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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VII - numero 82 Campailla: Michelstaedter, cent’anni di solitudine.

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Novembre / 2010

Editora ComunitàRio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttore responsabilePietro Petraglia

EditoreFabio Pierangeli

GraficoWilson Rodrigues

COMITATO SCIeNTIfICO

Alexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro Santos Simões Junior (UNESP); Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”);

Andrea Santurbano (UFSC); Andréia Guerini (UFSC); Anna Palma (UFSC); Cecilia Casini

(USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ.

Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. Wisconsin-

Madison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz

Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira (PUC-RS); Mauricio Santana

Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael Zamperetti

Copetti (UFSC); Roberto Francavilla (Univ. de Siena); Roberto Mulinacci (Univ. di

Bologna); Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina

(Univ. “G. d’Annunzio”); Wander Melo Miranda (UFMG).

COMITATO eDITORIALe

Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia

Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni;

Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo;

Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio

Michele; Victor Mateus

eSeMPLARI ANTeRIORI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31

Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti

brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima

libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero

della direzione.

SI RINGRAZIANO

“Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero”

STAMPATORe

Editora Comunità Ltda.

ISSN 2175-9537

Sergio Campailla:Carlo Michelstaedter far di

se stesso fiamma.

«Carlo Michelstaedter nasce il 3 giugno 1887 a Gorz (Gorizia), allora cittadina dell’Impero Austro-Ungarico, da Alberto ed Emma Luzzatto Coen

[…] Conseguito il diploma di maturità, si iscrive alla Facoltà di Matematica di Vienna, ma prevale l’attrazione per Firenze, città d’arte e cui lo richiama il sentimento d’italianità. […] E’ il tempo del sogno di un’esistenza artistica, e delle emozioni per la scoperta delle bellezze della città […] Il destino gli fa incontrare Nadia Baraden, un’affascinante e misteriosa donna, che presto concluderà tragicamente la sua vita ed eserciterà un’influenza decisiva su di lui […] Occorre impegnarsi per gli esami e le prove d’obbligo […] ma qualcosa è ormai cambiato. Le letture dei presocratici, di Ibsen e Tolstoj, un impressionante ritmo di maturazione culturale, l’esperienza amara della socie-tà e dei condizionamenti di un’epoca, determinano una crisi profonda e oscura. Carlo ritorna a Gorizia in occasione delle festività e delle vacanze estive, ma anche il rapporto con la famiglia, nonostante l’immensa affettività non sfugge a questo ripensamento critico. Lasciano il segno problemi imprevedibi-li di ordine fisico e la disgrazia toccata al fratello Gino, emi-grato negli Stati Uniti. […] S’accentua l’interesse per la figura di Cristo e per la dimensione religiosa. Falliscono tentativi di collaborazione a quotidiani e case editrici. Conclusi gli esami, rientra definitivamente a Gorizia […] L’ultima estate, facendo vita di mare a Pirano, sogna di liberarsi. Il 17 ottobre 1910, all’età di ventitré anni, nella casa di Piazza Grande, dopo aver ultimato il lavoro di tesi e averlo spedito alla segreteria dell’uni-versità fiorentina, ormai prossimo alla dissertazione di laurea, si toglie la vita con un colpo di pistola alla tempia. I bagliori della prima guerra mondiale non sono lontani. Non ha ancora pubblicato nulla. Le sue opere verranno alla luce, lentamente, postume. Nasce il mito».Sergio Campailla, pannello iniziale della mostra Carlo Michel-staedeter far di se stesso fiamma, inaugurata a Gorizia il 17 ottobre 2010, catalogo Marsilio edizioni.

Come sempre, non resta che augurare, buona lettura!

Gli editori

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Saggi

Fabio PierangeliSergio Campailla: Carlo Michelstaedter, cento anni di solitudine? pag. 04

Salvatore MartinoAssolato compagno d’ipogei a Sergio Campailla pag. 06

Paola CulicelliMemorie di un cacciatore di verità. Il segreto di Nadia B. pag. 07

Sergio CampaillaIl segreto di Nadia B. (premessa e primo capitolo) pag. 10

Fabio PierangeliIl segreto di Nadia. pag. 14

Bernardina MoriconiIl paradiso terrestre di Sergio Campailla. pag. 18

Michela FicaraCarlo Michelstaedter: dal deserto al maré pag. 23

Paula Michelstaedter Winteler, sorella di Carlo (aprile 1939),pubblicata da Sergio Campailla in Pensiero e poesiadi Carlo Michelstaedter, Bologna Patron, 1973 Appunti per una biografia di Carlo Michelstaedeter pag. 26

Giovanni AntonucciLa melodia del giovane divino di Carlo Michelstaedter pag. 30

Paola CulicelliMichelstaedter personaggio: La melodia del giovane divino. pag. 32

Luigi A. ManfredaNote sull’idea di linguaggio nella Persuasione. pag. 35

Valentina LunatiLa <<Madama morte>> di Carlo Michelstaedter pag. 38

Rubrica

Francesco AlberoniLa vanità, vizio leggero solo se sta fuori dal potere pag. 42

Passatempo pag. 43

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Sergio Campailla:Carlo Michelstaedter, cento anni di solitudine?

Fabio Pierangeli

Desidero, anche dalle colonne di Mosaico, esprimere la personale

gratitudine per l’invito al Con-vegno, La via della persuasione promosso dall’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuro-pei, presidente attento e colto Marco Grusovin di Gorizia, città natale del filosofo-scrit-tore-poeta il 18 e 19 ottobre 2010, svoltosi in esatta coin-cidenza con la morte del gio-vane goriziano, avvenuta il 17 ottobre del 1910 e promosso da un Consiglio scientifico di alto profilo, guidato da Sergio Campailla. E anche, più in ge-nerale, ringraziare la città di Gorizia per l’accoglienza, già sperimentata a maggio con la cortese attenzione alle mie ri-cerche dell’attuale custode del Fondo Carlo Michelstaedter, dottoressa Antonella Gallarot-ti. Ho avuto così la possibili-tà di essere posseduto, anche

fisicamente, dalla atmosfera paesaggistica così centrale nell’universo di Michelstaedter, “scalando” a mio modo, in bicicletta, unendo la mia fati-ca alla energia dei suoi versi, delle sue parole, della sua cor-poralità, il “suo” San Valentin, intuendo quale poteva essere l’ebbrezza della discesa tra le pietraie, lungo quel ripido, sia pur non altissimo costone, che, dal magnifico ponte di Salca-no, sembra discendere diretta-mente tra le acque color sme-raldo dell’Isonzo, altro luogo mitico del destino del giovane, intento a trovare la sua via, a cui non negava ogni tipo di esperienza, in alto o negli abis-si. Le pietre del Valentin: così importanti tanto che se ne fece inviare una dalla sorella, quan-do era a Firenze, e vi incise delle note di Beethoven.

Il tema del Convegno si ispira alla pagina introduttiva

della tesi di laurea di Carlo Mi-chelstaedter, La persuasione e la rettorica, rimasta non discus-sa, per la tragica morte, avve-nuta proprio alla vigilia della dissertazione e ora considera-ta indiscusso capolavoro del pensiero filosofico e lettera-rio del Novecento europeo. Il giovane laureando scriveva di essere ben cosciente di parla-re al vuoto, ripetendo soltanto ciò che i veri persuasi avevano già detto, rimanendo del tutto inascoltati nel loro messaggio di incitamento ad ogni uomo di cercare la strada della veri-tà senza infingimenti, ipocrisie, compromessi. Personalità ama-te visceralmente per intrapren-dere una propria via, non per seguirli: Parmenide, Eraclito, Empedocle, Socrate, l’Ecclesia-ste, Eschilo, Sofocle, Simonide, Cristo, Petrarca, Leopardi, Bee-thoven, Ibsen. Uomini persuasi tutti traditi da falsi “discepoli” per ragioni diverse ma sempre di stampo violento ed egoisti-co, di potere, per costruire dot-trine, chiese, generi letterari.

Sergio Campailla, nella pro-lusione al Convegno, parlava, citando la lettera inedita a Cro-ce, e altri episodi di difficoltà di Carlo di inserirsi nel mondo editoriale e della letteratura del suo tempo, di un sistema chiuso, di un muro innalzato dalla cultura dominante rispet-to alle energie nuove e giovani che condannava Carlo a «cen-

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to anni di solitudine». Oggi è cambiato qualcosa? si chiede-va Campailla e anche Giorgio Brianese, autore di diverse mo-nografie sul tema, con parole difficilmente eludibili se si vuo-le veramente rendere onore al geniale ragazzo di Gorizia, sintetizzava gli elementi di un paradosso evidente. Michelsta-edter riderebbe o irriderebbe il goffo, se non retorico, parole, parole, parole, tentativo di ri-cordarlo, lui che non ha scritto una solo parola a questo scopo, e che anzi aveva avuto parole feroci contro la vanità del pro-fessore e dell’artista. Ripensan-do ai colloqui con Sergio Cam-pailla, in particolare a Napoli, una quindicina di anni orsono, uscita l’edizione critica della Persuasione, probabilmente mi accorgo di aver innalzato quel muro, davanti alla possibilità di accostarmi a Michelstaedter, a pormi in modo cruciale quelle domande pressanti, anche sui motivi dell’esistenza e del rap-porto di questa con la profes-sione. Forse un rimosso, forse semplicemente un rifiuto mo-tivato da una superficialità di accostamento ad un universo che richiede una totalità di im-mersione. Accettando con tra-sporto la proposta di Campail-la di intervenire al Convegno di Roma e successivamente a questo di Gorizia, il rimosso esplodeva con le questioni get-tate con forza da Brianese nel tranquillo lago della letteratura o della filosofia di chi ne parla inevitabilmente dall’esterno.

Domande a cui provavo a rispondere confusamente e in una “via” che ora mi appare più chiara: per temperamen-to, per carattere, per obiettivi limiti, per partecipazione “in-teressata” alla comunella dei malvagi, la strada della persua-sione rimane un punto lonta-nissimo. Eppure, accolgo con

grande entusiasmo la proposta di Brianese e poi, in conclusio-ne del convegno, di Campailla, a cui ero arrivato ad un passo: la testimonianza del ventenne genio di Gorizia rimane un monito severo, spregiudicato, pagato con l’estremo sacrificio (qualunque ne siano i motivi, che devono essere avvolti dal silenzio rispettoso ) di cerca-re sempre la parte migliore di noi stessi (la parte divina, non esita a definirla Brianese), ri-mettendosi continuamente in gioco (per esempio nel rappor-to con i giovani, mi permetto di aggiungere, nel nostro me-stiere di docenti, cercando il più possibile di non innalzare, per quanto ci compete, quel muro). La avverto quasi quo-tidianamente, da quando mi sono accostato con più serietà a Carlo Michelstaedter, questa energia positiva, radicale, con-tro la rassegnazione al com-promesso, alla faciloneria, al lassismo nei rapporti con gli altri. Carlo chiede tutto, dice-va Campailla, ci propone lo scardinamento di un rimosso, domande, ecco il punto in-fuocato, la questione da non chiudere mai, senza risposta, ma molto più vitali di qualsiasi dottrina o fiosofia. Carlo parla a chi sa essere giovane, forever young. Ma cosa è la giovinezza se non meraviglia e domanda continua, quella appunto più vitale di ogni risposta aprioristi-ca, che certo ti fa camminare sempre in bilico sugli abissi ma ti chiede conto continuamente del tuo essere uomo?

La gratitudine espressa all’inizio è dunque ancora maggiore, per il risuonare di tali questioni fondanti, senza le quali la passione per la let-teratura sarebbe sterile com-putazione di dati. Entrare in punta di piedi nell’universo di Carlo Michelstaedeter implica,

come pochi altri autori, que-sta totale disponibilità, questa devozione. Non per nulla il principale artefice del revival di Carlo, dal 1970 in poi è uno scrittore vero, tra i pochissimi sulla scena internazionale di questa intensità, finezza, capa-cità di variare registro e ambiti per arrivare al fondo dei miti dell’attualità: Sergio Campail-la. A lui si deve la nascita del Fondo Carlo Michelstaedeter, con l’amorosa e competente cura delle carte, la biografia commovente e documentata, romanzo-verità di incredibile pienezza, Ai ferri corti con la vita, quelle introduzioni ogni volta nuove, alle Poesie, al Dia-logo della salute, alla Persua-sione e la Rettorica. Appendici critiche, alla Melodia del giova-ne divino, all’Epistolario (tutte per Adelphi) allo struggente catalogo della Mostra aperta a Gorizia fino al febbraio del 2011 Carlo Michelstaedeter far di se stesso fiamma, Marsilio, che formano, messe insieme, un racconto umano strepito-so, unico. Il segreto di Nadia B., uscito a settembre 2010 in Italia per Marsilio, svelando per la prima volta la vicenda e il profilo di questa ragazza russa di cui Carlo si era invaghito, ne è un altro capitolo a dir poco sorprendente, che ha lasciato senza fiato gli appassionati di Michelstaedter.

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Assolato compagno d’ipogei a Sergio Campailla

Salvatore Martino

Fratello perduto ad Agrigentonegli ipogei inviolatifratello ritrovato nel recinto di lava

Por la blanda arena que lame el marsu pequeña uella no vuelve masun giorno ti farò ascoltarequesta canzone per Alfonsina Stornii suoi versi mi hanno accompagnatoin un tempo di oscura solitudineLa morte di un poetasopravvive al memorabile obliosi dilata nel tempo quasi nebbia

Ti vedo a volte come Vanni Corvaiail tuo protagonista nel “Paradiso”anch’egli perduto nell’ipogeometafora perfetta della vitaa incontrare il doppioche anche tu ricerchicon paura forse con ostinazioneil compagno che stenti a riconoscereombra dell’ombrafaccia di durissima moneta

E i corpi bagnati dalla sabbiaquell’andare stranito a Selinuntedei due giovani amantitra le pagine amaredell’altro tuo raccontoquella gabbia spietataquella fine che hai fossilizzatola mano dell’amico all’altra manoverso quel nome ignotoche nessuno deve pronunciare

L’orma minuscola che prima ti parlavostampata sulla renal’orma di un poetache s’abbandona al mareè forse quello che rimane di noi del nostro andaredi tutto quello che non siamo stati

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Memorie di un cacciatore di verità. Il segreto di Nadia B.

Paola Culicelli

Nadia B.: un fantasma che per trentaset-te anni ha abitato la

mente di Sergio Campailla. L’ha tormentato, chissà, nelle notti insonni, ha battuto forse i piedi sul pavimento, strepitato, chiedendogli udienza al pari di un personaggio pirandelliano. Morta di morte violenta per mano propria, suicida, aveva una sua storia da raccontare, un suo segreto, inconfessabile.

La sua verità è stata distorta, seppellita, dai molti che l’han-no riportata, superficialmente, nelle cronache dei “giorna-li pettegoli”, quelle cronache che, all’indomani della sua scomparsa, hanno dato vita a molti sosia, molte Nadia, che

pure non erano lei. Sotterrata da altre verità, dai suoi stessi doppi, è stata condannata a Cento anni di solitudine, di son-no senza sogni, come una Bel-le au bois dormant delle fiabe. La sua è una fiaba sì, ma enig-matica, tragica, oscura: “come una fiaba russa” o, se si vuole, “come un romanzo russo”.

Dal passato, una notte in cui “tutte le vacche sono nere”, il suo volto riemerge misterio-so come da un pozzo profon-dissimo. È un passato remoto, gli anni trascorsi sono cento, numero magico dai connotati cabalistici: «È come il mare, pieno di vita segreta, che de-posita i suoi relitti sulla spon-da, in successive ondate, nel

tempo». Simile a un palom-baro, un archeologo, come si definisce a più riprese, l’autore non è rimasto lì a guardare: «noi siamo troppo abbagliati da quel buio ed è affascinante poter calare una sonda».

4 marzo 1973: seguiamo l’io narrante, Campailla perso-naggio, mentre entra nella casa di via Cadorna 36. È lì che sono custodite le carte di un “giovane sospettato di genio”, morto suicida a ventitré anni, carte che trasmettono “l’eco di una voce”, raccontano “una passione solitaria, inarrestabile, vana”. È lì che prendiamo tra le mani l’Ultimo foglio scritto da Carlo, “macchiato del suo san-gue”: la stigma “dell’identifica-zione tra sangue e scrittura”. È lì che ci appare, per la prima volta, il fantasma di Nadia. Due lettere della donna ven-gono bruciate sotto i nostri oc-chi, la fiamma sembra evocare il biondo fulvo dei suoi mera-vigliosi capelli. Nadia è nella fiamma che arde: è la fiam-ma. «Io non sono fatta per la vita, / in me tutto è incendio»: sono due versi tratti da Il paese dell’anima di Marina Cvetaeva, posti in epigrafe al libro. Pos-siamo prendere in prestito le parole di Michelstaedter: «La lampada si spense per man-canza d’olio», mentre Nadia,

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proprio come lui, si spense «per traboccante sovrabbon-danza». È la sua stessa forza ad ammalarla, la sua energia, il suo fuoco a bruciarla. E l’in-tensità del fenomeno non può che consumarsi rapidamente. Dopo l’incendio, solo l’oscuri-tà e il silenzio. Le lettere sono ormai cenere. Poi, un’appari-zione: il ritratto di Nadia ese-guito da Michelstaedter:

Un olio su tela. Dedicato a una giovane donna. Con un col-letto bianco alto a coprire per intero il collo, una collana, un fiore all’altezza del seno. Con i capelli biondo fulvo, o rossi, e degli occhi grandi e visionari, isolata in una luce spirituale.

Siamo di fronte a «due storie parallele, di Carlo e di Nadia, al maschile e al femmi-nile». Due destini che si incro-ciano nel loro viaggio astrale, brillano, rifulgono, per spe-gnersi tragicamente come una supernova in un magnetico

buco nero che ci attrae.È così che ha inizio la re-

cherche, o meglio l’indagine, come in una spy story. Si vuo-le scoprire la verità su Nadia, fare luce. Seguiamo le tracce del critico-investigatore senza staccare l’occhio dalla pagina. È tutto vero, tutto documenta-to, eppure il caso di Nadia B., un giallo dalle tinte noir, che irrompe inedito nel nostro pre-sente, sembra uscito dalla pen-na di Dostoevskij. Il critico in realtà è uno scrittore, chi altri infatti potrebbe essere perse-guitato da spettri!

La protagonista, abbia-mo detto, ha molti sosia, tan-ti quante sono le versioni dei cronisti su di lei. La sua imma-gine, pagina dopo pagina, si moltiplica, così come si molti-plicano i suoi ritratti. Ognuno ha voluto vederla a suo modo. Mentre sotto i nostri occhi scorre la galleria dei ritratti, da quello di Passigli, passando per

quello di Michelsatedter, per finire con quello di Marfori-Savini, abbiamo l’impressione che il destino della donna sia quello di essere ritratta dall’uo-mo. Sappiamo di Nadia quello che gli uomini ci hanno detto di lei, la vediamo così come l’hanno raffigurata: è l’altra metà della Luna, quella che rimane eternamente in ombra.

Chi è Nadia? È la doman-da che continuamente si pone Campailla e ci poniamo noi lettori, facendogli eco. Sco-priamo che ha attraversato la vita di Michelstaedter, “peri-colosa come una cometa”. Ep-pure per un tempo infinito, per un secolo, non è stata che una piccola nota, un nescio quis, al massimo Nadia B.

La sua verità è un segreto, dal latino secretus, e dunque è nascosta, chiusa ermeticamen-te. Sta in ciò che non è stato detto. Nel cuore del libro, tre-dici righe listate a lutto, cancel-late con smania di rimozione da un pennarello nero, cattura-no la nostra attenzione. La ve-rità, Il segreto di Nadia B., sta in quel cuore nero, continuamen-te “insidiata dalla menzogna”.

B. sta per Baraden ma non finisce qui: il nome completo è Nadia Baraden Grigor’evna Haimowitch. I cognomi rap-presentano il rimosso, l’im-pronta maschile sulla sua vita. Baraden è il marito che l’ha tra-dita, l’agente segreto russo che si era finto anarchico per car-pirle i suoi segreti, mentre Gri-gor’evna e Haimowitch sono rispettivamente il patronimico e il cognome del padre che, al suo posto, avrebbe desiderato un figlio maschio. Non saran-no gli unici a infliggerle ferite mortali. Nadia, in verità, “è sta-ta suicidata”.

Donna, ebrea, russa, anar-chica: è l’altra, la diversa, una creatura demonica che abita la

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soglia. E propriamente Nadia è un demone, ma al femmini-le. Anche lei, come Stavrogin nei Demoni, ha un crimine da confessare, una violenza. Men-tre Stavrogin è l’uomo che ha usato violenza su una bambi-na, e dunque rappresenta il carnefice, Nadia è la vittima, è la bambina. Proprio il suo esse-re straniera, ebrea, sovversiva, donna, di una bellezza esotica, colta, anzi coltissima, fa sì che venga relegata ai margini, ban-dita dalla società come l’agnel-lo pasquale spinto nel deserto a espiare i peccati degli altri. Nel-la Firenze di inizio Novecento, Nadia è l’antitesi della Donna fiorentina del buon tempo an-tico, tratteggiata da Isidoro Del Lungo: non può che assurgere al ruolo di capro espiatorio.

Il titolo, così intrigante, d’ef-fetto, può sembrare di facile let-tura. Alla fine si rivela tutt’altro. Il segreto di Nadia B. non ha niente a che fare con il suo sta-tus di spia anarchica. Quando tutti i segreti sembrano svelati, ci rendiamo conto che il segre-to era un altro. I segreti, Nadia non è stata capace di tenerli per sé; ingenua, forse troppo generosa, se li è fatti rubare da-gli uomini, dagli amanti che a turno l’hanno ingannata: «c’era nella sua personalità un difet-to originario, un’ingenuità che la predisponeva alla caduta». Che strana spia: di certo, “non è una Mata Hari”!. Il suo unico segreto, quello che ha custodi-to gelosamente per poi rivelarlo a Michelstaedter in limine mor-tis, è il solo che invece avreb-be dovuto gridare al mondo. Nadia è stata violata, violée. Siamo risaliti alla sorgente del dolore, al «rimosso primario della nostra civiltà», al Caput Nili, una sofferenza le cui la-crime scorrono segrete come un fiume carsico. Tuttavia, la verità di Nadia, il suo segreto,

«è un diritto che si può rinviare, ma non sopprimere. Come può essere un male conoscerla?» In un tempo in cui finalmente ci rendiamo conto che il mostro peggiore, l’orco, non è il lupo nero che abita i boschi ma in realtà si nasconde dentro casa, fare la conoscenza del Dottor Masson ci apre gli occhi.

Ci piace pensare tuttavia che, così come è possibile che la donna menta, è possibile che menta l’autore: «Quello che è vero diventa, autorevolmente, falso. Una meravigliosa distri-buzione e un rovesciamen-to dei ruoli: chi dice la verità, mentisce; e chi dice il falso, ha ragione. Nessuno scoperchierà il vaso». Per quanto riguarda il romanzo, sarebbe comunque ammaliante, per quanto invece riguarda l’istanza critica, scien-tifica, la quest della verità, si sa-rebbe in ogni caso detta la veri-tà sulla donna, non solo su Na-dia ma su tutte le donne. Anche una menzogna può, per viam negationis, rivelare una verità. Persino un diavolo incarnato come Ser Ciappelletto può ispi-rare buone azioni. Così Nadia ci ricorda molto da vicino un altro personaggio di Campailla, Alessandro conte di Cagliostro, protagonista della Divina truffa.

Nadia è la musa segreta del melanconico Carlo Michelsta-edter, «il personaggio occulto, la rivoluzionaria persuasa al femminile, la donna che man-cava nel catalogo dei persuasi, tutti uomini, stilato nella pre-fazione all’opera maggiore». È un doppio, al femminile, di Michelstaedter. Campailla con la sua scrittura ha disegnato un cerchio perfetto, da A ferri corti con la vita a Il segreto di Nadia B. Entrambi si presenta-no come saggi critici ma sono anche, sono soprattutto altro. Sono un unico romanzo, una leggenda d’artista. La leggenda

di Nadia è ancora più strug-gente perché è quella di un’ar-tista incompiuta. Alla nostra lista, bisognerebbe aggiungere “artista”. Dunque ricomincia-mo: donna, ebrea, russa, anar-chica, artista. Ci sono tutti i moventi, tutti gli indizi: Nadia “è stata suicidata”. “Il suo ca-polavoro - come ha osservato Campailla, lungi da ogni cini-smo, ma al contrario con una tenerezza ineffabile nei con-fronti del personaggio, della donna - è il suicidio”: «forse un’attrice, proveniente dai por-tici si affrettava al centro del palcoscenico e per guadagnar-si l’attenzione del pubblico, come se fosse una finzione, eseguiva l’atto più inquietante del mondo». È una “febbre” quella di Nadia, così come quella di Michelstaedter, La vocazione di Tristano, una feb-bre «di precocemente maturi che li conduce precocemente alla fine». Seguendo lo scritto-re nella sua “rapsodica emero-teca”, ci imbattiamo in un’epi-demia di suicidi. La tragedia non è solo quella di Carlo e di Nadia, è la tragedia di intere generazioni. La Belle Epoque distende le sue ombre contur-banti, di qua dei due conflitti mondiali, delle persecuzioni, del genocidio: un eccesso di energie inespresse che, come un magma, minaccia l’implo-sione. Eppure, nell’oscurità, Nadia accende una luce a se stessa, come Michelstaedter. Rivendica a denti stretti, con il veleno, con la rivoltella, la sua libertà di donna:

Etre libre du bonheur del’esclave, libre de l’adorationsans peur, éffrayant, grandet seul: voilà le désirde l’homme vrai.

L’anarchica, alla fine, userà le sue armi contro se stessa.

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Il segreto di Nadia B. (premessa e primo capitolo)

Sergio Campailla

Come un romanzo russo

Il futuro è imprevedibile. Ma anche il passato è un giacimento imprevedibile e nel buio, talora, riserva sorprese e scoperte emo-

zionanti. È come il mare, pieno di vita segreta, che deposita i suoi relitti sulla sponda, in suc-cessive ondate, nel tempo. Sul-la sponda, io ho raccolto quei frammenti e li ho messi insieme.

Il ritmo di questa resti-tuzione si rispecchia nelle modalità di racconto della mia storia. Non la ricostrui-sco infatti dai risultati finali, statica e chiusa, ma aperta, nella progressione dei dati acquisiti, alla ricerca di una verità incerta, insidiata dalla menzogna. Un po’ come in una spy story, quando si va a caccia di tracce e di prove e si vuole identificare l’autore di un delitto. Con la diffe-renza che qui si tratta non di un delitto, ma di un suicidio. E che, dalle testimonianze contrastanti, il personaggio sembra avere molti sosia.

Di recente Emmanuel Carrère ha dichiarato che solo le storie vere sono da romanzo. Almeno in par-te, ha ragione. Lo ha fatto in un’intervista a proposi-to di un suo libro di svolta, intitolato La vita come un romanzo russo. Ecco, que-sto è il mio romanzo russo, anche se non ho inventato niente: sta tutto nelle cose e si basa su personaggi re-almente esistiti. Un romanzo russo, che si sviluppa però su uno scenario europeo, tra Pietroburgo, Odessa, Lon-dra, Berlino, infine Firenze. Un romanzo fatto di avve-nimenti e immersioni, di pa-role e silenzi. Ho impiegato trentasette anni a scriverlo, a

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causa di resistenze interiori, pigrizia, difficoltà obiettive. Sua caratteristica è una vi-cenda tutta al femminile. La protagonista era come un fantasma, che visitava la mia mente e che perorava il suo diritto all’ascolto, in defini-tiva all’esistenza. Finché ho capito che era un personag-gio in cerca d’autore. E che io dovevo, dopo trentasette anni, essere quell’autore.

1. Un suicidio-spettacolo

Un frullo d’ali fu la prima reazione.

Uno sparo? Uno sparo nella centralissima e raffina-ta piazza Vittorio Emanuele?

Uno stormo di piccioni si levò in alto, timoroso e insie-me allegro. Si udì un grido di donna. Ma si alzarono anche altre grida, laceranti. Dal vi-cino Caffè e birreria Pazkow-sky, dai loggiati del Gambri-nus, dai Magazzini Morandi si vide gente correre verso il centro della piazza. In pochi istanti tutti si affacciavano alle porte, chiedevano noti-zie, si affannavano verso il luogo dell’assembramento.

Quello era il salotto buo-no di Firenze, una ex capi-tale che ancora era capitale sul piano della cultura, nato dall’opera di risanamento urbanistico della nuova Ita-lia, nell’area del demolito Mercato Vecchio, nella zona dove in passato si sviluppa-vano il ghetto e i postriboli. Sul suo fronte architettoni-co si allungavano, e ancora oggi si allungano, l’Hotel Savoy, uno degli alberghi più lussuosi in assoluto, e alcuni tra i caffè più noti della città. Oltre ai ricordati Pazkowsky e Gambrinus, il Gilli, esempio di caffetteria e pasticceria in stile Belle

Époque; dall’altro lato del-la piazza si trova il celebre Caffè delle Giubbe Rosse, che avrebbe raggiunto il suo picco di gloria nella stagione dell’Ermetismo, ma già di lì a poco avrebbe visto le ag-gressioni di Marinetti, Boc-cioni e Carrà nei confronti di Soffici e Medardo Rosso. In quello stesso anno 1907, al Caffè Pazkowsky Papini e Soffici effettuavano scorrerie contro esponenti di tenden-za culturale avversa. Al più, scazzottate di letterati, in cerca di pubblicità. Nulla di serio. Mentre in quella mite giornata, un 11 aprile di bea-ta primavera, quasi al centro della piazza giaceva un cor-po inerte.

Le grida non si placavano e la ressa cresceva. Non solo dai tavolini dei caffè, ma da via Strozzi, sotto il massiccio Arco di Trionfo a nido d’ape, da via Roma, da via Calima-la, affluiva una popolazione variopinta, bisognosa di no-vità. I curiosi si assiepavano per vedere con i loro occhi. Un bel motivo di pietà, di interesse. E di pettegolezzo.

Chi poteva essersi sparato in una giornata come quella, nella luce e nel tepore sen-suale del sole di primavera, in piena piazza, al tocco? Ci si ammazza, di solito, nel si-lenzio della propria camera, o gettandosi sotto un treno. Là dove non ci sono testi-moni, o spettatori. Mentre in

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piazza Vittorio Emanuele, a quell’ora, alle 13, il passeg-gio sfiorava il suo massimo. Sarebbe stato come decidere di togliersi la vita, poniamo per esempio a Milano, nella croce della Galleria tra il Bif-fi e il Savini, all’ora di punta. No, non la stessa cosa. Qui tra i gioielli monumentali di Firenze l’esibizione era maggiore: nel quadrilatero di piazza Vittorio Emanue-le, con il transito di gente tra i negozi sotto i loggiati, i tavolini all’aperto dei loca-li eleganti affollati di clienti, che si gustavano un pastic-cino, che leccavano un ge-lato, che sorseggiavano una coppa di champagne, che conversavano piacevolmen-te, in quei laboratori delle avanguardie, poteva sem-brare che fossero state pre-

disposte altrettante platee di teatro, in attesa. La brutta statua equestre di Vittorio Emanuele II, il re con cui si era giunti all’unità naziona-le, oggi rimossa dalla piazza ribattezzata della Repubbli-ca, era stata inaugurata nel mezzo, prima ancora che ai lati sorgessero i palazzi. A un certo momento qualcu-no, in preda ad agitazione, forse un’attrice, provenien-te dai portici si affrettava al centro del palcoscenico e per guadagnarsi l’attenzione del pubblico, come se fosse una finzione, eseguiva l’atto più inquietante del mondo.

Presto fu chiaro che l’in-cidente era gravissimo, anzi forse irrimediabile. A terra giaceva una donna, una gio-vane donna, vestita di un abito di velluto nero, come

a lutto, con una meravigliosa capigliatura bionda sotto un appariscente cappello, av-volto da un velo di amazzo-ne. Aveva una mano guanta-ta di nero. Con l’altra mano, la destra, impugnava un pic-colo revolver ancora fuman-te. Con quell’arma si era spa-rata alla bocca, da cui usciva un fiotto di sangue.

Uno spettacolo racca-pricciante. Una festa al con-trario. Una donna giovane, bella, alta, elegante, con i capelli d’oro, che decide di porre fine alla sua vita. La morte è sempre uno scon-cio. Ma la morte di una don-na giovane e bella colpisce anche di più. Tanto più una morte procurata con le pro-prie mani. La calca ormai diventava insostenibile. Una folla di centinaia di perso-ne premeva per vedere, per rendersi conto.

Chiedevano: chi è? È morta? Non ci sono spe-ranze? Perché? Perché l’ha fatto? Nessuno la conosce? Si sperava che fosse ancora viva, anche se in agonia. Se si sbrigavano i soccorsi, for-se avrebbero potuto ancora salvarla. Il primo grido dove-va essere stato il suo, della vittima.

La toccavano persino, senza riguardo…

Per fortuna si precipita-rono degli agenti municipali e delle guardie di Pubblica Sicurezza, a formare un ar-gine contro quell’invadenza. Intanto era stata avvisata per telefono la Compagnia della Misericordia.

Chi è? ripetevano.Qualcuno, proveniente dal

Gambrinus, riferì di aver no-tato la donna mentre si av-vicinava con aria angosciata ed entrava al Florence Club, il ritrovo degli aristocratici.

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Poco dopo, ne era uscita al-lontanandosi dal porticato, verso il centro della piazza, dove aveva estratto la pisto-la. A quel punto era troppo tardi per intervenire e impe-dirle il folle gesto!

L’avevano notata, perché era impossibile non notarla nella sua eccentricità e bel-lezza fuori del comune. Un tipo di bellezza esotica…

Era vero o si cominciava a ricamare sui fatti?

Ma la mancata prospettiva di poterla salvare, con un in-tervento tempestivo, suggeri-va ancora di più il rimpianto.

Finché uno studente dell’Accademia di Belle Arti la riconobbe: «È una studen-tessa! È russa!»

Una russa a terra, ormai indifferente al chiasso che aveva provocato. Una russa senza più interesse alla vita, che nel frattempo era quasi sicuramente spirata e offriva una scena straziante di con-trasto tra bellezza e orrore. Nessuno al Caffè Pazkowsky sarebbe rimasto seduto ad ascoltare una sonata al pia-

noforte. Da dietro continua-vano a premere e le guar-die faticavano a respingere l’assalto. Ci fu chi accorse con un drappo nero e coprì il volto dell’infelice. Poco dopo arrivò il carro-lettiga della Compagnia della Mise-ricordia, constatò il decesso e si portò via il corpo, anzi la salma, su una barella, di-retta d’urgenza verso la sala necroscopica dell’Arciospe-dale di Santa Maria Nuova.

In piazza rimasero i cu-riosi, a lungo, a commentare il fatto. La giornata rimane-va piacevolissima, e anche il luogo, non fosse stato per quelle macchie di sangue sul lastricato.

Siccome l’incidente ave-va destato scalpore, venne-ro uno dopo l’altro, a gara, i giornalisti, per scrivere un bell’articolo nell’edizione dell’indomani. Peccato che non si sapesse ancora quasi niente e bisognasse lavorare di fantasia.

Era russa, va bene. Ma, nome e cognome, come si chiamava?

Secondo un brillante os-servatore, lo sparo del sui-cidio dapprima è stato cre-duto, dalle parti del Caffè Pazkowski, lo scoppio delle gomme di una bicicletta. Poi il trambusto per soccorrere la malcapitata. Un tale Bel-lacci Bianchi ha sollevato il corpo esanime, sporcando-si lui stesso di sangue. Non mancano i particolari maca-bri. Il proiettile ha procurato la frattura del cranio, nella caduta la canna del naso si è rotta. La folla è tenuta a stento a bada: un sottote-nente di artiglieria ha chia-mato dei soldati che passa-vano nella piazza per caso, poi sono intervenuti pure gli agenti di Pubblica Sicurez-za. La folla preme eccitata, per una ventina di minuti è il caos, spinte, chiacchiere… Quando depongono il cada-vere sulla barella, una mano penzola sotto il panno nero. Per qualche istante, con sgo-mento generale, si scorge anche il volto, insanguinato, tumefatto, con un occhio fuori dell’orbita.

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Il segreto di Nadia.Fabio Pierangeli

«Chi si attacca alla vita è già giu-dicato. Ossia,

l’adesione alla vita è già mo-tivo sufficiente di giudizio e, implicitamente, di condan-na. Per conseguenza, soltan-to chi si sottrae al vizio della vita gode di immunità, come appunto Nadia». Vizio assur-do la vita, come nel celebre verso di Pavese? A quale costo sottrarsi? Per rassegnazione o per pienezza? Lapidaria la ci-tazione viene consegnata alla pag.219 di una narrazione

serrata che ne conta 238. Chi è Nadia, quale il suo segreto, quale la sua immunità?

Se di un romanzo dall’av-vincente trama, con un tena-ce e misterioso “senso di mi-naccia”, ingrediente primario di tutte le storie, comunque lo si metta in scena, si deve tacere al lettore l’explicit, per non rovinargli l’esperien-za individuale di “viaggiare” verso lo scioglimento, ne Il segreto di Nadia B. di Sergio Campailla, si deve tacere il fatto scatenante nella par-

te iniziale per consentire al lettore di avanzare nel pro-prio libero sentiero di lettura. Sergio Campailla, dopo aver esplorato a fondo l’attualità, con romanzi epocali quali Il Paradiso terrestre, (la Sicilia della mafia dell’acqua e delle radici ancestrali e labirintiche del mito) Domani domani (la Roma in attesa del nuovo millennio, tra intrighi e ipo-crisie religiose), Romanzo americano (sei storie intrec-ciate di italo-americani negli Stati Uniti degli anni Novan-ta) e la storia con La divina truffa, ambientato nel secolo del Grand Tour e della Rivo-luzione francese, sulle tracce di Cagliostro, racconta ora in prima persona la sconvol-gente vicenda di una ragazza russa, gettando nuova luce anche sulla biografia e l’ope-ra di Carlo Michelstaedter, a cento anni dalla morte del goriziano, morto nel 1910, di cui è il maggiore interprete e curatore delle carte.

Dopo la scena tragica di un suicidio plateale in una delle piazze più celebri di Firenze se non del mondo, Piazza Vittorio Emanuele con i suoi caffè letterari, dal Gambrinus alle Giubbe rosse, l’evento si racconta nel se-condo capitolo. Sia per i let-tori non particolarmente inte-ressati dalla storia della lette-ratura che per gli appassionati di Carlo Michelstaedter il col-po è durissimo, incolla alla sedia di emozioni palpitanti analogamente a quanto acca-de a Sergio Campailla quella domenica del 4 marzo 1973. Nel silenzio del giorno di

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festa della tranquilla e bene-stante Gorizia, senza clamori, cominciava la sua avventura di maggiore conoscitore di Michelsatedter, di custode fedele della testimonianza precocissima di uno degli in-tellettuali più avanzati della cultura italiana novecente-sca. Si trattava di raccoglierne le carte inedite, ordinarle in una montagna di fogli spar-si e confusi, per dare volto all’autore della Persuasione e la Rettorica dopo l’uscita del-le Opere da parte di Gaetano Chiavacci, nell’ormai lontano 1958 . Nella stanza della so-rella Paula, ultima testimone diretta da poco scomparsa, Campailla, “sotto la sferza di continue impressioni”, ascol-tava stupefatto dal figlio di lei, l’ingegnere Carlo Winteler, la lettura di tre documenti, de-stinati alla distruzione. Due lettere, in tedesco, e un docu-mento, struggente, maledetto, rabbioso, la VII delle Appen-dici alla Persuasione e la Ret-torica, mai pubblicata perché, appunto, distrutta in quella casa, in quella giornata, in po-chi secondi, dall’unico erede delle carte di Carlo, davanti ai due testimoni: Sergio Cam-pailla e Guido Manzini, allo-ra direttore della Biblioteca di Studi Isontini, morto precoce-mente, due anni dopo, supe-rati appena i cinquant’anni. Carlo Winteler, legato in se-guito da una fraterna amicizia con Campailla, ingegnere e non letterato, si mostra per-sona di grande cultura e gen-tilezza, custode amorevole della personalità dello zio. Si può capire l’imbarazzo con cui stracciò quelle carte e ri-conoscergli, comunque, una spiccata onestà intellettuale: avrebbe potuto distruggerle in ogni momento, senza lasciare testimoni. Campailla, fede-

le al volere dell’ingegnere, ha taciuto per quarant’anni quell’episodio, il contenuto di quei tre documenti. Eppu-re sapeva; a rileggere oggi la sua struggente biografia Ai ferri corti con la vita, si intui-sce che qualcosa di non detto brividava sotto il racconto del rapporto tra Carlo e Nadia, molto più di quello che po-teva, allora, apparire. Eppure nessuno si è preoccupato di indagare cosa avrei potuto sapere, confida lo scrittore. Ora il tempo è arrivato, dopo quarant’anni, morti da tempo gli altri testimoni coinvolti nella tragica esistenza della famiglia goriziana, Campailla apre il cassetto della memo-ria, raccontando quell’episo-dio e gli altri clamorosi suc-cedutesi durante le ricerche per sapere chi era Nadia. La vita pensa ad essere un ro-manzo, un fiume in piena, un incredibile colata accesa da filtri, vocazioni, intrecci, maldicenze, miti. Ci sono più cose in cielo e in terra rispetto a tutte le filosofie, le carte, i libri, perfino più dei sogni e degli incubi. Bisogna però cercare nel silenzio, nella ostilità, far parlare gli archivi, dividere le bugie e le reticen-za dalla verità, andare a ten-toni e farsi aiutare dal caso. Non respirare sotto’acqua ed emergere nei picchi vertigi-nosi dell’alta montagna, dove manca l’ossigeno. Qualcuno lo chiama destino, altri for-tuna. Nel caso di Campailla vale un’altra parola: vocazio-ne. Toccava a lui raccontare questa storia di due ventenni, entrambi rivoluzionari: lui, Carlo, con il pensiero solita-rio, radicale e scarnificatore, lei, Nadia, con l’azione terro-ristica, pagata con il carcere e poi, alla vigilia della deporta-zione in Siberia, commutata,

grazie alla facoltosa famiglia, nell’esilio. Vent’anni, la can-dela brucia vertigine da en-trambe le parti, nelle due vite che si incontrano: la ragazza ha alle spalle azioni, arresti, carcere, un marito traditore e spia degli zar che la seduce (e non viceversa) viaggi in Ger-mania e poi l’esperienza in Italia. Miracolosa energia in un tempo vorticoso dell’esi-stenza su cui riflette Michel-staedter: dalla sua il giovane goriziano, con una attività sportiva di tutto rispetto, ha quel mucchio imponente di carte e di appunti sparsi, oltre alla Persuasione, alle Poesie, al Dialogo della salute.

Le due lettere distrutte sono di Nadia, anche Pau-la, la sorella amata di Carlo, aveva cancellato una dozzina di righe dalla sua biografia del fratello (quelle dedicate a Nadia). Materiale incan-descente, dunque. Del terzo documento riporto diretta-mente le parole di Campailla. Si tratta delle pagine feroci di un giovane contro una società perbenista, per certi versi ar-rogante, basata, tacitamente sulla ipocrisia dell’apparen-za a coprire l’unico dio del denaro e del potere, in una solfa diventata insopportabi-le per grigiore e soffocamen-to, quando nessuno di quegli ideali esteriori (regolarmente sbandierati quanto disatte-si nelle pratica) a più presa nei giovani. Carlo si scaglia contro l’Accademia, quella a cui è diretta la sua tesi di laurea, vergando la VII del-le Appendici, la sconfessio-ne delle prime sei, nascosta dalla famiglia. «Winteler la lesse in fretta, con evidente imbarazzo. Qui non poteva fare ostacolo il tedesco, era in italiano chiarissimo. Car-lo, in uno scoppio di collera,

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a cui andava soggetto, pro-nunciava una sorta di ma-ledizione. Non aveva più il tono del saggio, ό σοφός, che rimedita sull’accaduto e sale agli iperurani, raccontando l’episodio in greco, come nel Πέρί χυνοφιλίας (Amicizia per un cane). Adesso la passione cedeva il posto al furore. Più che uno stato di collera, la sua esasperazione sembrava dettata da un collasso psichi-co. In stato di delirio, inveiva, con un procedere argomenta-tivo sconclusionato, contro le zanzare, contro il sole, contro i carabinieri […] il senso era evidente. Quello era il mani-festo anarchico estremo, e non tanto per quanto diceva, con-tro l’esistente più che contro l’autorità di ogni genere, ma per come lo diceva. Il tempo dell’apocalisse». Vicenda che non conclude, afferma con ri-gore etico Campailla, se mai apre prospettive, nell’ambito di una testimonianza para-dossale e tragica. Si tratta, con tutta probabilità dell’ultimo foglio scritto da Carlo, il 17 ottobre, giorno della morte, «poco prima di spararsi il col-po fatale». Ne scaturiscono una quantità di problemi, a cui Campailla, tenendo quel segreto fino ad oggi, tenta di rispondere, facendosi il cu-ratore intelligente e puntuale dell’opera di Carlo, sondan-done gli abissi, sempre co-sciente, come ribadito nelle ultima pagine del romanzo, di una evidenza lampante di cui bisognare tener conto, in uno scrittore sostanzialmente postumo in cui diventa im-possibile scindere la vita e la letteratura, nella stessa ansia di assoluto e di conoscenza, di fragilità, pag.233: « Il rap-porto, sfuggente e da ribadire, è tra il cristallo e il magma, tra l’assoluto della Persuasione e

il vissuto impuro di quell’altra opera che è l’Epistolario, in un regime devastante di doloroso occultamente e di dualismo».

La storia di Carlo tornerà prepotente nell’ultimo capito-lo, in definitiva tra gli attori, ma non certo nel ruolo princi-pale, dell’ultimo anno di vita di Nadia B. A lei Campailla accorda il ruolo assoluto della protagonista, cercando i suoi occhi, la sua anima, le sue sensazioni, i suoi squilibri. Un libro al femminile, e già per questo “contro codice”, contro la tendenza maschili-sta della società, possedendo il coraggio di presentare an-che Carlo, almeno in parte, incapace di sottrarsi a questo richiamo di un atavico, ben-ché colto, gallicismo, trasfor-mato in lui, grazie a Nadia, in una gemellaggio d’anime profondo e tragico, ma non privo di ricadute nella tenta-zione erotica.

La profonda pietas del de-tective, coinvolto in prima persona nella ricerca, sta rac-contando un pezzo fondante delle sua esperienza umana e intellettuale, mettendoci a parte dei “paesi in cui è nato”, ovvero di alcuni tra i libri del-la sua formazione, deve usare cautela verso le fonti, con una sguardo a distanza che per-metta di cogliere sia i partico-lari che lo sfondo. A pag 197 si legge un brano di carattere metodologico assai esplica-tivo, a proposito di Nadia e del suo estremo percorso nel centro di Firenze «Quello che i suoi contemporanei non po-tevano sospettare, lo capiamo noi oggi, a tanta distanza. Ma chi può dire come è caricato l’Orologio della Storia? Nella notte del passato tutte le vac-che sono nere, come afferma-va Hegel. Ma noi siamo trop-po abbagliati da quel buio ed

è affascinante poter calare una sonda. Questa esplorazione dal nulla, al di là del caso indi-viduale, mi ha posto e mi pone problemi generali di riflessio-ne storica, politica, sociale e di metodo. Non esiste una causa sola, risolutiva, quella che hanno cercato i giornali a uso dei lettori. Non basta la doppia pista, della passione politica e di quella amoro-sa. […] Non siamo di fronte ad una affascinante Anna Ka-renina, che si punisce per la sua relazione proibita. E’ più complesso e oscuro. E’ attrice tragica, con una motivazione originaria: quella che si chia-ma vocazione. Se non suona troppo cinico, il suo capola-voro è il suicidio. Stravoghin, questa maschera degli eccessi dello spirito russo, ha prepara-to dei fogli a stampa per divul-gare a conoscenti, ai giornali, al mondo intero la sua inau-dita abiezioni, la sua identità di mostro. Nadia, al centro della scena, fa sentire l’altra voce, spedisce un pacco di lettere per lanciare l’allarme». La ragazza ha abbandonato la famiglia, il paese, come tanti giovani ebrei ha tentato di ri-solvere il suo problema schie-randosi con i socialisti, con gli anarchici. Espia, secondo l’acuta lettura di Campail-la, derivata da quella etica di storico, la sua condizione di essere donna: «la sua è una tragedia di sogni sconfinati, di solitudine e di inganni recidi-vi». Si è suicidata platealmente (si legga la serie di circostanze venute fuori in modo rocam-bolesco, quindi destinale) ma «in qualche misura, è vero che è stata suicidata, prima anco-ra, dai pregiudizi e dalla vio-lenza di una cultura». Per que-sto Nadia è il macrocosmo, la Straniera e la donna. «Tra le alte cose ci dimentichiamo, e

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invece bisogna ricordarselo, che abbiamo seguito la para-bola d’un artista che cerca una compensazione, sia pur senza particolare consenso, di una pittrice di cui non sappiamo nulla o quasi nulla». L’elen-co dei suicidi in quegli anni impressiona, moltissimi e per i più disparati motivi: la sto-ria stringe a tenaglia i destino dei suoi giovani più sensibili e direi sensitivi. Che fascino da questa semioscurità, che desti-no epocale nei due ventenni. Tra le carte di Michelstaedter risalta questo brano lumino-so, riportato opportunamente da Campailla appena dopo aver commentato il Dialogo tra Carlo e Nadia, inserito nel volume Il dialogo della salute, che lo scrittore goriziano ave-va titolato in greco. La tradu-zione si è già citata nell’avvio di questo intervento, per la sua perentorietà, per l’accenno a quella lotta suprema tra la

condizione dell’Epistolario e quella alta e ideale della Per-suasione: Chi si attacca alla vita è già giudicato. Carlo ha intuito lo spettro dell’egoismo in quel cristallo di luce asso-luta della tesi di laurea e ha tentato di combatterlo, anche forse contro se stesso, sicura-mente nella coscienza delle esperienze vissute con la co-etanea ragazza russa, nel tra-gico epilogo della esistenza di lei. Il brano citato a pag. 220 de Il segreto di Nadia B. rima-ne una eredità tra le più alte del nostro Novecento, di cui Carlo Michelstaedter è senza ombra di dubbio una delle do-lorose porte d’ingresso, strette e lastricate d’inferno e di asso-luto. Da porre ai ferri corti, in un duello all’ultimo “sangue”, letteralmente, come fu anche per Nadia, con la maledizio-ne, umanissima e così attuale per la condizione giovanile, della VII Appendice distrutta:

Ognuno ignora se la sua affermazione coin-cida con l’affermazione dell’altro o non invece gli tolga il futuro: - lo uccida: ognuno sa solo che questo è buono per lui stesso, e usa dell’altro come mezzo al proprio fine, come di materia alla propria vita, mentre egli stesso in ciò è mez-zo materiale alla vita dell’altro. Così l’afferma-zione della individualità illusoria, che violenta le cose in ciò che s’afferma senza persuasione, poi-ché le informa al proprio fine illusorio come al fine dell’individuo assoluto che avesse in sé la ragio-ne- per vicendevole biso-gno prende l’apparenza dell’amore.

Commenta Campailla, an-cora una volta preoccupato di guardare la vicenda con gli occhi della donna: «E’ la lezione di Nadia, o la sua capitalizzazione nell’abis-so della sofferenza. Davvero pochi come Michelstaedter hanno approfondito una ri-flessione sull’egoismo che sta alla base della relazione in-terpersonale, anche laddove si mascheri d’amore, e distil-lato amaro miele dal rimorso per questo egoismo. Continua l’autore della Persuasione più avanti, nel capitolo su “La si-curezza”. “Ognuno ha visto nell’altro soltanto la cosa che gli è necessaria, non l’uomo che ha da vivere lui stesso”. L’uomo, e naturalmente, la donna. Il passaggio è dalla relazione duale amorosa alla relazione sociale. Ma anche questa non è una lezione di Nadia, o che riconduca a Na-dia? Cioè a colei che ha dato l’esempio, con le parole e con i fatti, nel privato e con l’impegno politico e umano della sua militanza».

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Il paradiso terrestre di Sergio Campailla.

Bernardina Moriconi

Innanzitutto, la Sicilia. E’ quest’isola, o almeno una parte di essa, dalla

vegetazione lussureggian-te il “paradiso” del titolo di questo romanzo pubblica-to da Rusconi nel 1988.Un paradiso, però, va precisato subito, che coesiste e con-vive, è stupefacentemente contaminato, con il suo op-posto infernale: la metafo-ra dei due regni del di là si fa concreta nel romanzo in una serie di antitesi: abbon-

danza - mancanza d’acqua; opulenza e sfarzo - miseria e abiezione; spiritualità e santità -fanatismo e supersti-zione. Queste e molte altre antinomie vengono così pian piano a delineare una real-tà controversa, policroma, barocca: e, dicendo “baroc-ca” non ci riferiamo certo a un suo rispecchiamento in quel “barocchetto” siculo che contraddistingue l’ar-chitettura di molte dimore di quei luoghi, bensì alla qua-

lificazione della possibile confacente rappresentazio-ne letteraria di tali suoi forti contrasti, luci vive e, d’un tratto, ombre cupe, tenebre fitte: pensiamo al “barocco”, insomma, del Siglo de oro (e Spagna e Sicilia sono state a lungo intime). E’ la real-tà che ci ha rappresentato questo poderoso romanzo di Sergio Campailla.

D’altra parte, la stessa vi-cenda del protagonista, Van-ni Corvaia, architetto con la passione dell’archeologia, che torna in Sicilia, sua terra d’origine, alla ricerca delle proprie radici, oltreché per abbandonare la città che ha visto il suo fallimento profes-sionale e la crisi di una cal-da relazione d’amore, anche tale vicenda, dicevamo, in-serita in un contesto narrati-vo realistico e perfettamente verisimile, può essere letta in una chiave allegorica, che ci si porge facilmente fin dalle prime pagine. E i per-sonaggi che Vanni incontra durante il suo viaggio nel “Paradiso tetrrestre” nostal-gicamente sognato e ricerca-to e nel suo brutale contrario amaramente scoperto ( o ri-scoperto), questi personag-

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gi sono ben significativi di quella complessa realtà, e, con quel che fanno e quello che dicono, contribuiscono a definirla man mano, ma-gari senza volerlo, o, anzi, tutt’altro che volendolo. E non manca a Vanni una gui-da, un suo “Virgilio”: l’ami-co Natale, un interprete e un commentatore disincantato e ironico.

Tema cardine del roman-zo di Campailla è l’acqua: la sua penuria o mancanza assoluta determina la qualità della vita, o, per meglio dire, condiziona la possibilità stessa di vita in quest’isola, salve poche zone, dove l’ac-qua magari abbonda...

Molti dei drammi che vi si consumano sono proprio la conseguenza di questa siccità, che sgretola i selcia-ti e corrompe le anime. Ma la mancanza d’acqua, con tutto il suo corollario di riti propiziatorii e processioni, di atti d’accusa e d’incapaci-tà politica a gestire le scarse risorse idriche, c’era in Sici-lia ieri come oggi, e così, se non fosse per alcuni richia-mi a fatti perfettamente da-tabili e circostanziati, come i “Mondiali di calcio” del 1982, l’isola ci apparirebbe quasi sospesa nel tempo

E questa atemporalità è accentuata anche dal forte richiamo al mito classico. Ecco, quella della classici-tà greca ci sembra un al-tro topos del romanzo che trova un referente tangibile nell’agrigentina Valle dei Templi. Proprio questa in-cantevole valle, con quei suoi templi che hanno resi-stito a calamità di millenni, è oggi minacciata e offesa da un’aggressione incessante di una proterva e impavida speculazione edilizia: e quei

templi ci fanno sognare una “età dell’oro” - di paca, di bene, di bellezza immacola-ta - che forse davvero ci fu, e, insieme, si ergono lumi-nosi come un monito a non commettere e a non permet-tere sacrilegi.

Così i templi - e tutti i miti che vi sono connessi con la loro carica inalterata di suggestione - irrompono spesso nella vita del pro-tagonista. Non a caso qui, in questa Valle, si dànno convegno per la prima vol-ta Vanni e la fascinosa at-trice Penelope. Lei ed Elena, lontana, quest’ultima, e che non compare mai diretta-mente nel romanzo, delimi-tano il mondo sentimentale del protagonista: un mondo - come si deduce dal nome delle due donne - che pa-rimenti si ricollega al mito ribaltandone però le carat-teristiche: Elena è, qui, la dolce e remissiva compagna che attende il ritorno del suo Ulisse, mentre Penelope, sfuggente e volubile, ricorda più la fedifraga consorte di Menelao che non la casta

regina d’Itaca.E veniamo all’altro, fon-

damentale scenario del ro-manzo, Villa Ibla, aristocrati-ca dimora settecentesca, cir-condata da un vasto parco, suggestivamente descritto da Campailla, con penna anche botanicamente sapiente, e che sembra davvero costitu-ire un residuo, tenace lembo di quel “paradiso terrestre” rimpianto anzitutto col titolo del libro.

Proprio in questo luogo, ora albergo di lusso, alloggia Vanni durante la sua per-manenza agrigentina, in at-tesa di trasferirsi a Modica, paese natale di sua madre, in cui ancora vivono alcuni suoi parenti. Ma villa Ibla è soprattutto il regno incon-trastato di don Gaetano, più che semplice proprieta-rio, nume tutelare del luo-go, nonché organizzatore o anfitrione instancabile ed entusiasta dei vari eventi mondani che vi si svolgono. Come la fastosa festa nu-ziale con ben ottocento in-vitati che vi si tiene proprio la sera dell’arrivo di Vanni

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Corvaia: una festa che può richiamare subito alla me-moria i balli dai Pantaleone o dal Principe di Salina de Il Gattopardo, quel Princi-pe, in cui - come ha scritto Giorgio Bassani - “è da ve-dere un ritratto del bisnon-no paterno, certo, ma forse ancor di più un autoritratto, lirico e critico insieme”, del Tomasi di Lampedusa. E l’il-lustre casato dello scrittore è rievocato anche nel roman-zo di Campailla attraverso la leggenda della “Lettera del diavolo”: quella, secondo la tradizione locale, dettata dal maligno per antonoma-sia in persona alla povera suor Maria Crocifissa, lonta-na antenata dell’autore de Il Gattopardo. L’elaborazione artistica di tale leggenda, col suo carattere di cupo e pauroso mistero, questo ele-mento “gotico” (per valersi dell’aggettivo in un suo uso odierno), è perfettamente funzionale alla narrazione: il protagonista della quale tenta in vario modo di deco-dificare il secolare, criptico messaggio racchiuso nella lettera in parola.

Ma il racconto della an-tica leggenda consente a Campailla più ampie e pro-fonde digressioni. Innanzi-tutto, la rievocazione della famiglia di questa suora, al secolo Isabella Tomasi, fi-glia della duchessa Rosalia Traina, nipote del vescovo di Girgenti, e di quel Giulio Tomasi, principe di Lam-pedusa e duca di Palma, meglio noto come il “duca santo”, a causa della sua fervida devozione. Una de-vozione che lo spingerà a fondare un monastero dove, in fasi successive, si sareb-bero rinchiuse le sue figliole e sua moglie Rosalia, (e lui

successivamente avrebbe vestito il saio); mentre il suo primogenito, Giuseppe Maria, divenuto cardinale a Roma, sarà successivamen-te consacrato beato. Questa sovrabbondanza di santità all’interno di un medesimo nucleo familiare - che pro-voca nel protagonista il ri-cordo della scena del Gatto-pardo in cui il principe si la-menta di non essere riuscito, in tanti anni di matrimonio e dopo tanti figli, a vedere l’ombelico di sua moglie - costituisce soprattutto un forte elemento di suggestio-ne per lo stesso Campailla: tanto che nel suo successivo Voglia di volare dedicherà un racconto , introspettivo e fortemente coinvolgente, alla canonizzazione del be-ato Giuseppe Maria Tomasi, fratello appunto di suor Ma-ria Crocifissa.

Il tema della religione o, forse, meglio, della religiosi-tà, intesa nelle sue contrad-dittorie e sincretistiche im-

plicazioni, sottende d’altra parte l’intero romanzo. Ma, in particolare, esso si svilup-pa attraverso due personag-gi, don Diego e suor Costan-za, la badessa del convento fondato dal duca santo.

Il primo, invece, è il gio-vane prete in cui si imbat-te Vanni in visita al duomo d’Agrigento appena giunto in città. Sarà proprio don Diego, dietro sollecitazione di Vanni, a mostrargli una copia della famosa lettera, da lui stesso segretamente copiata e conservata. Ma don Diego, più che uno sconcertante e censurabile propalatore di una presunta “diavoleria”, rappresenta - al contrario - la spiritualità an-cora gaia ed incontaminata, irriverente delle gerarchie e, in qualche modo, potremmo dire, “militante”. Sarà, non a caso, proprio il pretino a suonare a martello le cam-pane durante le celebrazio-ni in onore di san Calogero, fornendo un simbolico se-

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gnale di rivolta che trasfor-merà la mesta processione in una sommossa popolare.

Il manoscritto originale della lettera è invece cu-stodito nel convento dove visse Suor Maria Crocifissa. Anche lì si reca Vanni e, ri-uscendo a superare la clau-sura, si incontra e a lungo dialoga con la Superiora, la quale, grazie anche alla sua fede fervente e un po’ ingenua, sembra smentire l’idea - o il pregiudizio ra-zionalistico - del giovane architetto, cui i silenzi e le solitudini claustrali evocano truci ricordi di quando la scelta monastica era spesso frutto d’imposizione e di so-praffazione. Certo, il Cam-pailla profondo studioso di Verga e De Roberto deve aver tenuto presenti anche le pagine che i due veristi siciliani avevano dedicato a un certo tipo di monacazio-ne forzata. Eppure, lo scrit-tore, oggi, in età di massima secolarizzazione, quando

avrebbe avuto buon gioco a dare la stoccata finale a questo tipo d’istituzione, rie-sce invece a superare la sua stessa cortina di scetticismo, intuendo che le mura seve-re e invalicabili del luogo, più che imprigionare chi vi è dentro, possano custodire e salvaguardare una sereni-tà altrimenti perduta: Dietro quei muri - scrive Campailla - c’erano persone immobili come piante, che pregavano giorno e notte, digiunavano a pane e acqua, e si flagel-lavano, come nel Medioevo. E tra esse, forse, c’erano le più inventive, o le più ap-passionate, le più generose; e riuscivano all’impresa im-possibile: di arrivare a essere felici, seguendo la strada che per gli altri era sbagliata e che per loro finiva per essere l’unica giusta. Mentre fuori, per le strade altre persone correvano, inseguendo i pia-ceri e il possesso delle cose: inseguendo la loro infelicità.

Il romanzo di Campailla

si dipana per circa seicento pagine, dense di fatti situa-zioni e personaggi, che ci restituiscono il gusto della narrazione ad ampio respiro quando è ricca in tal modo. I diversi luoghi visitati dal protagonista (Vlla Ibla, il convento, la Favazza, la ca-sbah, le dimore gentilizie), sebbene complementari per-ché tessere di un medesimo mosaico, sono però abitati da personaggi che non han-no alcun rapporto tra di loro, forse ignorano persino l’esi-stenza l’uno dell’altro. Essi infatti - ed è questa la forza che li tiene in vita, ma an-che il loro limite - trovano, sentono una ragion d’essere solo tra le mura, sfarzose o decrepite, delle loro dimore, di cui costituiscono l’estre-ma emanazione, l’ultima anima loci. Non a caso, nel romanzo di Campailla, sono i giovani a cadere: come se la mancanza dell’acqua, ele-mento vitale per definizione, fosse solo per loro delete-ria. I vecchi riescono inve-ce a vivere o a sopravvivere come certi rinsecchiti arbu-sti di zone desertiche.

Lo stesso Vanni alla fine soccomberà. Svelato l’anti-co arcano celato nella let-tera del diavolo (e che non riveliamo per rispetto dei lettori futuri), intuiti misteri più recenti, ma altrettanto diabolici, relativi alla mafia dell’acqua, deluso nelle sue aspettative amorose, so-praffatto dalle troppe morti premature ed inutili, il no-stro architetto si introduce nei sotterranei della città, in quegli ipogei che tanto sol-lecitano la sua vocazione di archeologo dilettante, ma in cui spera anche di trovare antiche condotte d’acqua che possano ridare nuova

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vita all’assetata Agrigento. Intanto la città di sopra sta franando per una di quelle alluvioni che vengono ad interrompere beffardamen-te la lunga siccità. A Vanni sarà preclusa ogni possibilità di fuga dai labirinti sotterra-nei. Il suo viaggio termina, - se possiamo averlo pen-sato anche allegoricamente significativo - là dove quel-lo della grandiosa allegoria dantesca incomincia: nella profondità della terra: forse lo stesso “paradiso terrestre” voluto visitare e intravisto in principio non era che una “selva oscura”, ingannevole e nemica. Vanni non torna a riveder le stelle, eppure sembra accettare la sua sor-te con qualcosa in più del-la semplice rassegnazione: come se il suo ritorno alle origini non potesse che con-cludersi nelle viscere della terra, in quell’unicamente

possibile e durevole, peren-ne abbraccio “materno” cui egli - che non ha conosciu-to la madre, morta dandolo alla luce - ha sempre più o meno inconsciamente teso.

Il Paradiso terrestre - come ha giustamente nota-to Fabio Pierangeli nel suo bel saggio dedicato a Cam-pailla - possiede una cari-ca polisemica e allegorica, che molto contribuisce alla potenza della sua comples-sità. E’ una proprietà di ri-levanti opere letterarie, non soltanto poetiche. Nel plot del romanzo si intersecano alcuni dei temi cari al Cam-pailla: che ritroviamo, cioè, anche nel resto dell’impor-tante produzione saggistica e narrativa dello scrittore. Una Sicilia completamente sdoganata da vetusti luoghi comuni e da noti, abusati clichés letterari e che è fat-ta sincera significazione di

una realtà che agli albori del nuovo millennio non è più soltanto di quest’isola e di una penisola - la desertifica-zione di terre già ubertose e l’inaridimento degli spiriti -; una rappresentazione nella quale leggiamo il mito clas-sico e quello biblico, il tema dell’ebraismo e, anche con-nesso a questo, quello del viaggio e del ritorno; la ri-tualità sacra e profana; l’eros considerato soprattutto in una sua pulsione distruttiva e autodistruttiva; le forme e gli effetti anche per l’oggi dell’antica contrapposizione tra aristocratici e plebei...

Il tutto palesa poi quella costante e accesa curiosità, giornalistica o, meglio, scien-tifica, di profonda indagine che caratterizza da sempre la produzione di Campailla, tanto saggistica che narrativa, e che suggella anche questa sua mirabile prova d’autore.

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CarloMichelstaedter:dal deserto al mare

Michela Ficara

Seduto sulla riva dell’Ison-zo davanti a una fitta ve-getazione, un costume

da bagno alto fino al collo e un vistoso cappello a larghe tese per ripararsi dal sole: così è ritratto Michelstaedter in una fotografia probabilmente risalente al 1905. L’età è quel-la dei diciotto anni, il giova-ne goriziano, appassionato di nuoto, ha appena terminato con successo l’ultimo anno dello Staatsgymnasium e mo-stra un fisico atletico e sano. Nonostante la giovanissima

età però, il volto appare già adulto e tormentato, preda di un «conflitto di energie che bruciano chi le possiede»1.

Oltre al nuoto, un’altra passione di Carlo era l’ascen-sione in montagna, sul San Valentin, sul Calvario, sul Monte Santo. L’amore per la salita è tendenza verso l’alto, è volontà di purificazione ma, più che il raggiungimento del-la cima, l’attenzione si rivol-ge, per il futuro teorico della Persuasione, al percorso che tende verso quella cima.

Desta la nostra attenzione la dialettica tra luce e ombra, che ripropone metaforica-mente l’irriducibile opposi-zione che caratterizza, come si sa, il pensiero di Michel-staedter: o la Persuasione o la Retorica. Se La persuasione e la rettorica, la maggiore ope-ra dello scrittore, è una tesi di laurea il cui titolo iniziale era I concetti di persuasione e ret-torica in Platone e Aristotele, è certo che il giovane autore vi approfondisce un discorso personale che evade dai pre-supposti accademici. I due fi-

losofi escono fuori dalla storia e diventano due miti. Nella prefazione all’opera Michel-staedter indica le sue fonti e i suoi modelli: i presocratici, Cristo, i tragici greci, Petrar-ca e Leopardi. Il suo sguardo è rivolto al passato, rivendi-ca l’immodificabilità, senza nessuna pretesa di novità. Ma quale questa verità che lo scrittore vuole ribadire? Se-condo il giovane goriziano gli uomini vivono inseguendo la vita ma raggiungerla significa esserne espulsi. Michelsta-edter spiega questo concet-to con la metafora del peso, l’incipit della Persuasione. Il peso è tale perché tende verso il basso, ma se raggiungesse il maggior basso sarebbe sazio e non sarebbe più un peso. Morirebbe. L’unico modo per uscire da questo circuito è vincere la gravità e allonta-narsi dalla terra. Tutta l’opera dell’autore esprime il bisogno di allontanarsi dalla terra, che è «deserto», salendo sulla montagna, oppure fuggendo ibsenianamente verso l’ama-to, vasto mare. La libertà, cioè

1 Sergio Campailla, A ferri corti con la vita, Gorizia, Comune di Gorizia, 1974, p. 22.

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la persuasione, si conquista superando la gravità e la terra rimane il luogo dell’antiper-suasione, della rettorica. È forte il richiamo della cultura ebraica, l’io è errante e senza patria e il mare diventa mito, cantato con fervore appassio-nato nelle poesie.

Lo scrittore pensa e parla in greco non per sfoggio eru-dito ma perché commenta la contemporaneità con l’ausilio della sapienza di Parmenide, Eraclito e Simonide. A questo salto vertiginoso nel tempo corrisponde la vita di un gio-vane pervenuto ad una virtuale vecchiezza a causa di un’acce-lerazione innaturale dei tempi fisiologici di maturazione. Un autoritratto ci conferma la con-sapevolezza di questa precoci-tà, si intitola Carlo da vecchio; una condizione a cui il ragaz-zo, concretamente, non attin-gerà mai. Capita addirittura che Michelstaedter, suggestio-nato dalle esigenze del corpo, arrivi a identificare i livelli di persuasione e rettorica rispet-tivamente con la giovinezza e l’atletismo da una parte, e la vecchiaia dall’altra. Corpo e spirito diventano una cosa sola e assumono forti significazio-ni simboliche. In un originale dialogo, che fa parte delle ap-pendici critiche a La persua-sione e la rettorica, è espressa questa sofferta contrapposizio-ne tra le passioni del corpo e i freni della ragione. Il lettore è riportato all’eterna scissione tra persuasione e retorica.

Il dialogo prende spunto da un episodio autobiogra-fico. Carlo si era distorto un piede tornando da una delle frequenti escursioni in mon-tagna e l’infortunio lo aveva costretto a letto per qualche

tempo. Si instaura un singola-re colloquio tra l’«io» e il suo piede. L’io vuole cammina-re, il piede è impossibilitato perché malato. L’io pretende che si compia la sua volontà perché egli è il padrone del proprio corpo ma il piede ri-sponde provocatoriamente che se davvero fosse il padro-ne, dovrebbe essere in grado di alzarsi anche senza il per-messo di uno dei suoi arti. Le problematiche che ne scatu-riscono, in profondità, sono molteplici. Il persuaso è colui che intraprende un cammino e vive il presente del proprio percorso, non si rende schia-vo delle «cose che vuole», delle sue passioni, ma riesce a liberarsene; persuaso «è chi ha in sé la sua vita». L’io inve-ce si rende schiavo delle pro-prie pulsioni, dei bisogni del corpo e si blocca se il piede non vuole camminare. L’io, che è la ragione, è schiavo dei bisogni del corpo perché vive per soddisfarli. Leggiamo l’ultima parte del dialogo:

piede: Povero padrone!io: Perché povero?piede: Perché tu che sei nostro padrone, ti devi affaticare a ser-vire tante cose. io: Ma che faticare? se mi dà pia-cere?! – piede: Meglio per te; ma a me mi dispiace d’aver un padrone, che ha piacere di far il servitore.io: Guarda come parli, io non sono servo di nessuno, soprattut-to mi piace esser uomo libero…piede: Ma e quelle «cose»?io: Quelle cose…si dice «quel-le passioni»; ma io son anche padrone di vincere le passioni, quando la ragione me lo consi-glia.piede: Ora è la ragione che ti consiglia!!io: Chi mi consiglia?! La ragione sono io…piede: Finalmente conosco il tuo

nome, dunque tu «ragione» sei il padrone, e noi, corpo e passioni o cause o cose che siano, siamo la plebe. Vuol dire però che non hai bisogno di noi per esser tu quale sei, ragione? – io: Ci mancherebbe altro!piede: E allora resta!2

Il corpo, preda delle pul-sioni, denuncia i bisogni. La ragione, che è razionale, resi-ste. Ma quale la soluzione? Il contrasto è netto, la domanda rimane insoluta e rappresen-tativa di un significativo mag-ma interiore.

Michelstaedter aveva una forte passione per la pittura e per il disegno, in partico-lar modo per la caricatura. Quando, nel 1905, si mise in viaggio alla volta di Firenze, si sentiva animato dal fortissi-mo desiderio di ammirare le bellezze artistiche della città toscana. Nella valigia mise i suoi pennelli, i suoi colori e i suoi album: l’intenzione era quella di approfondire la tec-nica del disegno. Le caricatu-re erano il suo forte, grazie a pochi segni di matita svelava-no il segreto di una personali-tà, assumendo così un grande valore morale. Il giovane di-pingeva anche ritratti e auto-ritratti; questi ultimi possie-dono la magia di svelare fasi preziose del suo pensiero, soprattutto per quanto riguar-da le ultime, travagliatissime fasi della sua esistenza. Del 1910, quando il ventitreenne era ormai vecchissimo per il livello di saggezza raggiunto, è un autoritratto3 decisamen-te significativo. Così ne parla Sergio Campailla:

Si attribuì una fisionomia di uccello rapace, con il naso aquilino, le orecchie grandi, le sopracciglia scurissime e

2 Sergio Campailla (a cura di), Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, Milano, Adelphi, 1995, p. 163.3 Carlo Michelstaedter, Autoritratto a mezzo profilo, in Sergio Campailla, A ferri corti con la vita, cit. , p. 119.

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cespugliose sopra due occhi grifagni che han pianto le la-crime di secoli e fissano infi-ne l’oggetto del loro dolore. Osservando quell’autoritratto, così come leggendo le pagi-ne di questo ultimo tempo, si dimentica che il loro autore avesse pur sempre solo venti-tré anni 4.

Appare il volto di un uomo maturo, le ombre disegna-no rughe profonde e i tratti sono fortemente marcati. È il preludio per un passaggio im-portante, quello rappresento dalla poesia I figli del mare 5, raffigurazione più completa della persuasione e vertice artistico del travaglio di Mi-chelstaedter. La lirica è del 1910, anno eccezionalmente prolifico e ardente. Compare la figura autobiografica di Itti, fratello ereticale di Cristo, simbolo del Persuaso che sal-va se stesso imitando Cristo. Itti, che in greco vuol dire Pesce, in modo significativo creatura del mondo marino, è, nel poemetto, il Pesce figlio del mare che rivive liricamen-

Nota bibliografica:

Sergio Campailla ha con-tribuito in maniera decisi-va alla riscoperta di Carlo Michelstaedter e, oltre a raccontarne la vita nel vo-lume A ferri corti con la vita, ne ha curato la pub-blicazione delle opere presso Adelphi: La persua-sione e la rettorica, Milano, Adelphi, 1982 (XI edizione 2007); Epistolario, Mila-no, Adelphi, 1983; Poesie, Milano, Adelphi, 1987 (VII edizione 2005); Il dia-logo della salute, Milano, Adelphi, 1988 (III edizio-ne 2003); La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, Milano, Adelphi, 1995. Presso l’Istituto per gli Incontri Culturali Mit-teleuropei: Opera grafica e pittorica, Gorizia, 1975; Scritti scolastici, Gorizia, 1976. Entrambe le edizioni de La persuasione e la ret-torica contengono in nota la traduzione delle frasi in lingua greca contenute nel testo originale e la prefa-zione, in passato sempre sacrificata, che è stata così per la prima volta restituita all’unità del testo.Il “Fondo Carlo Michelsta-edter”, costituito e ordina-to dallo stesso Sergio Cam-pailla, si trova presso la bi-blioteca civica di Gorizia. Sulla religione filosofica di Michelstaedter e per un approfondimento della straordinaria inventiva filo-logica della simbologia dei nomi di Itti e Senia si veda: Sergio Campailla, Carlo Mi-chelstaedter tra esistenzia-lismo ateo ed esistenziali-smo religioso in id, Scrittori giuliani, Bologna, Pàtron, 1980, pp. 23-38.

te le istanze della filosofia della Persuasione insieme alla sua compagna Senia. La rot-ta della loro esistenza prende la forma che, heideggeriana-mente, è indicata dall’essere-per-la-morte e propone la definitiva metamorfosi reden-trice, fisica e letterale, in cre-ature marine.

Se, su un diverso piano, il mare può simboleggiare la volontà del ritorno al liquido amniotico del grembo mater-no, nascita e morte ad un tem-po, la mitologia marina trova infine un epilogo nell’imma-gine del fiume che scorre per sfociare al mare della lirica All’Isonzo, anch’esso tenden-te al “libero mare”. Ritorna così, in un percorso che si fa circolare, il ragazzo della fo-tografia del 1905. Seduto sul-la riva del fiume, questa volta, con un energico tuffo, prende il largo. Quell’immagine di-venta simbolo di un destino e il mare, visionaria Terra pro-messa, regno del Persuaso, escluso ed inattuale.

4 Idem, p. 117.5 Sergio Campailla (a cura di), Carlo Michelstaedter, Poesie, Milano, Adelphi, 1987.

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Appunti per una biografia di Carlo Michelstaedeter

Paula Michelstaedter Winteler, sorella di Carlo (aprile 1939), pubblicata daSergio Campailla in Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Bologna Patron, 1973

[…]Eravamo in quattro, due

fratelli e due sorelle, ma da due primi ai due ultimi c’erano sei anni d’intervallo. Gino, il maggiore (aveva dieci anni più di Carlo), fu mandato in Ame-rica in casa di uno zio all’età di sedici anni. La sua partenza fu un avvenimento che portò una nota triste nella nostra casa, e ne risentimmo anche noi bam-bini; da allora lo si rivide rare volte a lunghi intervalli, a gli restammo molto attaccati e lui a noi. Elda, la seconda, una ra-gazza molto intelligente, ener-gica ma di temperamento ner-voso, trattava noi due piccoli

quasi maternamente, diverten-doci ma anche imponendosi con la sua severità. Si sposò giovane e quindi un vero rap-porto di intimo ci fu soltanto tra Carlo e me. Carlo era il mi-nore di tutti. Dal babbo e da tutto l’ambiente […] si infiltrò a poco a poco questa malat-tia “letteraria”, specialmente in noi due piccoli. Da bambi-ni Carlo ed io ci credevamo in dovere di comporre versi per il natalizio di papà e per altre occasioni, ci si metteva all’opera con grande impegno e grande sforzo, e aiutandoci a vicenda si riusciva a mette-re assieme delle poesie di cui eravamo molto fieri. Di tutti e quattro, strana cosa, Carlo nei primi anni era il più mite, il più docile e ubbidiente. […] Lui che più tardi, da giovanet-to, da ragazzo, non conosceva il pericolo, anzi lo cercava, e nelle sue imprese era sempre temerario, da bambino era piuttosto pauroso. […] Ma di noi quattro era anche il più ri-flessivo, il più raccolto, e già da bambino in certo modo aveva una vita sua. […] Carlo comin-ciò presto ad innamorarsi, ma non era precocità sessuale la sua; erano sentimenti infantili quasi inconsapevoli:passava

dall’uno all’altro con estrema facilità prendendo ogni fiam-mata per un avvenimento se-rio, decisivo. […] Un nuovo indirizzo alle sue idee, o piut-tosto una concentrazione gli diede il contatto con l’amico Enrico Mreule che conosceva già da anni al ginnasio, ma sol-tanto superficialmente. Si avvi-cinarono, mi pare, nell’ultimo anno della scuola. Mreule era una natura chiusa, aveva avuto una infanzia triste, si trovava male in famiglia, s’era isola-to e aveva già da giovanetto, tendenze filosofiche precoci. Fu lui a far conoscere a Carlo Schopenauer e a iniziarlo alla ricerca dei valori della vita. Con Mreule e con un altro compagno, Nino Paternolli, si trovava spesso in una grande soffitta in casa di quest’ultimo, dove passavano delle lunghe sere a discutere problemi seri. […] Non aveva mai preso le-zioni di pittura ma dimostrava già da ragazzo un’attitudine straordinaria, specialmente per la caricatura. In ginnasio aveva ritratto tutti i professo-ri e molti dei suoi compagni. I suoi quaderni, i suoi libri di scuola erano pieni di pupaz-zetti: ne faceva sui ritagli di carta, sui notes, in qualunque

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luogo si trovasse, in treno o in festa,o una conferenza; al caf-fè in mancanza di carta dise-gnava sul marmo del tavolino. Quest’abitudine del ritratto era diventata quasi un bisogno. […] Aveva una passione pel mare, ma amava moltissimo anche la montagna. Non fece alpinismo, ma conosceva bene i nostri monti attorno a Gori-zia, e non ci andava per sport, in compagnia, ma per bisogno di movimento, per amore alla natura, per ricerca della so-litudine. In una delle ultime vacanze d’estate, passò alcuni giorni sulle Alpi Giulie, ci andò da solo, senza meta prefissa, senza carte, senza sacco di provviste, senza saper nem-meno quando sarebbe tornato. E si fermò alcuni giorni cam-minando molto, passò tutto un giorno nella nebbia fitta, nutrendosi soltanto di latte che trovava nelle malghe dei pa-stori. E ritornò più dimagrito, ma con una faccia illuminata come chi ha vissuto intensa-mente d’una vita interiore. Ma il suo monte preferito era il San Valentin (quello che dopo la guerra si chiamò Sabotino). Ci andava spesso con i suoi due compagni di Gorizia, Mreule

e Paternolli e anche solo, trat-tenendosi su tutta la giornata. Non era un’ascensione quel-la (il monte è soltanto si 600 metri) lo considerava come un rifugio dalla città. Lassù scris-se parecchie delle sue ultime poesie: Risveglio, Giugno. Mi par ancora di vederlo ritornar a casa verso mezzogiorno il 1 marzo del ‘910. Era una gior-nata luminosa e ventosa; rien-trò a casa coi capelli arruffati, proprio come una folata di vento e si mise a scrivere di getto la poesia: “Marzo ven-toso….”. La leggenda del San Valentin l’aveva scritta prima, nel 1908, e difatti essa risen-te nello stile delle sue letture di allora, specialmente delle opere dannunziane, non ha la spontaneità, quell’impron-ta viva e la forza della Bora, scritta nell’ultimo anno. Finito il liceo nel ‘905 pensava dap-prima di frequentare l’Univer-sità di Vienna e vi si iscrisse in Matematica e Fisica, ma poi spinto dal suo amore per l’ar-

te, pregò il babbo di lasciarlo andare un anno almeno a Fi-renze, che non conosceva, ma poi vi rimase tutto il corso degli studi. Non soltanto l’arte lo attirava, ma anche l’ambien-te italiano e la lingua. Ci andò con entusiasmo giovanile, as-setato del bello in tutte le sue emanazioni. Pure il distacco da casa per la prima volta gli fu doloroso e lo esprime nelle sue prime lettere piene di no-stalgia. Nei primi tempi scrive-va molto, cominciò già dalle diverse tappe del suo viaggio: Venezia, Vicenza, Ferrara, Bo-logna. Visitò tutte le chiese, le gallerie e ci comunicava le impressioni, intercalando nelle descrizioni di cose vedute, dei compagni di viaggio, schizzi e ritratti. […] Presto però l’am-biente su cui si era fatto tante illusioni lo deluse, specialmen-te quello universitario. Meno alcuni professori ai quali era affezionato, fra cui Villari e Vi-telli, gli altri lo urtavano per la

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loro rettorica e la loro vanità. Gli davano ai nervi quelle aule zeppe di uditori del bel mon-do di Firenze che assistevano alle lezioni per posa, per darsi delle arie. Cominciò a trovar-si bene quando fece la cono-scenza di Chiavacci e Arangio Ruiz coi quali strinse un’ami-cizia profonda che li legò fino alla morte. […] Non so se nel primo o secondo o terzo anno d’Università fece la conoscen-za di Giannotto Bastianelli, musicista. Passava da lui molte sere solo o con gli amici, ascol-tando la sua musica. Bastianel-li era pianista, appassionato wagneriano, ma Carlo con il suo entusiasmo per Beetho-ven seppe convertirlo e negli ultimi anni Bastianelli trascurò Wagner per suonare a Carlo, ripetute volte tutte le sonate e sinfonie di Beethoven.

Nei primi anni di Firenze esplicò una attività meravi-gliosa; oltre agli studi per i suoi esami, alle lunghe lette-re che scriveva a casa e agli amici, trovava il tempo di pas-seggiare per tutti i dintorni di Firenze, di visitare a lungo le gallerie studiando ogni opera artistica con intendimento da critico. Scriveva impressioni d’arte e di paesaggi, di lavori teatrali (critiche di drammi di Ibsen, tragedie di D’Annun-zio, romanzi di Tolstoj, ecc.). Aveva il bisogno di comuni-care, di dare forma alle sue idee. Ma c’era forse ancora in lui quella tendenza alla lette-ratura, retaggio di famiglia. Il suo stile era scorrevole, vivo, colorito, ma non era quello conciso, scolpito, quasi classi-co dell’ultimo tempo.

Un avvenimento doloroso d’importanza nella sua vita fu la morte del fratello Gino, avvenuta tragicamente nel febbraio del 1909. Era stato a Gorizia l’ultima volta quattro

anni prima e Carlo appena al-lora aveva cominciato a cono-scere e ad apprezzare questo fratello vissuto sempre lonta-no. Allora la differenza d’età (18 e 28 ) non li distanziava più di tanto come da bambini; si erano avvicinati, avevano fatto insieme escursioni, bagni nell’Isonzo, e il ricordo dell’ul-tima visita aveva lasciato a Carlo il desiderio di ritrovarsi con il fratello. Egli era mol-to diverso per mentalità, ma era intelligente, infinitamente buono e generoso. L’America, la vita nella città grande fra gli affari non l’avevano guastato, non si era affatto americaniz-zato - ritornava in patria con entusiasmo, era affettuoso con tutti noi e godeva la vita nella modesta vecchia casa. Proprio in quell’anno Carlo, che aveva avuto campo di conoscere molta gente e di esserne disgustato, ripeteva: «Ho proprio bisogno di strin-ger la mano a Gino, la mano d’un uomo leale».

Pochi mesi dopo, nell’apri-le del ‘909, andai a trovarlo a Firenze Da tanto tempo desi-derava una mia visita. Lo tro-vai a letto – in una gita s’era contuso un piede. […] Lo trovai allora un po’cambiato, riscontrai certi momenti di abbattimento e di sconforto. Ma pure aveva dei ritorni a una apparente spensieratez-za, qualche volta l’esuberanza giovanile prendeva il soprav-vento, e ricordo gli scherzi quasi fanciulleschi che faceva con Chiavacci, le risate rumo-rose. E ricordo che un giorno, mentre si camminava in città insieme ad alcuni amici, lui d’un tratto scaglio le grucce e si diede a saltare per alcu-ni metri su un piede solo fra lo stupore dei passanti. Nel prendere congedo dopo quel-le settimane, nei primi giorni

di maggio soffrimmo tutti e due come se si fosse trattato d’un lungo distacco, pur sa-pendo che fra due mesi ci si sarebbe rivista a Gorizia.

[…] Nell’ottobre di quell’anno partì il suo Mreule per l’America del Sud e quel distacco lo scosse profonda-mente. Prima della sua parten-za obbligò l’amico a conse-gnargli la rivoltella che Mreule portava sempre con sé. E fu quella l’arma di cui si servì il 17 ottobre del 1910.

Comincia un periodo nuo-vo, l’ultima fase. Tutte le lotte interne, i dissensi, s’andavano acquetando, l’equilibrio si fa-ceva più saldo, tutto si con-centrava, egli si incamminava verso la persuasione, «faceva di se stesso fiamma». Aveva finito di dare tutti gli esami a Firenze, e quell’anno non vi ritornò. Rimase a Gorizia per preparare la tesi di laurea, che per lui doveva essere ben altra cosa che una tesi di laurea: ci doveva essere tutto il suo io, doveva essere scritta col suo sangue. Questo egli lo sapeva. […]

In tutto quell’anno fino all’estate si occupò degli studi del cugino Emilio. Questi, per ragioni di salute, aveva dovu-to ritirarsi dalla scuola l’ultimo anno del liceo e Carlo lo pre-parava all’esame di maturità classica e lo faceva con interes-se ed affetto. Emilio, d’animo puro e d’un eccezionale sensi-bilità, s’attaccò sempre più for-temente al cugino, aveva per lui un affetto misto a devozio-ne e rispetto. Carlo non soltan-to lo istruiva nelle materie sco-lastiche, ma elaborava la sua anima, cercava di indirizzare le sue idee, in certo modo lo plasmava. Sapeva che il seme cadeva in un buon terreno

[…] In quei mesi dal di-cembre 1909 all’estate del ’10

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scrisse le poesie […] scritte per il bisogno del momento, senza preparazioni, sono sfo-ghi dell’anima. Sono molto diverse nella forma dalle sue composizioni antecedenti, hanno una metrica tutta indi-viduale. […] Quasi contem-poraneamente alla tesi scrive-va Il dialogo della salute di cui gli interlocutori sono Mreule e Paternolli, Rico e Nino. […]

Non leggeva più molto; ri-lesse in quell’anno Ibsen che conosceva già e di cui era sempre di più appassionato. Di tutti i drammi quello che l’aveva fatto di più pensare era Brand e nel suo volume ci sono al margine delle pagine molti commenti. […] A poco a poco, come semplificava il suo genere di vita, il suo modo di sentire, si limitava nei biso-gni […] così pure andava man mano eliminando dal suo re-pertorio gli autori riducendo-li a pochi scelti. In uno delle sue ultime carte che si trovò sul suo tavolo fra gli appunti della tesi c’era scritto a ma-tita: Bibliografia oppure: Dio ama gli analfabeti: «Invece di leggere suonate o fatevi suona-re della musica di Beethoven perché gli orecchi non vi po-trebbero far altro miglior servi-

zio. – Gli occhi non sono stati fatti per legger libri. Ma se li volete ad ogni costo abbassare a questo servizio leggete: Par-menide, Eraclito, Empedocle, Simonide, Socrate (nei primi dialoghi di Platone), Eschi-lo e Sofocle- L’Ecclesiaste, e i Vangeli di Matteo, Marco e Luca – Lucrezio De rerum na-tura - , i Trionfi di Petrarca e i Canti di Leopardi, Le avven-ture di Pinocchio del Collodi – i drammi di Enrico Ibsen. E non leggete mai altro, soprat-tutto nessun Tedesco, se avete cara la vostra salute ché quelli sono contagiosi in vista (come i giornali, le riviste, i libri di scienze». S’era isolato in casa per poter lavorare alla tesi con maggior tranquillità, e viveva nella più grande semplicità, si cucinava da sé, nutrendo-si soprattutto di frutta […] In quegli ultimi mesi non sentiva più il bisogno della caricatura, dipinse qualche quadretto a olio, alcuni paesaggi dei din-torni di Gorizia; l’ultimo che fece in ottobre rappresenta una natura selvaggia con stra-na luce, e a tergo vi scrisse: «E sotto avverso Ciel luce più chiara». Press’a poco lo stes-so contenuto che ha lo scritto sotto il suo ultimo ritratto fatto

in maggio e che regalò a me. Ci sono sotto queste parole in greco: «L’uomo nella notte accende un lume a se stesso». Anche la sua scrittura s’era modificata, era diventata più forte, più espressiva. Leggendo le pagine dei suoi manoscritti sembra di udir la sua voce.

Era sempre ancora attacca-to a noi, ma, come dissi, meno espansivo. Non ammetteva il convenzionale affetto di fami-glia. Ci voleva bene non per-ché gli eravamo padre e madre e sorelle, ma individui. Su un pezzo di carta aveva scritto «Meglio l’odio che l’amore del-la famiglia». Fra lui e il padre si manifestò in questo periodo una grande diversità di idee – erano molto lontani l’uno dall’altro. Papà, che per la sua tempra di lavoratore, per la sua natura equilibrata tendeva allo svolgimento regolare della vita, a un esito concreto degli studi, sofferse quando Carlo, prima di finire la tesi, gli comunicò che non avrebbe fatto il profes-sore, ma che appena laureato sarebbe andato al mare. Pure non volle contrariarlo e gli die-de il suo consenso. Malgrado le diversità delle loro vie, Carlo era molto affezionato al padre e ne aveva grande stima. S’av-vicinò in quei mesi più alla mamma, che sebbene non fosse in grado di compenetrare tutta l’anima del suo figliuolo, pure senza farsi una ragione chiara del suo dolore e della sua gioia, col suo fine intuito lo sentiva e in un certo modo lo accompagnava. Nei tre ultimi giorni non l’avevo veduto, mi aveva pregato di non venire da lui finché non avesse finito il suo lavoro «Poi – mi disse – verrò io da te». E non lo vidi più. Emilio che lo aiutava nella correzione delle pagine fu l’ul-timo a vederlo vivo e il primo che lo ritrovò morto.

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La melodia del giovane divino di Carlo Michelstaedter

Giovanni Antonucci

La melodia del gio-vane divino , edito da Adelphi e curato

con il consueto rigore e fi-nezza critica da Sergio Cam-pailla, conferma non solo il talento letterario e filosofi-co di Carlo Michelstaedter, ma rivela anche una straor-dinaria lucidità di critico e saggista teatrale. Un critico in grado di scrivere pagine sorprendenti sulla dramma-turgia, sull’arte dell’attore e sulla messinscena.

Per fare solo qualche esempio, come non rimane-re colpiti da ciò che scrive a proposito dell’interpre-tazione di Gustavo Salvini dell’Osvaldo degli Spettri di Ibsen? Qui anticipa di oltre una decina d’anni la stronca-tura che fece Piero Gobetti dell’interpretazione di Erme-te Zacconi . Salvini, sottoli-nea Michelstaedter, ne face-va un personaggio antitetico a quello creato da Ibsen , un sifilitico all’ultimo stadio,

tutto balbettamenti, dolori terribili e passo vacillante: “Così il dramma perde tutte le sue finezze psicologiche, tutta la sua lotta di idee –perché tutte sono oscurate e svisate dalla rappresenta-zione sproporzionata della degenerazione in Osvaldo”e aggiunge : “ Osvaldo non è né vizioso né un satiro; beve per affogare il dolore , per stornare il pensiero dall’idea fissa che lo assilla; ama in Regina , la forza, la salute”.

La critica a un’interpreta-zione che allora era accettata da quasi tutti e che vedeva in Osvaldo il vero protagonista di Spettri , nonostante la me-morabile Signora Alving di Eleonora Duse, è accompa-gnata da un’intuizione dav-vero anticipatrice che proprio “ la signora Alving è in realtà la protagonista del dramma , quella che soffre e agisce”. Ma tutta l’analisi del capola-voro ibseniano è caratterizza-ta da una lucidissima intui-zione dei suoi significati e dei suoi valori drammaturgici .

Nello stesso anno , il 1908, nella recensione di una modesta messinscena di Più che l’amore di D’Annun-zio nota ciò che solo oggi

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la critica più avvertita e più anticonformista ha sottoli-neato: “ l’effetto dei dram-mi dannunziani è evidente-mente calcolato sul contri-buto che deve dar loro una rappresentazione perfetta, un apparato scenico curato con ogni arte”. Il D’Annun-zio poeta e letterato anche sul palcoscenico, che una buona parte della critica di allora continuava proporre , era del tutto smentito dal giovanissimo saggista , con-sapevole che D’Annunzio, oltre che un drammaturgo di primissimo piano anche in un’opera tra le sue meno felici come Più che l’amore,

era un regista in anticipo di molti anni su quello che sarà il discorso nel nostro paese sulla regia .

Altre pagine sono esem-plari della critica e saggisti-ca teatrale di Michelstaedter.Qui possiamo citarne solo una, fra le più illuminanti. L’articolo, La catarsi tragica, è una delle punte del Mi-chelstaedter tanto attratto dal teatro. In poco più di cinque pagine, egli analiz-za il ruolo della catarsi in Eschilo, Sofocle e Euripide , senza peraltro dimenticare il prediletto Ibsen del qua-le scrive significativamente che “ottiene il risultato con l’azione ironica, con la rap-presentazione negativa: cioè mostrando con l’azione la nullità, la relatività, la riduci-bilità delle volontà umane”.

Quanto a Eschilo, per Michelstaedter , egli “ vede l’uomo solo nella sua volontà

di passare i propri limiti , di fronte all’impossibilità di passarli”. L’uomo di Sofocle

è , invece, “ il cittadino, la sua coscienza è la coscienza sociale”. L’uomo di Euripide è infine “ l’uomo sdoppiato che prima deve vedere che vita ha e dopo può proiet-tarla fuori di sé”. Michelsta-edter coglie mirabilmente il senso dei personaggi eschi-lei, sofoclei ed euripidei, ma contemporaneamente è altrettanto consapevole del ruolo essenziale del coro. Così può concludere che «il

bisogno dell’azione pura e il bisogno della catarsi fecero sì che i Greci da quella gen-te sana che era mantenesse-ro il coro. Così l’azione né era tutta corale cioè ragiona-ta , fredda , riflessiva dove il coro è assorbito dall’azione , o viceversa né era arbitraria e irragionevole dove le cose avvengono perché avven-gono , ma non si sa perché avvengano, come nelle sacre rappresentazioni».

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Michelstaedter personaggio:La melodia delgiovane divino.

Paola Culicelli

La melodia del giovane divi-no è una sonata per piano-forte a quattro mani. Non

ci sarebbe stato il titolo, non ci sarebbe stato neppure il libro, se Michelstaedter non fosse sta-to affiancato da Campailla nel suo canto, se lui non ce l’avesse raccontato. Penso a un raccon-to di Turgenev. In una locanda, nella steppa russa, due conten-denti si sfidano in una prova ca-nora. La giuria è rappresentata dagli avventori. Prima si esibisce l’uomo grosso, corpulento, si-

curo di sé, dalla voce stentorea: un ottimo artigiano della paro-la. Il successo è assicurato. Poi, però, è la volta del giovane gra-cile, insicuro, timido: quasi un maldestro anatroccolo. Eppure, non appena la sua voce si leva, incanta gli astanti: è un cigno. C’è qualcosa di diverso nel suo canto, qualcosa di magico. Lui è l’artista della parola, ha un dono: è caro agli dei. Il cantore borioso e imponente è lo scrit-tore riconosciuto dal canone, inquadrato. Il giovane schivo,

invece, è Michelstaedter: iso-lato, periferico, inclassificabile. È lecito domandarsi, a questo punto, quale ruolo svolga Cam-pailla. Chi è lui all’interno della storia? È il critico o, meglio, lo scrittore: è Turgenev stesso. Senza di lui, senza il suo rac-conto, i lettori non saprebbero del miracolo avvenuto in quella locanda remota, non saprebbe-ro nulla di uno scrittore postu-mo a se stesso, non avrebbero mai potuto ascoltare La melodia del giovane divino.

Il titolo di questa antologia di scritti vari, è bene precisarlo, si deve a lui. È estrapolato dalla recensione a Lo «Stabat Mater» di Pergolesi, che suggella la rac-colta, definito dal giovane gori-ziano “l’ultimo canto d’una gio-vane vita che, distrutta dal male fisico, non spera più nel futuro, e tutta ardendo nella propria fiamma, dà tutta se stessa in un punto”.

Il titolo, dunque, rimanda all’ultimo scritto: si parte dalla fine. È il curatore ad avvertirci, prima ancora di varcare la so-glia. Questo prezioso libro pos-siede una vocazione innata alla circolarità, il percorso tracciato dagli scritti, suddivisi in Pensie-ri, Racconti e Critiche, è ciclico come in un caleidoscopio. Tutto ritorna. Le cose si rispondono, a distanza. Sfogliandolo, si entra nel laboratorio privato dello scrittore, in un’officina affasci-nante fatta di “prove segrete”, “sfoghi”, “appunti”: un diario di un enfant prodige, un genio maledetto, condannato a non invecchiare mai.

L’introduzione di Campailla, Alla ricerca del tesoro perduto, è parte integrante del libro e ci fornisce la chiave per entra-re, per orientarci nel labirinto di una scrittura che rasenta la grafomania. Da un lato, acco-standosi a Michelstaedter, è im-possibile non respirare l’istanza

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forte di assoluto che pervade le sue pagine. Campeggia, evoca-ta dal curatore, l’immagine della Creazione di Michelangelo, il particolare delle dita di Adamo protese verso Dio, che nel loro tendere non arrivano, però, mai a toccarlo. È lì Michelstaedter: l’ateo che ha fame d’assoluto, che conosce Dio come l’inson-ne conosce il sonno. La sua è una ricerca insoddisfatta, anela al Graal consapevole della sua inesistenza. Tra i due poli arche-tipici di Cristo e di Matusalem-me, tra l’intensità e la durata, sceglie la via tragica della per-suasione. Oltre il velo del sancta sanctorum, sa bene che non c’è niente. Vale la pena di leggere, in proposito, La filosofia doman-da il valore delle cose. Quanta ironia nei confronti dei cercatori di assoluto da parte di chi a sua volta è der suchende, un cer-catore che, comunque, va Alla ricerca di un tesoro perduto.

È difficile tenere a mente che tutto ciò che ci ha lasciato è stato scritto da un giovane non più vecchio di 23 anni. La data ante quem, indifferibile, è quella del 17 ottobre 1910. A pensarci, tremano le vene e i polsi. L’in-cendiario non è mai divenuto pompiere, non l’ha voluto. Il giovane divino si è rifiutato di invecchiare, così come Paoli-no, personaggio eponimo di un racconto semplice ma dai risvolti sconcertanti, si è rifiutato di diventare un uomo. Già nel nome, dal latino paulus che si-gnifica piccolo, è scritto il suo destino. Non sveliamo nulla, per non pregiudicarne la lettu-ra. Basti dire che quando si ri-bella alla violenza della catena alimentare, del pesce grosso che mangia il pesce piccolo, gli viene detto che i suoi sono “capricci da bambini e non da uomini”. Dunque la rivelazione: l’esercizio della violenza rap-presenta l’iniziazione, il rito di

passaggio verso l’età adulta, da Cristo a Matusalemme. Dietro l’uomo adulto, sano, forte, ca-lato nel mondo, c’è l’ecatom-be. Michelstaedter, per bocca di Paolino, risponde lapidario: “Ma io non voglio – essere uomo - allora”. All’ecatombe del vecchio testamento, Cristo risponde con il suo sacrificio, versando il suo stesso sangue. Il “bisogno di vivere a ogni costo”, scrive altrove, è proprio di un’ “eunuca umanità”.

L’itinerario è da Un giovane allo Lo «Stabat Mater» di Per-golesi, definito “la melodia del giovane divino”. Il libro in un certo senso è un palindromo e si presta a un’ondata di riletture. Dopo averlo letto fino in fondo, risaliamo come il salmone con-trocorrente, fino al primo pen-siero, datato 7-18 agosto 1905, cinque anni prima della tragica fine, in un’epoca insospettabile. Era appena maggiorenne:

Un giovane

Un giovane educato in col-legio religioso si volge per rea-zione a tutto quanto sa di ribel-le alle leggi umane e matura il cervello nelle speculazioni della psiche dell’uomo e del mistero della natura. Egli troppo vede e nel suo animo amareggiato la fonte del sentimento inaridisce. Egli lo sente e ne prova dolore, vuole perciò lanciarsi nella vita per eccitare con le sensazio-ni più forti le fibre paralizzate dell’animo suo e lo fa. Ma non può riacquistare la spontaneità perduta e s’accorge che tutti i suoi entusiasmi sono fittizi, s’ac-corge d’esser sempre il mede-simo. E con la crudele abituale sincerità verso se stesso esamina il proprio interno, quindi con calma e ragionata risoluzione si uccide restituendo alla madre terra le energie che in lui si com-battevano inutili.

Con la lungimiranza propria dei posteri, trasaliamo. Citiamo solo il particolare del ritorno alla madre terra, ripensando al fatto che lui si sia suicidato nel giorno del compleanno della madre. “Come non leggervi – scrive Campailla – il presentimento di un destino, o almeno un’attra-zione oscura?”.

Ma Michelstaedter, è bene precisarlo, non è uno scrittore di morte. “La lampada si spense per mancanza d’olio”, lui “per traboccante sovrabbondanza”: è necessario echeggiare le sue stesse parole, ricordarle. C’è un eccesso in lui, un fiammeg-giamento tenebroso. Amava la vita, sì, intensamente, ma il suo era un amore per eccesso, una fiamma che l’ha bruciato. Ha vissuto “da asceta come all’in-terno di un faro” e oggi ci appa-re come “un luminoso postumo che si scopre attuale nella sua inattualità”, ha osservato Cam-pailla. Come il saggio di Nietz-sche, che arde nella sua stessa fiamma, è oscuro a se stesso. Sta a noi posteri strapparlo da quell’ombra.

Brani di Carlo Michelstaedeter tratti da La melodia del giovane divino, a cura di Sergio Campail-la, Adelphi, 2010.

Cristo e Matusalemme

La vita si misura dall’intensi-tà e non dalla durata – l’intensità è in ogni presente: la durata sia essa anche infinita non è meno vuota se non è che un susse-guirsi di presenti vuoti. Cristo è vissuto più di Matusalemme, un insetto effimero vive più che un albero secolare.

Mentre la φιλοψυχία accele-ra il tempo ansiosa sempre del futuro, e paurosa del presente vuoto – la stabilità dell’individuo conferisce valore che preoccu-pa infinito tempo all’attualità e

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arresta il tempo nella pienezza della vita

Era il paradiso terrestre

C’era una volta un paese fortunato, dove la terra produ-ceva alle braccia volenterose i suoi doni più abbondanti della stessa speranza, dove gli uomini erano forti e laboriosi, le donne sane e fiduciose, dove l’aria era mite, l’acqua esuberante, gli ani-mali robusti e domestici. Era il paradiso terrestre.

Gli uomini di quel paese erano superbi di possederlo, parlavano con orgoglio della ricchezza del terreno, della for-za degli animali, della bellezza delle donne. «Sì! grazie a Dio – dicevano – qui da noi si vive bene. Peccato che bisognerà abbandonarlo».

Infatti pesava su quel pa-ese uno strano destino: i fiori che spuntavano in gran copia e mutavano faccia al paese, non anche eran giunti al loro sviluppo che avvizzivano, le donne non anche giunte alla loro piena bellezza, gli uomi-ni alla loro maturità, le bestie alla loro forza, che già si vol-gevano dalla parte dell’ombra e deperivano – e or l’uno or l’altro dovevano tutti via via abbandonare il loro paradiso. E gli abitanti che pur di questo soffrivano, con ogni loro atto sembravano voler affrettare questa sorte, che nel tenero fiore anticipavano col loro

desiderio il frutto, nelle fan-ciulle la donna, nei nati degli animali l’animale finito, non accorgendosi che nello stes-so tempo anticipavano nella donna nei fiori nelle bestie finite la decadenza.

Era forse la stessa aria mite che aveva in sé il germe del male. Certo da quest’aria de-rivava un’altra particolarità di quel paese beato: quell’acqua cristallina che rompeva in ogni parte dalle ombrose sorgenti e adulava ognuno a portarla alle labbra, perdeva il suo pregio appena uno l’aveva in bocca, così che pur sempre l’altra ac-qua lo attirava e di questa non riusciva a soddisfarsi. Così era della frutta, così delle donne, così d’ogni cosa. Perciò gli uomini previdenti s’assicurava-no le sorgenti, s’assicuravano con più lavoro maggior copia di frutta, s’assicuravano con patti la donna, non pensando che ogni volta che fossero per usarne si sarebbero trovati nella stessa condizione.

Ma questo dipendeva dall’aria: che appunto così adoperandosi e prevedendo e curando e desiderando non l’acqua, o il frutto, o il contatto con la donna che ogni volta go-dessero, ma quello che si ripro-mettevano da quanto di questi beni s’erano assicurato per altre prossime volte, anticipavano la decadenza e l’inesorabile ne-cessità dell’abbandono.

Virtù della lingua

Tonino, Beppino, Paolino, Pinocchio e Giacomo un mat-tino d’estate, invece d’andar a scuola infilarono la via dei campi, e se ne andarono rapidi e silenziosi, all’impresa del let-to del fiume. Infatti c’era molto da fare: fossi da saltare, alberi e muri da scalare, siepi da scaval-care, scaglie da tirare che rim-

balzino sull’acqua, farfalle da perseguitare e tante altre cose che richiedevano varie bravure.

Tonino era quello che sa-peva saltar i fossi più larghi, e a piè pari: Beppino era quello che sapeva arrampicarsi più alto sugli alberi e quando era in alto sapeva squassar così forte la cima che gli altri pote-vano far larga raccolta di bac-che; Paolino poi era invincibi-le nelle guerre che seguivano, dove queste bacche servivano da proiettili: egli anche sape-va far rimbalzar le scaglie set-te volte sull’acqua e qualche volta anche otto; Pinocchio scalava i muri e sgusciava at-traverso le siepi e quando si fe-riva coi cocci di bottiglia o coi spini diceva: «non è niente» - e se gli altri gli dicevano: «ma questo è sangue» egli diceva: «no, sono bacche di sugo ros-so». E gli altri lo rispettavano molto per questo.

Giacomo non sapeva né correre, né saltare, né arrampi-carsi, né tirar sassi, né scalar i muri, e il sangue gli faceva pau-ra. Solo, egli prendeva le farfalle e staccava loro le ali e faceva così rider gli altri. Ma essi non lo tenevano in nessun conto.

Giacomo per questo non si divertiva, ma andava sempre con gli altri quattro a far le im-prese perché essi erano rispet-tati dagli altri ragazzi. Ma quel giorno quando per passar una siepe gli altri dovettero aiutarlo, e poi seduti in cerchio comin-ciarono a dirgli «tu sei un buono a nulla», Giacomo si fece rosso e disse: «vediamo chi di voi sa toccarsi il naso con la lingua». E per quanto si sforzassero nes-suno ci poté riuscire. Allora Gia-como tirò fuori la sua lingua e si accarezzò la punta nel naso. «Avete visto?» chiese poi trion-fante. E gli altri rimasero umiliati.

Infatti egli aveva la lingua più lunga degli altri.

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Note sull’idea di linguaggio nella Persuasione.*

Luigi A. Manfreda

Il punto di partenza da cui vorrei iniziare si configura come un paradosso, che

emerge con tutta evidenza, nella lettura della Persuasione, e sin dalle sue prime battute, tanto che è stato indicato da molti interpreti. Per un verso,

sembra che il linguaggio, nel-la visione di Michelstaedter, sia costitutivamente rivolto all’inautentico, in un senso che è ancora da chiarire. Ma se è così, cosa rappresenta un testo come la Persuasione? Un testo che com’è noto ha al suo

centro un’esperienza auten-tica, la persuasione appunto, che in quanto tale anzi pre-tende di costituire una sorta di discrimine aurorale, originario fra autentico e inautentico?

Cerchiamo intanto di ac-cennare al significato di quan-to abbiamo appena sostenuto, ossia che l’idea del linguag-gio che emerge in un testo come La persuasione e la re-torica implichi una costitutiva tendenza all’inautentico.

Per Michelstadter, è come se il linguaggio non giunges-se a ‘toccare’ l’individuale, il questo, a dirne la natura più propria. E’ la dialettica espres-sa nella Fenomenologia dello spirito dalla figura della ‘cer-tezza sensibile’: il linguaggio universalizza, non può che trasporre nell’universale. Non raggiunge la ‘cosa’ che mi sta di fronte ed avverto come unica. Non solo; se volessi-mo estendere il raggio delle considerazioni al soggetto stesso che enuncia questo principio conoscitivo fondato sulla presunta immediatezza di ciò che mi sta di fronte, dovremmo dire che il linguag-gio non tocca il mio proprio, è impotente a dire il proprio-irriducibile che avverto essere ciò che mi distingue in modo irrevocabile dagli altri, diffe-renza che neanche nell’amore riuscirò a colmare.

Se in Hegel tutto ciò inne-sca un movimento ‘virtuoso’, volto a evidenziare l’infon-datezza delle pretese della certezza sensibile, ovvero quello d’un sapere fondato sull’immediato (in cui dun-que il linguaggio finisce col diventare la traccia rivelatri-ce dell’essenziale) - in Mi-chelstaedter denuncia invece

* Il testo ha conservato, eccettuata qualche aggiunta, il carattere dell’intervento orale, tenuto nell’ambito del Convegno ‘Carlo Michelstaedter tra nichilismo Ebraismo e Cristianesimo’, svoltosi a Salerno il 27-28 settembre 2006.

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l’incapacità del linguaggio a ‘raggiungere’ la vita, a dirne l’essenza vivente.

Questo aspetto, insieme ad altri, determina per Michel-staedter una cesura fra vita e linguaggio. Quest’ultimo in-fatti, obbedendo alla propria natura, sostanzializza-cristal-lizza ciò che solo-diviene, ciò che solo ha realtà nella sua concretezza temporale e dileguante. Si tratta in altri ter-mini di un imporre maschere e fissarle come il più verace e affidabile. Ma a quale fine? Qual è il compito che svolge il linguaggio?

Esso si costituisce come sistema dei nomi, sistema di sicurezza, rende familiare il mondo, liquida la morte e l’estraneante implicito nella dissoluzione delle cose. Ci viene in mente il nietzsche-ano Su verità e menzogna in senso extramorale: il lin-guaggio lì viene considerato utile artificio-apparenza; ma mentre Nietzsche giustifica la necessità dell’artificio in quanto ‘utile alla vita’, Mi-chelstaedter mette in evi-denza come tramite esso si viva in una sorta di sonnam-bulismo. Perché?

Il linguaggio raccorda i fenomeni e li prospetta in un ordine gerarchico. Crea valori, - il bene della patria, l’autorità dello Stato, fami-glia, dio; pretende anche di nominare-svelare l’essenza dell’ente: copre ogni regione del reale con il sistema del sapere, l’articolazione flessi-bile fra le varie sfere discipli-nari. La rete dei valori-signifi-cati costituisce un orizzonte rassicurante, in cui si depo-tenzia ciò che ci destabilizza in quanto esseri sociali. La transitorietà di ogni intrepre-sa viene travestita e dimen-ticata nel ‘valore assoluto’,

che pretende di superare ogni barriera temporale. Ma, in quanto è questo, questa rete è un sistema di masche-re, che sottrae la possibilità di un’esperienza autentica. Tutto è filtrato attraverso lo schermo del linguaggio. In-sieme: v’è una cesura fra vita e linguaggio - eppure il linguaggio, come aveva fatto notare Nietzsche, risponde a una ‘necessità’ della vita stes-sa, il bisogno di sicurezza.

Ora, il bisogno di sicurez-za relega in una vita-non-vi-ta. In un sistema di maschere che dovrebbero porci al ri-paro da ciò che ci atterrisce e che invece ci consegna ad un quotidiano insulso e sempre aperto all’irruzione dell’orribile, dell’annienta-mento. Il ‘segnale’ di quanto non si possa ‘confidare’ nelle parole in fondo lampeggia, nell’ottica michelstaedteria-na, proprio nella struttura stessa del linguaggio: il se-gno rinvia ad altro da sé, è segno-d’altro; struttura costi-tutivamente inquieta, riman-dante, rivelatrice, scissa nel-lo scarto incolmabile signifi-cato/significante.

Leggiamo un passo dalla Persuasione: “Per se stesso un uomo sa o non sa; ma egli dice di sapere per gli al-tri. Il suo sapere è nella vita, è per la vita, ma quando egli dice ‘io so’, ‘dice agli altri che egli è vivo’ per aver dagli altri alcunché che per la sua affermazione vitale non gli è dato. Egli si vuol ‘costituire una persona’ con l’afferma-zione della persona assoluta che egli non ha: è l’inadegua-ta affermazione d’individuali-tà: la rettorica.

Gli uomini parlano, par-lano sempre e il loro parla-re chiamano ragionare… ma qualunque cosa uno dica

non dice, ma attribuendo-si voce a parlare si adula. Come il bambino nell’oscu-rità grida per farsi un segno della propria persona, che nell’infinita paura si sente mancare; così gli uomini, che nella solitudine del loro animo vuoto si sentono man-care, s’affermano inadegua-tamente fingendosi il segno della persona che non han-no, ‘il sapere’ come già in loro mano. – Non sentono più la voce delle cose che dice loro ‘tu sei’, e nell’oscu-rità non hanno il coraggio di permanere, ma cerca ognu-no la mano del compagno e dice: ‘io sono, tu sei, noi siamo’, perché l’altro gli fac-cia da specchio e gli dica: ‘tu sei, io sono, noi siamo’; ed insieme ripetono: ‘noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza li-bera e assoluta’. Così si stor-discono l’un l’altro.

Così poiché niente han-no, e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingano la comunicazione: poiché non possono fare ognuno che il suo mondo sia il mondo degli altri, fin-gono parole che contengano il mondo assoluto, e di pa-role nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore; con parole signifi-cano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore – o rendersi insen-sibili al dolore: ogni parola contiene il mistero - e in queste s’affidano, di parole essi tramano così un nuovo velo tacitamente convenuto all’oscurità… ‘Dio m’aiuti’ - perché io non ho il corag-gio d’aiutarmi da me.” (La persuasione e la rettorica, Milano 1995, a cura di S. Campailla, p.58)

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La Persuasione ha il suo fuoco in un’esperienza au-tentica, cioè che salti oltre questo stato di cose. C’è un simmetria, nel testo di Mi-chelstaedter, fra il pro-get-tarsi nel futuro svuotando il presente, il tendere-altrove della volontà, e il creare va-lori attraverso il linguaggio, ‘ornamenti, abbellimento dell’oscurità’: il secondo movimento corrisponde per-fettamente al primo – posso pro-gettarmi in quanto ho un senso-disegno-valore da rag-giungere. Il linguaggio rispon-de naturalmente (in quan-to tenta di colmarlo) a quel vacuum in cui si dà il modo d’essere generale dell’esserci. Questo doppio movimento ha a fondamento una strut-tura ontologica: è ‘il gancio che pende’, è l’esserci conno-tato schopenhauerianamente come volontà inesausta, mai colmabile. Perciò il salto ol-tre questa condizione si pre-senta come paradossale per eccellenza: presente pieno-compiuto del persuaso, della sua vita nova, e “parola viva”, “luminosa”, linguaggio in-uno col nominato, che riac-quisti ‘miracolosamente’ una dimensione simbolica (viene da pensare qui alla pura lin-gua dei nomi, la lingua ada-mitica, anteriore alla discesa

nella distinzione significante/significato, in Benjamin).

Ora, diciamo anzitutto che quando si parla di per-suasione si parla di un’espe-rienza. (Vexata quaestio: non un che di linguistico - certo qualcosa che viene conno-tato linguisticamente - ma che si darebbe, in un qual-che modo, tutto da determi-nare, prima del linguaggio.) Un’esperienza, quella del persuaso, che spezza l’abi-tuale, il consueto. Per quanto siamo venuti dicendo sin qui, questa esperienza (come per altro per Michelstadter ogni esperienza), è al suo fondo, nel suo centro vitale, indicibi-le. Il linguaggio non la ‘tocca’. Tanto più l’esperienza della persuasione, che si configura propriamente come un per-corso a ritroso, in direzione opposta, se si potesse dir così, a quella ci porta per lo più a ‘dire’. Che rompe la trama del familiare-ovvio, che ci fa soli in un deserto. In cui ‘non chiediamo più’. E infatti Mi-chelstaedter scrive che la via alla persuasione non ha segni - dunque, non si in-segna.

Da questo punto di vi-sta, lo sbocco naturale di questo discorso, a cui però M. accenna soltanto, è l’ar-te come ciò che infrange i codici del consueto e si fa parola potente-vivente.

Ritorniamo ora alla que-stione dalla quale siamo par-titi: che cosa rappresenta un testo come La persuasione, che si raccoglie intorno a un indicibile, o meglio: non-co-glibile, com-prensibile attra-verso il linguaggio?

Parola ‘giusta’, persuasa è in un certo senso - se si se-gue il testo di M. - contrad-dizione in termini. Ciò che si può dire è la vuotezza delle illusioni della retorica e del

vivere sociale. E’ il discorso anti-retorico, retto dall’impe-rativo a uscirne, il ‘devi!’. Ma sfugge al discorso il consistere del persuaso, a cui quel dove-re è orientato, e da cui pure è escluso. Il testo di Michel-staedter non propone – e non potrebbe farlo – alcuna sintesi di queste contraddizioni. “Io so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno, e questa è disonestà, ma la rettorica mi costringe a forza a far ciò” – cioè: è il linguag-gio che mi costringe a dire in modo paradossale e per cer-ti versi in autentico, che mi costringe a entrare in queste contraddizioni, e che non mi dà via d’uscita.

Ma il carattere ‘etico’ di questo libro straordinario sta proprio nell’indicare una forma, la forma, che non si dà, che è assente, e alla luce della quale pure si deve (un dovere improducile, non deducibile, ma che è mo-strato-espresso, per così dire riportato-qui da questo libro) leggere e comporre ciò che è costitutivamente senza for-ma. Ecco l’azzardo.

E’ all’opera in questa scrit-tura un’etica paradossale, soli-taria, che non si basa sull’inter-esse. Scrittura che si misura costantemente con il proprio limite, e nello stesso tempo lo riconosce. Poiché tentando di ‘indicare’-mostrare l’indicibile (la persuasione) fa ritornare questo limite sempre di nuovo presente. Dunque una scrittu-ra che si dà interamente, nel suo sacrificio: sacrificando ciò che può valere per la propria coerenza,‘tenuta’, la propria univocità come ‘parola sensa-ta’ - scrittura che, osservata da questo punto di vista, come ‘gesto’, si mostra come puro ‘dispendio’, proprio come la vita del persuaso.

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La <<Madama morte>> di Carlo Michelstaedter

Valentina Lunati

Il Leopardi assimila-to da Michelstaedter non è il poeta idillico

che riesce a trasformare il dolore in bellezza nel-la contemplazione del mistero dell’universo o nell’operazione magica

del ricordo delle proprie deluse speranze; è invece il giovane che si affaccia alla vita imperiosa e recla-ma un rendiconto. E’, […] il Leopardi eroico e ago-nistico dell’ultimo perio-do. Ma […], l’eredità che

Michelstaedter ha raccolto dal Leopardi va considera-ta in un senso più alto: nel drammatico intendimento della poesia come sfogo e liberazione delle proprie pene interiori, presa di coscienza dello stato esi-stenziale, determinazione sovrumana a non barare con le cose. 1

Secondo Sergio Campailla ne La vocazione di Tristano Michelstaedter

si incontrava spiritual-mente con il maestro reca-natese lontano dai clamori delle dichiarazioni e dei programmi ufficiali nella registrazione nuda del co-mune deficit esistenziale, affidandosi ad un linguag-gio ai limiti del silenzio a cui prestava l’essenziale alfabeto non il leziocinio del bello scrivere, ma la madrelingua stessa della cultura occidentale, la lin-gua greca […]. 2

Infatti leggendo gli scritti di Michelstaedter si eviden-ziano molte analogie con il pensiero e gli scritti leopar-diani: dalla <<martellante cadenza del verbo “dis-se”>> 3 nella prefazione alla Persuasione

1 S. Campailla, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Pàtron, Bologna, 1973, p. 54.2 S. Campailla, La vocazione di Tristano: storia interiore delle “Operette Morali”, Pàtron, Bologna, 1977, p. 189.3 Idem, p. 330.

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Lo dissero ai Greci Par-menide, Eraclito, Empedo-cle, […]; lo disse Socrate, […]. Lo disse l’Ecclesiaste […]; lo disse Cristo, […]; lo disse Eschilo e Sofocle e Simonide, […], lo ripeté con dolore Leopardi […]. 4

all’ <<altro coro leopar-diano: “e chi di loro dice…chi dice…”>> 5, notando che come Michelstaedter anche Tristano è

egualmente consape-vole che le sue parole si perdono al vento e che anzi egli deve imparare a camuffare per poter arriva-re in qualche modo a dire ciò che è necessario. 6

dalla ricerca ansiosa del Sapere sia per lo studioso goriziano secondo il quale gli uomini <<hanno bisogno del <<sapere>> >> 7, sia per i protagonisti della Storia del genere umano che, nono-stante le punizioni di Giove, preferiscono il suicidio allo stato di ignoranza; dalla criti-ca alla società moderna per-ché <<Ogni progresso della tecnica istupidisce per quella parte il corpo dell’uomo>> 8 ai <<progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni [che] producono la barbarie, e un popolo oltremodo illu-minato non diventa mica civi-lissimo, […] ma barbaro>> 9 della Proposta dei premi; dal-

la <<gioia d’aver la terra si-cura sotto i piedi, d’esser per sempre fuori, salvi da quella terribile, vertiginosa solitu-dine>> 10 dopo esser scesi dall’aerostato alla speranza di Pietro Gutierrez di contem-plare la notte dalla terra fer-ma; da <<quell’aggiornamen-to novecentesco del Dialogo della Terra e della Luna che è la michelstaedteriana koσμική έντενξις, ovverosia l’Incontro cosmico tra la Terra e la Co-meta>> 11, all’allontanamento dalla Chiesa, finché <<i preti […] possono e potranno eter-namente tutto>>, perché <<Il Cristo che si rivelò a Michel-staedter attraverso al medita-zione dei Vangeli è un Cristo dotato della sola natura uma-na, che può salvare se stesso e non altri>> 12.

Ciò che inoltre lega dram-maticamente il maestro di Re-canati all’allievo di Gorizia è l’ombra della morte che affio-ra anche a causa della salute cagionevole:

Io sono debole di cor-po e d’anima – messo in mezzo alla natura sarei presto vittima della fame, delle intemperie, delle fiere – messo in possesso di ciò che è necessario, al riparo delle forze della natura ma in mezzo alla cupidigia degli altri uomi-ni – sarei in breve privato di tutto e perirei misera-mente. 13

La Madama Morte però, che nelle Operette morali non incute più paura bensì com-passione, descritta come una vecchia signora dalla vista in-debolita che non sente bene e non ricorda di avere una sorella, descritta da Leopardi con l’arte dell’ironia, che era stata superata con la scoper-ta dell’immortalità dal Fisico, ricercata come unica solu-zione di salvezza dall’Anima e di felicità da Malambru-no, interrogata da Federico Ruysch o invocata dall’alter ego Tristano, negli scritti di Michelstaedter torna ad assu-mere quell’aurea di tensione e struggimento.

Nel Dialogo della salute nelle battute di Nico, negli in-terrogativi prima

E che importa a me più esser sano o ammalato se devo morire? 14

e Quale forza fisica o

quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? 15

e nella risposta dopo

No: val meglio coglier l’attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso.-

sembra rileggere il dialogo leopardiano tra il Fisico e il Metafisico nell’esclamazione

4 S. Campailla, Carlo Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, (a cura di), Adelphi, Milano, 2007, p. 35.5 S. Campailla, La vocazione di Tristano: storia interiore delle “Operette Morali”, Op. Cit., p. 330.6 Ibidem.7 S. Campailla, Carlo Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, (a cura di), Op. Cit., p. 100.8 Idem, p. 156.9 C. Galimberti, Giacomo Leopardi, Operette morali (a cura di), Guida, Napoli, 1998, pp. 109-110.10 S. Campailla, Carlo Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, (a cura di), Op. Cit., p. 115.11 S. Campailla, La vocazione di Tristano: storia interiore delle “Operette Morali”, Op. Cit., p. 18912 S. Campailla, A ferri corti con la vita, Comune di Gorizia, 1981, p. 123.13 S. Campailla, Carlo Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, (a cura di), Op. Cit., p. 150.14 S. Campailla, Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, (a cura di), Adelphi, Milano, 1988, p. 29.15 Idem, p. 31.

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di gioia nell’aver finalmente trovato la soluzione di <<vi-vere lungamente>> alla con-statazione che sarebbe meglio vivere la vita degli efimeri che <<non passano l’età di un giorno, e […] muoiono bisa-voli e trisavoli>>, fino alla so-luzione di Rico: <<è preferibi-le dunque la morte alla vita>> 16 che ricorda l’espressione di Fanfarello << il non vivere è sempre meglio del vivere>>.

Rico. […] Finché la morte togliendoci da que-sto gioco crudele, non so cosa ci tolga – se nulla ab-biamo. – Per noi la morte è come un ladro che spo-gli un uomo ignudo.-

Nino. La vita ci toglie: questo che tu dici crudele gioco, questo è la cara la dolce vita. Mancar di tutto sì e tutto desiderare – que-sta è la vita. 17

Un concetto simile è as-sente in Leopardi il quale ra-ramente esalta il valore della vita bensì la descrive come una lunga agonia in cui spera che arrivi presto la morte per porre fine al calvario.

Il dialogo tra Nino e Rico si avvia alla conclusione ra-gionando anche sulla paura della morte

Nino. Ah, Rico, la pau-ra della morte è vile cosa – e tutti la temono che inva-no a lei vogliono sfuggire; - il vecchio custode nella fredda valle li attende – che così irrise al nostro stato. – Tutte le cose vin-

ce la morte, e nessuna io posso ormai con coscien-za cercare e volere se non la morte!

Rico. […]. Ma questa stessa tua invocazione della morte è la paura della mor-te! […]. E’ il sonno e l’oblio che chiedi, non la morte. 18

Dunque, restando fedeli a Michelstaedter anche Leopar-di, alias Tristano, invocando la morte e invidiando i mor-ti in realtà esprimeva la sua paura verso Madama morte?

Anche nelle poesie, in cui lo scrittore confida i propri sentimenti,

l’incontro con il Leo-pardi suggella la tendenza propria di Michelstaedter, di attingere ispirazione da una vicenda amorosa (Na-dia, Iolanda, Senia). 19

Ne Il canto delle crisalidi

Va infine osservato come la tragica antinomia di vita e morte enigmatica-mente cantilenata in que-sta composizione porti su un piano di astrazione me-tafisica il vecchio concetto romantico di <<Amore e morte>>, ancora presente in Cade la pioggia, e come essa in una prospettiva storico-culturale possa far pensare, non arbitraria-mente, all’originario dua-lismo pulsionale teoriz-zato a Vienna da Freud in anni assai vicini. 20

Nella poesia Aprile la morte è un <<benevolo por-

to sicuro>> che “protegge” e pone fine alle sofferenze cui la vita per uno o la Natura per l’altro dalla <<forma smisu-rata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una mon-tagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terri-bile, di occhi e capelli neris-simi>> sottopongono l’uomo.

Pur tu permani, o mor-te, e tu m’attendi

o sano o tristo, ferma ed immutata,

morte benevolo porto sicuro.

Questa invocazione è se-condo il Campailla

ricca di pathos, che rinvia alla preghiera leo-pardiana Amore e morte e che, segnando la so-pravvenuta accettazione del suicidio come estremo rifugio, sembrerebbe poter gettare luce sulle ambi-gue dichiarazioni dei mesi successivi e sull’ultimo di-sperato gesto. 21

Ne I figli del mare la mor-te non è più il <<benevolo porto sicuro>> bensì <<estin-zione e distruzione concessa dal <<Dio nemico>>. L’esse-re-per-la-morte, insidiato da oscuri trasalimenti, si decide decadendo da ultimo nella Morte-per-essere>>. 22

Nel componimento Mi-chelstaedter fa dire a Senia che desidera la morte <<que-sta triste nebbia oscura/dove geme la torbida luce/ dell’an-

16 Idem, p. 74.17 Idem, p. 39.18 Idem, p. 79.19 S. Campailla, Carlo MIchelstaedter, Poesie, ( a cura di), Adelphi, Milano, 1992, p. 13.20 Idem, pp. 15-16.21 Idem, p. 17.22 Idem, p. 31.

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goscia, della paura>>alla quale Itti risponde che <<nes-suna cosa vince la morte>> perché <<ogni cosa che vive muore>> concludendo che <<la morte non è abbando-no […] ma è il coraggio della morte/onde la luce sorge-rà>>.

Nell’ultima poesia di A Se-nia la morte diviene di nuovo quel <<benevolo porto sicu-ro>> di Aprile

Fatto sono da me stesso diverso

Che contra il fato mi dicevo forte,

poiché ho esperta e an-cor vivo ad ogni istante

nella tua indifferenza la mia morte.

Né più mi giova men-dicare i giorni

Né chieder altro più dal dio nemico,

se non che faccia mia morte finita.

Dunque

L’adesione teoretico-esistenziale al Leopardi, sofferta in un assiduo col-loquio, si esprime in una molteplicità di situazioni: dal contrasto fra la cicli-cità sempre eguale della natura e la fuga inarre-stabile della giovinezza, agli interrogativi sul senso dell’essere, sino all’invo-cazione alla Morte. 23

Tale assunto viene subito confutato da alcuni versi de I figli del mare

Mi parve dolce cosa naufragare

Nel seno ondoso che col ciel confina,

né temuta ho la morte…

con il bellissimo verso leo-pardiano <<e il naufragar m’è dolce in questo mare>>.

E’ significativo dunque come la Morte divenga un lei-tmotiv di molti componimenti in prosa oltre che di quelli po-etici, come si legge, nell’Epi-stolario, in una lettera indiriz-zata alla madre il 10 settembre 1910 in cui Carlo Michelsta-edter esprimeva, anticipando probabilmente quel gesto fata-le, così la sua angoscia

Ma in ogni modo, mamma, la fine è vicina, ed è vicina l’alba della mia vita; […]. Non ho niente da temere dalla vita, nien-te mi può cambiare, nien-te mi può fermare. 24

Niente infatti ha potuto fer-mare la sua mano quando, il 17 ottobre 1910, solo un mese dopo quella lettera, impugna-ta la pistola lasciata da Rino Mreule, si ucciderà ponendo fine alla sua esistenza o dimo-strando il suo coraggio giacché

No, la morte non è ab-bandono>>

disse Itti con voce più forte

<<ma è il coraggio del-la morte

onde la luce sorgerà.il coraggio di sopportaretutto il peso del dolore,il coraggio di navigareverso il nostro libero

mare,il coraggio di non sostarenella cura dell’avvenire,il coraggio di non lan-

guireper godere le cose

care.

23 Idem, pp. 16-17.24 S. Campailla, Carlo Michelstaedter, Epistolario, (a cura di), Adelphi, Milano, 1983, pp. 450-451.

BIBLIOGRAFIA

•Campailla S., A ferri cor-ti con la vita, Comune di Gorizia, 1981

•Campailla S., Carlo Mi-chelstaedter, Epistolario (a cura di), Adelphi, Milano, 1983

•Campailla S., Carlo Mi-chelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi (a cura di), Adelphi, Mila-no, 1988

•Campailla S., Carlo Mi-chelstaedter, La Persuasio-ne e la Rettorica, Adelphi, Milano, 2007

•Campailla S., La voca-zione di Tristano. Storia interiore delle “Operette Morali”, Pàtron, Bologna, 1977

•Campailla S., Pensiero e poesia di Carlo Michel-staedter, Pàtron, Bologna, 1973

•Campailla S., Carlo Mi-chelstaedter, Poesie (a cura di), Adelphi, Milano, 1987

•Campailla S., Scrittori giuliani, Pàtron, Bologna, 1980

•Galimberti C., Giacomo Leopardi, Operette morali (a cura di), Guida, Napoli, 1998

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Il dolore della solitudine che va sfidato ogni giorno

Si è soli quando non si ama più.Il rischio abbandono

Quando parliamo di solitudi-ne ci riferiamo alla sofferenza del-la solitudine. Ci sono, infatti, delle persone che, almeno in certi pe-riodi della loro vita, stanno bene soli per studiare, per lavorare, per riflettere. La solitudine dolorosa è quella che ci viene imposta.

Perché la solitudine è così ter-ribile? Perché noi, come individui isolati, non esistiamo. La nostra lingua, le nostre emozioni, il mo-do di comportarci, le mete, le spe-ranze le prendiamo dai genitori, dai maestri, dagli amici, dagli al-tri. Viviamo nella nostra comunità come il bambino nel ventre della madre, fuori c’è il deserto, l’esilio: trovarsi fra gente che non conosci e che non ti conosce, che non ami e che non ti ama, a cui non sai co-sa dire e che non ha nulla da dir-ti. Uno stato tanto più doloroso se prima eri accanto al tuo amore, circondato da amici che compren-devano i tuoi pensieri, i tuoi sen-timenti, i tuoi desideri. Ora conti-nui a pensare a chi hai perduto e il futuro ti appare più doloroso del presente. I medici dell’Ottocento l’hanno studiata come malattia e l’hanno chiamata nostalgia.

Tre sono le cause di nostalgia: la morte, la distanza, l’abbando-no. La morte ti spinge a pensare alla persona amata e a dialogare

Francesco Alberoni

mentalmente con lei. La distanza ti fa desiderare dolorosamente il tuo amato, con cui però puoi parlare aspettando il vostro incontro. Que-sto ti dà vita, energia. La distanza crea una solitudine dolorosa ma at-tiva. L’abbandono, invece, ti porta a rimuginare sul passato per trova-re dove avete sbagliato. Da qui un dialogo fatto di rimproveri e di ac-cuse. Ci sono anche forme di solitu-dine a due. Come i coniugi che non si amano più, si costringono a vive-re insieme per amore dei figli: due carcerati nella stessa cella.

Esiste un metodo per evitare o almeno ridurre il dolore della soli-tudine?

Sì. Non richiudersi mai in un so-lo gruppo, non tenere mai i rapporti con una sola persona. Anche se la ami disperatamente, non farti im-prigionare in quell’unico rapporto, continua a frequentare chi ti piace, chi ti capisce e ti ispira fiducia, la-vora insieme a loro, fa’ progetti e va’ alle loro feste, incontrali nelle vacanze. Apriti anche a conoscere nuove persone. E, quando puoi far-lo, fa’ partecipare quotidianamente il tuo amato alla tua vita e parte-cipa nello stesso modo tu alla sua, ai suoi affetti, riflettendo insieme su tutto. Grazie a questa comunione spirituale e di relazioni non sarai mai completamente solo.

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Curiosità: Nelle prime partite di calcio di-

sputada in Inghilterra l’arbitro non face-

va uso del fischietto, ma di una trombetta;

inoltre era vestido di tutto punto, con pan-

taloni, giacca e tuba.

cruciverba per esperti

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sOLu

ZiON

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