia e sostenuta da Fastweb come main sponsor e da Corriere della Sera. La grande esposizione occuperà, eccezionalmente, l’intero piano terreno della Reggia milanese e sarà l’evento centrale di un ricchissimo programma di iniziative promosso dal Comune di Milano, con manifestazioni di teatro, cinema, danza, moda, che faranno della città, per l’intero 2009, la capitale del Futurismo.

di Francesca Eleuteri

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artviewFuturismo 1909-2009 Sono circa quattrocento le opere che la

compongono, oltre 240 delle quali sono dipinti, disegni, sculture, mentre le restanti spaziano dal paroliberismo ai progetti e disegni d’architettura, alle scenografie e costumi teatrali, dalle fotografie ai libri-oggetto, fino agli oggetti dell’orizzonte quotidiano: arredi, oggetti di arte decorativa, pubblicità, moda, tutti segnati dall’impronta innovatrice del Futurismo. Unica tra le numerose manifestazioni espositive del Centenario, questa mostra intende infatti documentare l’intero, vastissimo campo d’azione del Futurismo, ponendo l’accento sulla sua generosa e per certi versi utopistica volontà di ridisegnare l’intero ambito dell’esperienza umana in una chiave inedita. Ridurre l’esame del Futurismo alla sola pittura e scultura rischia infatti di snaturarne il volto, cancellando quella che resta la sua più vistosa e ineguagliata specificità. Non solo, ma poiché il Futurismo non operò nei soli, più celebrati, anni Dieci, ma fu vitale per almeno un trentennio, la mostra ne rileggerà l’intera estensione, fino allo scadere degli anni Trenta, ampliando poi ulteriormente il suo orizzonte temporale per evidenziare da un lato le eredità che raccolse, dall’altro i lasciti che seppe affidare alle generazioni future: il percorso si avvia infatti nell’ultimo decennio dell’Ottocento, documentando la cultura visuale entro cui il Futurismo si formò e si inoltra nella seconda metà del Novecento, con alcuni dei protagonisti di quella stagione (Fontana, Burri, Dorazio, Schifano, i poeti visivi) che al Futurismo guardarono o resero un esplicito omaggio. Così come i futuristi volevano porre lo spettatore “al centro del quadro”, un allestimento fitto e incalzante porrà il visitatore “al centro del Futurismo” in una mostra vitale, esuberante e polifonica come fu quella straordinaria e irripetibile avanguardia, che da Milano si irradiò nell’intera Italia e di qui in Europa, coinvolgendo una vera folla di artisti. Tuttavia, di tutti coloro che in Italia operarono in seno al Futurismo si è scelto di presentare solo quelli che diedero un più importante contributo alla causa, sul piano della qualità della loro ricerca o sul versante del dibattito teorico: entrati nel nuovo secolo, è infatti ormai possibile gettare su questo movimento uno sguardo che travalichi la mera cronaca per servirsi dei soli strumenti della storia e della storia dell’arte.

1. Giacomo Balla, La Guerra, 19162. Carlo Carrà, Il cavaliere rosso, 19133. Enrico Prampolini, Bozzetto della scenografia dell’atto I per “Tamburo di fuoco”, 19224. Enrico Prampolini, La geometria della voluttà, 1923 ca

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di Giorgia Aniballi

Tokyo tra passato e futuro

Acquazzone improvviso su Ōhashi ad Atakeserie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo, 1857

silografia policroma, 358x241 mmHonolulu Academy of Arts, Gift of James A. Michener,

1991

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Di fronte alla crisi economica mondiale l’impero del Sol Levante non si spaventa, e passa deciso al contrattacco. L’ente per il turismo nipponico sta infatti promuovendo in questi mesi un tour europeo che sponsorizzi le bellezze della capitale, per far conoscere all’estero lo spirito di un paese dove vecchio e nuovo convivono in armonia. Articolata in più tranche, la tappa italiana si è fatta in due, con una mostra dal titolo Ritratti a confronto da Edo a Tokyo svoltasi dal 21 Gennaio al 2 Febbraio presso l’Istituto di Cultura a Roma, e un Tokyo day allestito il 3 Febbraio presso la Galleria San Pietro dell’Hotel Rome Cavalieri. Squisitamente pensati per chi del Giappone ne sa ben poco, i due eventi erano tutti un pullulare di pannelli in formativi su usi e costumi del luogo: dalla raffinata cucina alle festività popolari, dai poli artistici della capitale dritti fino al tour della Tokyo di un tempo. Culmine della mostra presso l’Istituto di Cultura, trenta fedelissime riproduzioni di alcune delle xilografie componenti la serie Cento vedute famose di Edo, eseguite a mano da maestri xilografi con i materiali e secondo il metodo dei tempi di Hiroshige (ora la produzione è interamente meccanizzata) realizzate in un arco di tempo che va dal 1998 ad oggi. La serie originale, datata al 1856, illustra i luoghi più famosi della vecchia Edo, con l’abbondare di riferimenti stagionali e lo straordinario uso del colore tipici del grande maestro: in un periodo in cui ancora non esisteva la fotografia, opere del genere svolgevano la funzione essenziale di celebrare le bellezze della capitale, permettendo a tutto il popolo giapponese di goderne nonostante i chilometri di distanza.

exhibitVOLUME

Aceri a Mama, santuario di Tekona e il ponte annessoserie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo, 1857

silografia policroma, 361x247 mmHonolulu Academy of Arts, Gift of James A. Michener, 1991

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La genialità dell’esposizione, a prima vista quasi banale nella sua classicità, è l’aver giustapposto ad alcune stampe le foto di quegli stessi luoghi ritratti ai giorni nostri, in modo da fornire allo spettatore un assaggio degli sconcertanti cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli in quella che è oggi una delle metropoli più all’avanguardia del mondo. Le nebbie romantiche, i ponti di legno, la vista del monte Fuji che spunta all’orizzonte tra le botteghe dei commercianti, hanno oggi ceduto il posto ai Mitsukoshi, alle strade costeggiate dai futuristici grattacieli o alle luci di un porto che ha forse perso il sapore malinconico dell’antichità, ma non è per questo meno affascinante. A controbilanciare questo tuffo nel Giappone di un tempo, il variegato allestimento organizzato presso l’Hotel Cavalieri, con protagonista indiscussa la Tokyo di oggi, in lizza tra le possibili location per le olimpiadi e paraolimpiadi del 2016. Una metropoli a trecentosessanta gradi, presentata al pubblico occidentale tramite l’esposizione di alcuni robot nipponici, oltre a diversi pannelli illustranti la massiccia campagna pubblicitaria per l’evento e il piano urbanistico studiato per accoglierlo. Una sovrabbondanza di brochure ed in formazioni turistiche cui attingere a piene mani, erano invece disponibili per chiunque stesse pianificando un viaggio nella capitale nipponica, il tutto pensato per rendere al meglio il fascino di questa città dai mille volti. Non c’è che dire: il governo giapponese merita un applauso per la capacità dimostrata di attingere alle proprie risorse, organizzando alla perfezione un evento colpevole forse di una certa banalità per chi già conosce usi e cultura del Sol Levante, ma sicuramente vincente nell’imprimere uno slancio all’industria turistica del paese.

exhi

bit VOLUME

Fukagawa, Susaki e Jūmantsuboserie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo 1857

silografia policroma, 355x244 mmHonolulu Academy of Arts, Gift of James A. Michener, 1959

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Continuano gli appuntamenti con i protagonisti dell’arte orientale: la mostra, per la prima volta in Italia, presenta 200 opere di Utagawa Hiroshige (1797-1858), uno dei più grandi artisti giapponesi di ogni tempo, che ebbe una notevole influenza sulla pittura europea e soprattutto sull’impressionismo e post-impressionismo. Imitato da numerosi artisti del XIX secolo, il caso più celebre resta quello di Vincent Van Gogh che si ispirò profondamente alla sua tecnica e alle sue tematiche e riprodusse in modo fedele alcune delle sue opere in alcuni quadri famosissimi. Promossa dalla Fondazione Roma e prodotta in collaborazione con Arthemisia, la mostra è a cura di Gian Carlo Calza, con il coordinamento scientifico di The International Hokusai Research Centre. E rappresenta un’occasione unica per conoscere un artista che, per la straordinaria capacità di contemplare ed esprimere la natura nel suo lato più armonico, anche nel bel mezzo di tempeste di neve o gorghi di mare, ancora oggi veicola il messaggio di una intensa capacità di ascolto religioso che accomuna i sentimenti dell’uomo al respiro del cosmo, avvicinando l’infinitamente piccolo allo sconfinatamente grande.

exhibitVOLUME

Nihonbashi. Processione di portatori [al seguito di un daimyō]serie: Cinquantatré stazioni di posta del Tōkaidō 1833-1834 ca.silografia policroma 222x347 mmHonolulu Academy of Arts, Gift of James A. Michener, 1955

HIROSHIGEIL MAESTRO DELLA NATURARoma, Museo Fondazione Roma17 marzo - 7 giugno 2009

Per la prima volta in Italia 200 opere di uno dei più grandi artisti giapponesi di ogni tempo.Dal 17 marzo in mostra nella capitale al Museo Fondazione Roma (già Museo del Corso).

di Francesca Eleuteri

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BBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBBB Sia mia madre che mio padre erano londinesi. Si conobbero quando

avevano diciotto anni su un treno che li portava dalla stazione di King’s Cross ad Arbroath, in Scozia; mio padre andava ad arruolarsi nella Royal Navy, mia madre nelle WREN (le donne ausiliarie della marina militare). Mia madre disse che aveva freddo, mio padre le offrì metà del suo cappotto e dopo poco più di un anno, a diciannove anni, si sposarono. Entrambi lasciarono la Marina e si trasferirono alla periferia di Bristol, nell’Inghilterra occidentale. Io nacqui quando mia madre aveva vent’anni. Ero una bimba rotondetta. La descrizione delle foto in “La pietra filosofale” “di quello che sembrava un grosso pallone da spiaggia rosa, con indosso cappellini di vari colori” si addice perfettamente anche alle foto dei miei primi anni. Mia sorella, Di, nacque un anno e undici mesi dopo di me. Il giorno della sua nascita è il mio primo ricordo, o perlomeno il mio primo ricordo databile. Mi torna alla mente l’immagine di me che gioco in cucina con un pezzo di plastilina mentre mio padre entra, esce, va avanti e indietro fra la cucina e la loro camera, dove mia madre sta partorendo. So di non avere inventato questo ricordo perché in seguito ne confrontai i dettagli con mia madre. Rivedo anche vividamente l’immagine di me stessa che, poco dopo, dando la mano a mio padre, entro nella camera dei miei genitori e vedo mia madre a letto in camicia da notte accanto alla mia sorella raggiante e nuda come un verme, con un sacco di capelli e l’aspetto di una bambina di cinque anni. Anche se, ovviamente, ho fabbricato questo falso e bizzarro ricordo mettendo insieme pezzettini di racconti ascoltati da piccola, le immagini sono così vivide che mi tornano ancora in mente quando penso alla nascita di Di.Mia sorella Di aveva (e ha tuttora) i capelli molto scuri, quasi neri, e gli occhi marrone scuro come quelli di mia madre, ed era notevolmente più carina di me (lo è ancora adesso). Per bilanciare le cose, credo, i miei genitori decisero che io dovevo essere “quella intelligente”. Queste etichette davano fastidio a entrambe: io volevo essere qualcosa di più attraente di un pallone-da-spiaggia-con-le-lentiggini, e Di, che ora è un avvocato, era giustamente scocciata dal fatto che tutti notassero solo il suo grazioso visetto. Senza dubbio tutto questo contribuì al fatto che, per circa tre quarti della nostra infanzia, litigammo come un paio di gatti selvatici chiusi nella stessa gabbietta. Ancora oggi, Di ha una minuscola cicatrice su un sopracciglio, come ricordo del giorno in cui le tirai una batteria: non mi aspettavo di colpirla, credevo che l’avrebbe schivata!

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Questa giustificazione non riscosse molto successo con mia madre: non l’avevo mai vista tanto arrabbiata. Quando avevo quattro anni lasciammo il bungalow e ci trasferimmo a Winterbourne, un altro sobborgo di Bristol. Lì abitavamo in una casa bifamiliare dotata di SCALE, che ispirarono me e Di a mettere in scena un numero infinito di volte un dramma in cui una di noi penzolava dalla cima di una scogliera (lo scalino più alto), aggrappata alla mano dell’altra, supplicandola di non lasciarla andare, offrendo ricompense di ogni tipo e subendo ricatti, finché non cadeva verso la sua “morte”. Era una perenne fonte di divertimento. Credo che l’ultima volta che abbiamo giocato al gioco della scogliera sia stato due Natali fa; mia figlia, di nove anni, non capiva cosa ci fosse di tanto divertente. Nel pochissimo tempo in cui non litigavamo, io e Di eravamo grandi amiche; le raccontavo un sacco di storie, e a volte non dovevo neppure sedermi su di lei per convincerla ad ascoltarmi. Spesso le storie diventavano giochi in cui ciascuna interpretava veri e propri personaggi. Io ero la prepotente regista di queste rappresentazioni interminabili, ma Di lo sopportava perché di solito le assegnavo parti da protagonista.Nella nostra nuova strada c’erano molti bambini più o meno nostri coetanei, fra cui un ragazzino e sua sorella il cui cognome era Potter. Mi era sempre piaciuto il loro cognome, a differenza del mio, “Rowling” (la cui prima sillaba si pronuncia “rou” e non “rau”), che si prestava a sgradevoli giochi di parole, come “Rowling stone” e molti altri. Comunque, il fratello è già apparso più volte sulla stampa, sostenendo di “essere” Harry; sua madre ha anche detto ai giornalisti che io e lui ci vestivamo da maghi. Niente di tutto questo è vero. Del ragazzino in questione ricordo solo che aveva un “chopper”, il tipo di bicicletta che tutti desideravano negli anni ‘70, e che una volta tirò una pietra a Di, per cui io lo picchiai forte sulla testa con una spada di plastica (solo io avevo il diritto di tirare oggetti a Di!). Mi piaceva andare a scuola a Winterbourne: era un ambiente molto rilassato. Ricordo tante ore a lavorare la ceramica, a disegnare e a scrivere storie, attività che mi si addicevano. Però i miei genitori avevano sempre sognato di vivere in campagna, e quando avevo circa nove anni, ci trasferimmo per l’ultima volta: la destinazione era Tutshill, un paesino molto vicino a Chepstow, nel Galles. Il trasloco coincise quasi esattamente con la morte della mia nonna preferita, Kathleen, il cui nome utilizzai in seguito quando ebbi bisogno di un’altra iniziale. Sicuramente il primo lutto della mia vita influenzò la mia opinione sulla nuova scuola, che non mi piacque affatto. Stavamo tutto il giorno seduti ai banchi a guardare la lavagna. Nei banchi erano incorporati vecchi calamai; nel mio c’era anche un altro foro, scavato con la punta del compasso dal ragazzo che l’aveva usato l’anno prima. A me sembrava una grande impresa e mi dedicai ad allargarlo con il mio compasso, e così, quando lasciai quell’aula, vi si poteva comodamente far passare il pollice.

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A undici anni passai alla scuola media, Wyedean, dove conobbi Sean Harris, il proprietario della Ford Anglia a cui è dedicato “La camera dei segreti”. Fu il primo dei miei amici che imparò a guidare. Quella macchina bianca e turchese per me significò LIBERTÀ: non dover più chiedere passaggi a mio padre, che è l’aspetto peggiore della vita in campagna quando si è adolescenti. Sfrecciare via nel buio con la macchina di Sean è tra i più bei ricordi della mia adolescenza. Fu la prima persona a cui parlai seriamente delle mie ambizioni letterarie e fu anche l’unica persona convinta che avrei avuto successo, il che per me significò molto più di quanto gli dissi apertamente. L’evento più triste della mia adolescenza fu la malattia di mia madre. Quando avevo quindici anni le fu diagnosticata la sclerosi multipla, una malattia del sistema nervoso centrale. La maggior parte delle persone che soffrono di sclerosi multipla hanno periodi di remissione (in cui per un po’ la malattia non peggiora, o in cui addirittura si verificano miglioramenti), ma la mamma fu sfortunata: dal momento della diagnosi non fece altro che peggiorare, lentamente ma costantemente. Credo che quasi tutti, nel profondo, pensiamo che le nostre madri siano indistruttibili, e quindi fu uno shock terribile sapere che aveva una malattia incurabile; eppure, nemmeno allora mi resi conto pienamente del significato della diagnosi.Nel 1983 terminai la scuola e andai a studiare all’università di Exeter, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Studiai francese, il che fu un errore: avevo ceduto alla pressione familiare perché studiassi “utili” lingue moderne invece della letteratura inglese (“a cosa ti servirà?”), ma non avrei dovuto cedere. L’aspetto positivo dello studio del francese fu che il mio corso comprendeva un anno a Parigi! Al termine dell’università lavorai a Londra. Il mio lavoro più duraturo fu con Amnesty International, l’organizzazione che lotta in tutto il mondo contro gli abusi dei diritti umani. Nel 1990, però, io e quello che allora era il mio ragazzo decidemmo di andare a vivere a Manchester. Dopo un fine settimana alla ricerca di un appartamento, mentre tornavo a Londra da sola su un treno affollato, l’idea di Harry Potter mi invase con prepotenza la mente. Avevo scritto quasi in continuazione fin da quando avevo sei anni, ma nessuna idea mi aveva mai entusiasmato tanto. Con mia grandissima frustrazione, non avevo con me una penna funzionante ed ero troppo timida per chiederne una in prestito a un estraneo. Ora credo che forse sia stato meglio così, perché non potei fare altro che stare seduta a pensare per quattro lunghe ore (il treno era in ritardo). Tutti i particolari mi ribollirono in testa e quel ragazzino magro, con i capelli neri e gli occhiali, che non sapeva di essere un mago, divenne sempre più reale nella mia mente. Credo che forse, se avessi dovuto rallentare le idee per metterle su carta, ne avrei persa qualcuna (anche se a volte mi chiedo, oziosamente, quanto di tutto quello che immaginai su quel treno avessi già dimenticato quando finalmente potei mettere mano alla penna).

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La sera stessa iniziai a scrivere “La pietra filosofale”, anche se quelle prime pagine non somigliavano minimamente alla versione finale. Mi trasferii a Manchester portando con me il manoscritto sempre più voluminoso, che stava crescendo in molte strane direzioni, e che comprendeva idee per il resto della carriera scolastica di Harry a Hogwarts, non solo per il suo primo anno. Poi, il 30 dicembre 1990, accadde qualcosa che cambiò per sempre il mio mondo e quello di Harry: la morte di mia madre. Fu un periodo terribile. Mio padre, Di e io eravamo sconvolti. Mia madre aveva solo quarantacinque anni e non avevamo mai immaginato (probabilmente perché era un’idea intollerabile) che potesse morire così giovane. Ricordo che mi sentivo come se una lastrone di cemento mi schiacciasse il petto: un vero e proprio dolore nel cuore. Nove mesi dopo, con un disperato bisogno di allontanarmi un po’, partii per il Portogallo, dove una scuola di lingue mi aveva assunta per insegnare inglese. Portai con me il manoscritto di Harry Potter, nella speranza che il mio nuovo orario di lavoro (insegnavo al pomeriggio e alla sera) fosse favorevole alla crescita del mio romanzo, che era cambiato parecchio dalla morte di mia madre. I sentimenti di Harry verso i suoi defunti genitori erano diventati molto più profondi e molto più reali. Nel corso delle mie prime settimane in Portogallo scrissi “Lo specchio delle brame”, il mio capitolo preferito di “La pietra filosofale”. Speravo di tornare dal Portogallo con il libro terminato sotto il braccio. Non fu così, ma quello che riportai era addirittura meglio: mia figlia. Avevo conosciuto e sposato un portoghese; il matrimonio non funzionò, ma mi donò il regalo più bello della mia vita. Jessica e io arrivammo a Edimburgo, dove viveva Di, proprio in tempo per il Natale del 1994.Volevo ricominciare a insegnare e sapevo che, se non avessi terminato in fretta il libro, forse non lo avrei mai finito. Sapevo che l’insegnamento a tempo pieno, con la correzione dei compiti e la preparazione delle lezioni, per non parlare di una bambina piccola di cui occuparmi da sola, non mi avrebbero lasciato un attimo libero. Quindi, mi misi a lavorare freneticamente, decisa a terminare il libro e a tentarne la pubblicazione. Ogni volta che Jessica si addormentava nel suo passeggino, mi precipitavo al bar più vicino e scrivevo come una pazza. Scrivevo quasi tutte le sere. Poi dovetti dattiloscriverlo tutto. Qualche volta odiavo quel libro, pur continuando ad amarlo. Finalmente era pronto. Misi i primi tre capitoli in una bella cartellina di plastica e li inviai a un agente letterario; tornarono così velocemente che deve avermeli rispediti il giorno stesso del loro arrivo. Ma il secondo agente a cui li mandai mi rispose chiedendomi di vedere il resto del manoscritto. Quella fu senza dubbio la lettera più bella di tutta la mia vita, ed era composta di due sole frasi. Ci volle un anno perché il mio nuovo agente, Christopher, trovasse un editore. Fu rifiutato da molte case editrici. Finalmente, nell’agosto del 1996, Christopher mi telefonò e mi disse che Bloomsbury aveva “fatto un’offerta”. Non potevo credere alle mie orecchie.

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“Vuoi dire che sarà pubblicato?”, gli chiesi piuttosto stupidamente. “Sarà davvero pubblicato?” Dopo aver riappeso, iniziai a urlare e a saltare di gioia, mentre Jessica, che stava facendo merenda nel suo seggiolone, sembrava proprio spaventata. Probabilmente il seguito della storia già lo conoscete.

J. K. Rowling

Joanne Rowling nasce a Chipping Sodbury, vicino Bristol, Gran Bretagna, il 31 Luglio 1965. Si laurea alla University of Exeter.

Nel 1996, la casa editrice Bloomsbury pubblica Harry Potter e la pietra filosofale, che diventerà il primo di una lunga serie di best seller.

Dei suoi libri sono state vendute 325 milioni di copie nel mondo, tradotti in 65 lingue.

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| Top in seta rosa con scollatura dietro in seta trasparente, DEBORA SINIBALDI |

Model | Olga Akhunova Model agency | Women Management Milan www.womenmanagement.itPhotographer | Nicholas RoutzenFashion Stylist | Irene De Santis Make Up And Hair | www.Kristenarnett.com for “Smashbox cosmetics”

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| Abito in seta in tessuto doppiato color petrolio, beige , nero e fango, ANGELOS FRENTZOS | Collant grigio velvet deluxe, WOLFORD | Sandalo zeppa con fibbia blu, KRIZIA p/e2008 | Collana in fili d argento indossata come bracciale, CALGARO “fever collection”|

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| Camicia in seta viola , motivo plissé sul collo, CARTA & COSTURA | Pantalone sigaretta nero in tessuto stretch di gabardine,con zip, VICTOR VICTORIA | Anello in filo in argento colorato nero, motivo fiore, CALGARO |

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| Tubino nero smanicato in tessuto stretch con motivo ruches, VICTOR VICTORIA | Collant nero senza cuciture semiopaco- coprente, WOLFORD | Decolleteè in camoscio nero, CESARE PACIOTTI | Foulard girocollo in filo argento colorato giallo, motivo fiore, CALGARO |

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| Dolcevita in chiffon trasparente nero ,motivo plissé, VICTOR VICTORIA | Coulotte in lycra nero CALVIN KLEIN | Collant in lycra elastam rosa, DIMENSIONE DANZA | Plateau in vernice nera, YVES SAINT LAURENT | Bracciale in oro e madreperla rosa, CALGARO”Cipria collection” |

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| Blusa in satin plissè bordeaux, VICTOR VICTORIA | Bracciale foulard in filo argento colorato bordeaux, CALGARO | Collant nero velvet deluxe, WOLFORD |

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| Abito bustier in raso blu , CNC COSTUME NATIONAL | Reggiseno a fascia push up ricamato nero e rosa, spalline con fiocchi rosa, LA PERLA Black | Collant blu semi-trasperente , WOLFORD | Plateau in vernice nera , YSL |

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L’autrice Paola Giovetti ci conduce per mano in un excursus di profezie che dalla Genesi, passando per Nostradamus e per la civiltà Maya, giunge fino ai “crop circles” , i famosi cerchi nel grano, cercano di far luce su ciò che realmente avverrà nell’anno 2012. Una vera e propria raccolta di tutte le profezie sull’argomento che fa giungere alla conclusione, o per meglio dire, alla domanda aperta che rivelataci anche dal titolo dello stesso libro: è veramente la fine del mondo, nel senso apocalittico della parola, che dobbiamo aspettarci per l’anno 2012 o la fine di un’Era, di una civiltà, di un modo di vivere e concepire la vita? Un libro sicuramente esaustivo che gli appassionati non possono perdere.

PAOLA GIOVETTI2012 fine del mondo o fine di un mondo?

Masaru Emoto, nato in Giappone nel 1943, dottore e scienziato, ha scoperto che le molecole dell’acqua reagiscono ad un qualsiasi stimolo esterno. Dal suo incontro con Jürgen Fliege, famoso parroco televisivo tedesco, nasce il libro “L’acqua che guarisce”. L’acqua viene analizzata coma “materia prima”, come simbolo dell’anima, e, quindi, per il suo valore curativo. Un processo questo conosciuto perfettamente dalle antiche civiltà e religioni dove l’acqua, ed i luoghi ad essa correlati, come ad esempio le terme, hanno da sempre svolto un ruolo essenziale. Emoto passa in rassegna coincidenza religiose e storiche confrontandole, e approvandole, attraverso prove scientifiche per giungere alla conclusione che l’acqua, elemento per sua natura ricettivo, può essere vivificato, ossia caricato di un certo tipo di energia curativa capace di aprire nuove strade nella ricerca terapeutica e medica, inserendosi, come elemento completamente naturale, nelle lista delle medicine non convenzionali.

MASARU EMOTOL’acqua che guarisce

di Massimo Cimarelli

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Haida|la forza della tradizionedi Daniele Ricci

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Nonostante i drammi e le difficoltà scaturiti dal contatto con gli Europei, gli Indiani Haida originari delle isole Queen Charlotte hanno fatto della loro arte millenaria il principale mezzo di continuazione della propria cultura. La centralità dell’arte all’interno della società Haida è attestata sin dall’età primitiva. I manufatti che recano immagini araldiche antropo-zoomorfe costituiscono i principali tesori di famiglia, in quanto attestano il bagaglio dei titoli e delle conoscenze acquisite da parte di un lignaggio nel succedersi delle generazioni. I simboli, le formule cerimoniali segrete, i canti, i passi di danza, costituivano il patrimonio culturale di un lignaggio e degli individui che ne facevano parte e ne definivano la posizione sociale all’interno della comunità. Ogni individuo poteva acquisire ulteriori titoli derivanti da meriti personali oppure, nel periodo coloniale, da ricchezze accumulate. Tra le figure zoomorfe più rappresentate figurano il corvo e l’aquila, emblemi delle due metà in cui era divisa la nazione Haida. Ma le immagini Haida colpiscono principalmente per il loro carattere astratto. E’ quasi sempre impossibile infatti capire cosa rappresenti una raffigurazione. Esse sono costituite spesso da parti anatomiche umane e animali isolate e ricomposte senza badare alla resa realistica dell’immagine, dove spesso si possono riconoscere, grazie a codici di traslazione simbolica convenzionali, pinne dorsali per l’orca, code e denti per il castoro, un certo profilo di becco per l’aquila, un altro per il corvo e così via. In uno stesso disegno possono comparire diverse parti anatomiche di animali e esseri semi-umani. Lo stile richiama quello del vicino popolo Tlingit, ma tuttavia rispetto a questi ultimi si tende a una maggiore semplicità nelle colorazioni e allo stesso tempo a una più ricercata composizione.

Per gli artisti Haida ogni superficie potenzialmente decorativa era adatta ad essere dipinta o incisa con gli emblemi araldici del proprio lignaggio. L’impianto iconografico era dipinto in tre colori: il nero per le linee principali, il rosso per le linee secondarie, e il blu, facoltativo, per gli occhi, le orecchie e ogni singolo elemento ovoidale. L’andamento delle linee è sempre curvilineo e il loro spessore non è mai costante. La ricerca dell’astrazione delle forme fino all’offuscamento quasi totale degli elementi simbolici contenuti nell’opera mostrava il valore e l’originalità dell’artista. Le insegne araldiche venivano anche tatuate su diverse parti del corpo e riprodotte sulle canoe, sugli oggetti di uso quotidiano e sui pali totemici. Questi ultimi rappresentavano dettagliatamente la storia e il retaggio del suo titolare. Erano posti davanti alle abitazioni e guardavano verso il mare, fonte di vita nonché luogo mitico di provenienza degli Haida. I pali totemici erano scolpiti nel legno e per la loro erezione era prevista l’istituzione di un potlatch, cerimonia nella quale si riuniva l’intera comunità per assegnare o confermare lo statuto raggiunto da un individuo, la costruzione di una casa, le contese, la commemorazione di un defunto e appunto l’erezione di un palo totemico. Gli animali raffigurati in un palo totemico non rappresentano la discendenza da un animale/antenato mitico, ma hanno legami pratici con il proprietario del totem riconducibili sia all’esperienza quotidiana che alla sfera mitica del clan. Le figure plastiche dei pali totemici sono maggiormente realistiche rispetto ai dipinti e alle varie decorazioni, anche se spesso vi sono rappresentate figure animali ibride.

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L’arte Haida denuncia il bisogno di rappresentare visivamente la continuità dei mondi umano e soprannaturale, oltre che la necessità di dichiarare visivamente il proprio rango e l’appartenenza a un determinato lignaggio piuttosto che a un altro. Tale continuità oltre che dai pali totemici è ben rappresentata anche dalle maschere. Queste assumevano una funzione centrale nelle cerimonie dedicate agli esseri soprannaturali, da cui dipendeva la sopravvivenza della specie umana, e nei rituali delle società segrete. Le maschere rappresentavano infatti gli esseri dei quattro mondi in cui era diviso l’universo Haida: il mondo sotterraneo, il mondo marino, il mondo degli uomini e il cielo. Nelle maschere che raffiguravano volti umani veniva ricercato un certo realismo, che avrebbe sancito il rango della persona che la indossava. Più il volto rappresentato dalla maschera era conforme alle fattezze reali maggiore era il rango di chi la possedeva. Le tipologie di maschere si dividevano in “maschera a volto singolo”, “maschera meccanica” e “maschera –metamorfosi”. Mentre la prima raffigurava un unico volto umano, la seconda era costituita da parti mobili (gli occhi, le palpebre, la mascella). Le “maschere-metamorfosi” invece rivelavano una seconda rappresentazione, solitamente un essere zoomorfo, tramite particolari meccaniche che ne consentivano la trasformazione durante le rappresentazioni cerimoniali.

Oggi l’arte Haida è viva e vegeta e rappresenta una delle principali fonti di sostentamento dei pochi nativi rimasti nel villaggio di Old Masset, nella parte settentrionale dell’Isola di Graham, grazie anche alla sua capacità di adattarsi al cambiamento dei canoni estetico-stilistici e dei materiali conseguiti dal contatto con i canadesi. Tra i più importanti artisti contemporanei vanno ricordati Bill Reid, famoso per aver reinventato le forme classiche Haida e per i suoi lavori in arte orafa, tra cui la nota Black Canoe realizzata in bronzo nel 1991; Robert Davidson, specialista della scultura in legno e discendente di quel Charles Edenshaw che sul finire del XIX secolo impedì che la tradizione Haida avesse fine e creò i presupposti che le assicurarono la necessaria continuità culturale con il passato; Jim Hart, a cui va dato il merito di aderire a schemi e canoni estetici tradizionali pur senza rinunciare alla sperimentazione individuale.

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