il metodo narrativo - università ca' foscari venezia

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Università Cà Foscari di Venezia Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Filologia e Letteratura Italiana Tesi di Laurea Il Metodo Narrativo Paesaggi mentali della formazione Relatore: Ch. Prof. Ivana Padoan Correlatore: Ch. Prof. Ricciarda Ricorda Laureando: Tiziano Battaggia Matricola: 825124 Anno Accademico 2012/2013

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Università Cà Foscari di Venezia

Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004)

in Filologia e Letteratura Italiana

Tesi di Laurea

Il Metodo Narrativo

Paesaggi mentali della formazione

Relatore: Ch. Prof. Ivana Padoan

Correlatore: Ch. Prof. Ricciarda Ricorda

Laureando: Tiziano Battaggia

Matricola: 825124

Anno Accademico 2012/2013

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INDICE

Abstract pag. 3

Introduzione pag. 5

1 Identità e narrazione

1.1 Il racconto dell’esperienza pag. 13

1.2 I dispositivi della narrazione pag. 16

1.3 La costruzione narrativa del sé pag. 22

2 La creazione del sé nel romanzo di formazione

2.1 La metafora formativa del Bildungroman pag. 27

2.2 Principio di classificazione e principio di trasformazione pag. 30

2.3 La Bildung goethiana pag. 33

2.4 Bildungroman e identità professionale pag. 39

2.5 Bildungroman e quotidianità pag. 42

2.6 Il rapporto figura sfondo nel Bildungroman pag. 45

2.7 L’integrazione tra socialità, orgoglio e pregiudizio pag. 49

2.8 Il romanzo di formazione nella modernità pag. 53

2.9 Realismo narrativo e relativismo sociale pag. 56

3 Autoformazione tra riflessività e narazione

3.1 Aspetti dell’autoformazione pag. 59

3.2 Autoformazione e identità sociale pag. 63

3.3 Identità complesse e complessità sociale pag. 66

3.4 Autoformazione e riflessività nell’azione pag. 69

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  2

3.5 L’importanza del contesto nell’autoformazione pag. 76

3.6 L’apprendimento situato e le comunità di pratica pag. 79

3.7 Lo sfondo integratore pag. 82

3.8 La funzione del fantastico nell’autoformazione pag. 89

3.9 Identità, immaginazione e immaginario sociale pag. 99

3.10 Identità e individualizzazione nella postmodernità pag. 101

3.11 Per un apprendimento trasformativo pag. 105

4 Formazione narrativa e Narrazione formativa

4.1 Verso una Formazione Narrativa pag. 112

4.2 La Narrazione Formativa come “cura sui” pag. 116

4.3 La lettura per formarsi: una questione di metodi pag. 120

4.4 “Dimmi cosa leggi...”: la lettura come comunità di pratica pag. 122

4.5 Un laboratorio di Lettura Performativa pag. 127

4.6 La scrittura-di-sé: verso una definizione di metodi pag. 132

4.7 Le scritture-di-sé: l’approccio esistenzialista di Pineau pag. 138

4.8 Le scritture-di-sé: l’approccio fenomenologico di Demetrio pag. 142

4.9 Le scritture-di-sé: l’approccio costruttivo-relazionale di Le Bohec pag. 148

Conclusioni pag. 155

Appendice pag. 159

Bibliografia pag. 184

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  3

Abstract

La tesi vuole analizzare le influenze del pensiero narrativo, fondamentale

modo di funzionamento della mente, nella costruzione delle esperienze

formative degli adulti. È noto il potere pervasivo della dimensione

narrativa nei percorsi di apprendimento. Ciò che ci interessa è individuare

come la narrazione delle esperienze e sulle esperienze orienti l’identità

professionale, le costruzioni di senso dell’agire, le epistemologie implicite

ed esplicite sottese alle prassi, la produzione di modelli significativi e di

dispositivi efficaci. Si tratta di esaminare i diversi approcci culturali alla

dimensione narrativa dell’individuo, da quelli letterari, a quelli psicologici e

terapeutici, fino agli ambiti scientifici delle neuroscienze e degli studi

riguardo l’apprendimento e il lifelong learning.

L’intento è di ricavare indicatori validi per definire una proposta di metodo

o, forse, sarebbe meglio parlare di metodi narrativi utili a supportare la

problematicità dei ruoli professionali, in particolare di quelli educativi e

sociali.

The purpose of this thesis is to analyze the influences of narrative

thinking, fundamental mind mode of operation, in building the learning

experiences of adults.

The pervasive power of the narrative dimension in learning pathways is a

renown fact. What we are interested in is to identify how telling

experiences orientates professional identity, the construction of the

meaning of acting, implicit and explicit epistemologies underlying the

common practice, the production of meaningful models and effective

devices.

It is about examining the different cultural approaches to narrative

dimension of the individual, from the literary, psychological and

therapeutic ones, until the scientific fields of neuroscience and studies

about learning and lifelong learning.

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We aim to obtain valid markers able to define a proposal for a method, or

rather say narrative methods, useful to support the problematic nature of

professional roles, especially educational and social ones.

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Introduzione

La narrazione è uno dei modi privilegiati attraverso cui l'uomo si pone in

rapporto con il mondo. Infatti, attraverso i racconti, l'uomo ha potuto

tramandare la sua cultura e assicurare così la continuità fra le generazioni.

Raccontando storie gli uomini condividono emozioni ed esperienze,

trasmettono conoscenze utili per la sopravvivenza, e costruiscono le forme

e i modi delle relazioni.

Per il tramite del pensiero narrativo, diventiamo nel corso del nostro

sviluppo via via sempre più capaci di descrivere, spiegare e comprendere

eventi, atti e comportamenti, inscrivendoli in strutture di senso che sono

personali, e al tempo stesso connessi con i modi sociali e culturali

attraverso cui la realtà è letta e interpretata.

Il pensiero narrativo ci permette, quindi, di organizzare le esperienze in

racconti, che stimolano e orientano le nostre riflessioni, sostenendo i

processi di formazione e cambiamento.

La tesi presenta alcune declinazioni di tale processo, iscrivendole

nell’ambito educativo e sociale, dove la dimensione formativa, intesa come

costruzione del sé e della propria identità nel tempo, coinvolge sia gli

operatori, sia gli utenti. L'attribuzione di significati attraverso la narrazione

è un fatto soggettivo, che si rispecchia e amplifica nell’interpretazione dei

contesti di vita e di lavoro condivisi con altri. In tal modo, non solo

mettiamo in relazione i propri stati interiori con la realtà esterna, ma

costruiamo e spesso, nelle relazioni d’aiuto alla persona, de-costruiamo e

ricostruiamo il significato stesso di tali contesti per accedere a livelli di

integrazione più rispondenti ai bisogni personali e sociali.

Scopo della tesi è individuare in quali modi, attraverso quali funzioni e con

quali mezzi la narrazione delle esperienze e sulle esperienze orienta

l’identità professionale, le costruzioni di senso dell’agire, le epistemologie

implicite ed esplicite sottese alle prassi, fino a giungere alla produzione di

modelli significativi e di dispositivi efficaci nell’ambito della formazione.

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Nel primo capito si delinea uno degli sfondi epistemologici portanti della

tesi, a partire dall’analisi della prospettiva socio-costruttivista di Bruner.

Secondo l’autore, la realtà che percepiamo è una realtà costruita e noi

strutturiamo la conoscenza e l’esperienza soprattutto tramite il pensiero

narrativo. Lo sviluppo di tale competenza è, quindi, fondamentale sia per

la strutturazione dell’identità individuale sia per la coesione della cultura, o

meglio, delle culture cui apparteniamo. Con l’aiuto di Bruner si cercherà di

analizzare cosa costituisce un racconto, e attraverso quali dispositivi la

narrazione ci fornisce le chiavi d’interpretazione per trasformare

l’indicativo della nostra realtà nel congiuntivo delle possibilità, al fine di

affrontare l’imprevedibile delle nostre esistenze nella società dell’incertezza

in cui viviamo. Sta, come vedremo, nel significato e nella funzione della

metafora la “raccontabilità” delle storie: ciò che ci spinge a far coincidere

la costruzione della propria identità con la narrazione di sé, come una vera

e propria arte narrativa.

Proprio a quest’arte narrativa è dedicato il secondo capitolo. È preso in

esame il “romanzo di formazione”, sulla base della ricca e complessa

analisi di Franco Moretti. L’intento è di comprendere la dialettica che

intercorre tra letteratura e modelli culturali della formazione di sé; e come

dal “Bildungroman” si avvia la trasformazione del carattere privato

dell’esperienza in divenire sociale e storico. Infatti, l’influenza dei temi

narrativi e dei modelli d’individuo che i romanzi di formazione veicolano, la

stessa rappresentazione psicologica e sociale dei rapporti tra privato e

pubblico, nonché le idee di gioventù e di maturità, che il romanzo di

formazione scandisce nelle sue trame, si estendono ben al di là della

letteratura in genere, giungendo fino ai giorni nostri. Mobilità sociale,

come rapporto storico con la propria epoca e interiorità, come intimità del

quotidiano, sono i motivi privilegiati del romanzo di formazione, che si

fissano nell’immaginario collettivo continuando a condizionare le idee

sull’identità e sulla costruzione del sé, assumendo contenuti via via

differenti, in particolare nel passaggio dalla modernità alla cosiddetta post-

modernità. Analizzando le differenze d’intreccio tra il “Bildungroman”

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goethiano, basato sul “principio di classificazione” e i successivi romanzi di

Stendhal e Puškin, fondati sul “principio di trasformazione”, si

comprendono le diverse declinazioni che può assumere il paradigma

dell’autodeterminazione del soggetto e della sua socializzazione. Si tratta

di leggere le vicende dei protagonisti in un rapporto “figura/sfondo”, per

comprendere come l’introduzione di nuovi elementi a livello di trama

narrativa può rendere ancor più disfunzionale l’integrazione dell’individuo,

oppure permettere di riorganizzare le situazioni problematiche in senso co-

evolutivo. Da questo punto di vista, matura nella tesi l’ipotesi che la

lettura dei “romanzi di formazione” fornisce ancor oggi indicazioni utili su

come favorire quei cambiamenti di paradigma personale necessari per

operare una più attiva e consapevole integrazione del sé. In particolare, la

molteplicità dei punti di vista, che rende realistico il romanzo moderno, col

suo moltiplicarsi delle prospettive, il continuo passaggio dal piano del

racconto a quello del discorso e del commento, richiede un lettore attento

a non farsi attrare dalle lusinghe del disincanto, optando invece per un

atteggiamento curioso e duttile, aperto ed empirico, responsabile e

maturo.

Possiamo approfondire quegli elementi e quei dispositivi narrativi

intrinsechi alle nostre esistenze, che la letteratura contribuisce a rendere

esemplari e rappresentativi, a condizione di sviluppare un percorso

consapevole e intenzionale di “autoformazione”. È questo il tema

affrontato nel terzo capitolo della tesi. Esaminando gli aspetti e quei

modelli di autoformazione che privilegiano l’approccio narrativo, non si

può far a meno di analizzare la condizione contemporanea dell’identità

individuale e ciò che la caratterizza in rapporto alle dinamiche sociali della

post-modernità. Zygmunt Bauman ci avverte del rischio al quale siamo

esposti nella società dell’incertezza di eludere la problematicità delle

nostre esistenze quotidiane, rifugiandoci nel consumo delle merci,

illudendoci di garantirci nell’esperienza dell’effimero l’autoaffermazione di

sé; invece di cogliere le opportunità che una società più libera da

ideologie, strumenti e modelli istituzionali coercitivi potrebbe offrire in

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termini di costruzione di sé, di nuove forme di legame e di relazione con

gli altri.

La prospettiva che s’intende indagare e far propria per affrontare

l’indeterminatezza della società fluida e in continua trasformazione nella

quale viviamo è quella sistemica e relazionale, che s’ispira alle tesi di

Maturana e Varela. Cioè, interpretare il rapporto “interno/esterno” come

un “accoppiamento strutturale” fra realtà che si sviluppano mantenendo la

propria organizzazione: in questo senso le due realtà, soggetto e contesto,

costruiscono un “mondo” condiviso, cioè una “storia”. Di fronte alla

complessità sociale, si propone, allora, un processo di autoformazione, in

cui risalti la complessità della persona (leggi: le intelligenze multiple di

Gardner), e la necessità di un apprendimento come costruzione attiva e

consapevole di saperi e competenze. Tale complessità del soggetto è

declinabile, in senso batesoniano, in termini di “narrazione”, quale

espressione della propria “riflessività”. Qui sta uno dei fulcri intorno ai

quali si articola la tesi: la reciprocità dialettica, appunto, tra narrazione e

riflessività, in cui l’una implica l’altra, le nutre e la arricchisce. Da Schön e

Mezirow ricaviamo indicazioni precise e pertinenti, che orientano

l’autoformazione verso pratiche di razionalità riflessiva: col primo per

superare la tradizionale scissione tra pensare e agire; col secondo, per

imparare a distinguere le teorie “dichiarate” da quelle “in uso” e a

modificare quest’ultime trasformando le proprie “prospettive di

significato”.

Ciò può realizzarsi solo a condizione che il processo auto-formativo si

sviluppi attraverso pratiche cognitive “situate” e “interattive”, non in

termini solipsistici e di mera acquisizione di conoscenze. L’integrazione tra

dimensione individuale, collettiva e sociale dell’apprendere presuppone

contesti di vita e di lavoro che mettono in gioco l’”intersoggettività”. S’è

ritenuto, quindi, importante analizzare le diverse definizioni di “contesto",

da concetto linguistico, ai significati psicologici e culturali che ha assunto,

dando sempre più rilievo all’esperienza socio-relazionale dell’individuo. In

tal senso, la visione sistemica di Bateson, che interpreta il contesto come

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coevoluzione di parti interagenti, e l’approccio socioculturale di Vygotsky,

per il quale l’apprendimento è il prodotto di contesti socializzanti, hanno

favorito lo sviluppo di una serie di proposte metodologiche in ambito

educativo, sociale e professionale caratterizzate dalla partecipazione attiva

e dal coinvolgimento dei soggetti nella progettazione e realizzazione di

azioni volte all’acquisizione di abilità e competenze. Le “comunità di

pratica” e la metodologia dello “sfondo integratore” sono le due proposte

esposte nel capitolo, scelte in quanto considerate affini all’ambito

dell’autoformazione, e nelle quali la narrazione si rivela una dimensione

determinante della relazione educativa e dei processi di apprendimento.

Un terzo aspetto che s’è ritenuto importante analizzare e che connette tra

loro le diverse proposizioni della tesi, è quello dell’”immaginario”. La

capacità riflessiva si articola in una narrazione di sé che coinvolge la

persona nella sua globalità, gli aspetti cognitivi e la sua intelligenza

emotiva, la razionalità e l’intuizione, la logica e l’immaginazione.

Quest’ultima si alimenta a sua volta di quell’immaginario “diurno” e

“notturno”, che struttura la nostra personalità. Infatti, indagando alcune

tra le fondamentali concezioni dell’immaginario, s’è potuto verificare come

tutte condividono l’importante funzione che riveste nella costruzione del

sé. Indugiare nell’immaginario e nel fantastico permette al soggetto di

riassorbire il “negativo” delle proprie esperienze, di rassicurarsi sulla

propria consistenza, di realizzare un rapporto più dinamico tra gli aspetti

esperienziali e soggettivi con quelli più razionali e istituiti, di affrontare la

pluralità e la molteplicità dell’esistente come nuove opportunità e ispirare

la ricerca di equilibri diversi, tenendo in considerazione gli impensati della

coscienza e le dinamiche dell’inconsapevolezza e del tacito.

È nei colori dell’immaginario e in quelli della cognizione che attingiamo il

pennello della nostra immaginazione, delle nostre ipotesi, delle nostre

aspettative e intraprese, per dipingere i quadri che rappresentano i

paesaggi della formazione esposti in questa tesi.

Per restare nella metafora, l’ultimo capitolo è dedicato proprio alle

tecniche di pittura. Sono analizzati gli elementi strutturanti del paesaggio

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formativo: i contesti e gli attori, i linguaggi e la comunicazione, le

tecniche e gli strumenti operativi, le dinamiche dei gruppi e le architetture

relazionali. Un particolare riferimento è dedicato all’ambito delle

neuroscienze, in quanto la scoperta dei neuroni specchio conferma come

l’empatia sia lo sfondo della nostra intelligenza. L’imitazione degli stati

d’animo altrui ci consente di dedurre l’ordine delle relazioni affettive e

sociali, i complessi di valori che le organizzano, gli schemi di

comportamento individuali e collettivi, e di conseguenza, di creare un

mondo possibile, evocando su di noi il richiamo della condizione umana

nel linguaggio della rappresentazione metaforizzata.

Sulla scia di Franco Cambi s’intende declinare la “formazione”, o meglio,

l’”autoformazione” come una “cura del sé”, che favorisce da una parte una

lettura dell’identità soggettiva e intersoggettiva, dall’altra il recupero delle

dimensioni di tipo processuale caratteristiche dei percorsi di evoluzione e

crescita, di interpretazione e cambiamento.

“Cura del sé” che riguarda sia chi ha il compito di prendersi cura di altri,

sia la cura di coloro che ci sono affidati, dei soggetti a rischio, per

sostenerli nel loro sviluppo emotivo e cognitivo e in vista del

raggiungimento di una migliore integrazione. Cura, quindi, legata anche a

interventi di “risveglio del sé”, intesi a rafforzare l’identità dei soggetti e a

promuoverne la capacità di costruire propri progetti esistenziali.

Trova conferma in Cambi l’ipotesi intorno alla quale si muove la tesi: la

narrazione come via maestra della “costruzione del sé”, attività primaria,

fondamentale e permanente da presidiare e coltivare come un paradigma

formativo della mente e collante culturale in tutte le civiltà.

L’indagine sui “metodi narrativi” è preceduta dall’analisi di quelle tecniche

di vita fondamentali per innescare e sviluppare la propria autoformazione

come processo continuo, da portare avanti con rigore e disciplina,

indispensabili nella guida di se stessi: la “lettura” per formarsi e conoscere

il mondo, la “scrittura” per il piacere formativo e pensare i propri pensieri,

e, in particolare, l’”autobiografia” come cura di sé.

Si tratta di tecniche che affondano le loro origini nel passato della nostra

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civiltà occidentale, da quella ellenistica, per declinarsi in seguito con

Sant’Agostino nella cultura cristiana e con Rousseau nell’illuminismo. In

tempi più recenti, un paradigma d’eccellenza dell’autobiografia è

rappresentato senz’altro dalla “Recherche” proustiana, il cui modello

letterario ha ispirato e continua a farlo molti autori anche in Italia, come

Svevo e Calvino. Con Proust l’autobiografia abbandona definitivamente

l’intento celebrativo e giustificatorio, per assumerne uno più problematico

di ripensamento dell’io e di ricerca di sé. Il rischio attuale è che la scrittura

perda la sua “aura”, si desublimi per farsi mezzo, e come tale merce. Blog

e forum, insieme alle altre forme di multimedialità, pur con le loro evidenti

potenzialità creative e articolazioni comunicative, si consumano

nell’immediatezza della loro funzionalità. Ciò mette a repentaglio il ruolo

cognitivo-espressivo, problematico e interpretativo che sta alla base della

testualità. Si è ritenuto importante registrare alcune considerazioni sul

ruolo da attribuire alla “scrittura-di-sé” nella post-modernità, e sulle

funzioni che può assumere per le generazioni dei cosiddetti nativi digitali

avvezzi all’uso delle tecnologie informatiche.

Riguardo alla prima tecnica, sono descritti due laboratori che partono dalla

lettura per ritornare ad essa e su di essa tramite vissuti condivisi e

partecipati in gruppo. La loro valenza formativa sta nella rielaborazione di

una pratica personale e intima in un’attività di relazione e di scambio. Tale

esperienza implica un ascolto reciproco ed una restituzione, intesa sia

come impressione personale sia come espressione di reciprocità, per

giungere in uno dei casi anche ad una vera e propria produzione

espressiva e creativa.

Il metodo della “scrittura di sé” è esaminato attraverso la descrizione di

tre diversi approcci, che condividono l’attenzione agli aspetti problematici

dell’esistenza.

Per gli autori delle proposte metodologiche esposte l’uso

dell’”autobiografia” avanza pretese di “decostruzione-ricostruzione”

dell’identità personale e professionale dei soggetti coinvolti in tali pratiche,

per rispondere alle esigenze della società complessa, ma anche e

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soprattutto ai bisogni personali e sociali di cambiamento e di

trasformazione in senso etico ed ecologico.

L’”approccio esistenzialista” di Pineau propone le “biografie di vita” per

ricostruire i frammenti delle proprie esistenze e cercare di dare senso e

valore alle “transazioni”, che permettono di modificare e di cambiare il

proprio agire nel mondo.

Attraverso il suo “approccio fenomenologico” Demetrio contestualizza la

forma “auto-educativa” in una rilettura “originale/originaria” della

condizione fenomenologico esistenziale del soggetto, includendo in essa

l’insieme dei paradigmi della vita e della morte, del lavoro e del gioco.

L’”approccio costruttivo-relazionale” di Le Bohec, infine, sviluppa il metodo

delle “co-biografie” nella formazione. Con la raccolta e il confronto in

gruppo di biografie personali, si cerca di individuare i debiti familiari e il

progetto di vita di ognuno, quale fonte della propria e dell’altrui

formazione.

Il quadro delle proposte metodologiche si chiude in appendice con il

resoconto di un “seminario di formazione” condotto dal sottoscritto e da

Nerina Vretenar. Con tale documentazione si vuole proporre e divulgare

un esempio di applicazione pratica di un dispositivo, che richiama l’insieme

delle considerazioni e delle ipotesi avanzate nella tesi, ispirandosi alle

teorie e ai modelli esposti.

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1 Identità e narrazione

La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi

quella di promuovere spazi e forme di

socializzazione animati dal desiderio, pratiche

concrete che riescano ad avere la meglio sugli

appetiti individualistici e sulle minacce che ne

derivano. Educare alla cultura e alla civiltà

significava – e significa ancora – creare legami

sociali e legami di pensiero.

(M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni

tristi)

1.1 Il racconto dell’esperienza

Nell’incipit di un recente articolo apparso su “La Repubblica” Eugenio

Scalfari introduce un’intervista al Presidente Giorgio Napolitano,

affermando che la narrazione serve

“… a guardare il passato e a raccontarlo con gli occhi di oggi

ricavandone un’esperienza da utilizzare per agire sul presente e

costruire il futuro. Narrare il passato è dunque un elemento

indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a

raccontare vive schiacciato sul presente e il senso, cioè il

significato e la nobiltà della propria esistenza, fugge via.” 1

Subito dopo, l’illustre giornalista descrive la differenza tra la narrazione, in

cui il riscontro con i fatti avvenuti si rivela doveroso, e le favole che, senza

alcun riscontro con la realtà,

                                                                                                               1 Scalfari E., Due testimoni alle prese con i mali dell’Italia, in “La Repubblica, 2 giugno 2013.

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“sono lo strumento preferito dei demagoghi e servono solo per

accalappiare gli allocchi.” 2

In questa pur sintetica ma puntuale “lezione” si può leggere e intuire

l’influenza della narrazione nelle nostre vite.

Bruner,3 considera la capacità di narrare una dimensione fondamentale del

pensiero umano. Nel momento stesso in cui la raccontiamo, noi

interpretiamo la realtà e la organizziamo per dare senso e significato al

rapporto col mondo. Il racconto s’intreccia con la cultura, dando luogo a

un processo di scambio di significati, che ci consente di aderire a una

comunità, condividendo il sistema simbolico culturale. I racconti, però, ci

avverte l’autore, non sono innocenti, possono strutturare o distorcere la

nostra visione della realtà: non basta distinguerli dalle “favole dei

demagoghi”, sono entrambi narrazioni.

Per gli scopi di questa tesi sono di particolare interesse gli ultimi sviluppi

della prospettiva bruneriana. In uno dei suoi saggi più recenti, “La fabbrica

delle storie”, 4 con l’intento di spiegare cosa costituisce un racconto,

l’autore fa riferimento al concetto aristotelico di “peripéteia”5. Si tratta del

meccanismo letterario della “peripezia”, individuato da Aristotele nella

Poetica; il significato etimologico è “accadimento improvviso”. L’esempio di

Aristotele è illuminante.

“Nell’Edipo [re di Sofocle], il messo, venuto ad allietare Edipo e

a liberarlo dal timore nei confronti della madre, quando svelò chi

fosse, produsse il contrario.” 6

Secondo Bruner

                                                                                                               2 Ivi. 3 Cfr. Bruner J. S., La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988 e Bruner J. S., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 4 Cfr. Bruner J. S., La fabbrica delle storie, Laterza, Bari 2002. 5 Ivi, p. 5 – 6. 6 Barbarino A. (a cura di), Poetica/Aristotele, Mondadori, Milano 1999.

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“ […] i racconti cominciano sempre dando per scontata (e

invitando il lettore o l’ascoltatore a dare per scontata)

l’ordinarietà o normalità di qualche particolare stato di cose nel

mondo – la situazione che dovrebbe esistere quando

Cappuccetto Rosso va a far visita alla nonna […]. A questo

punto, la peripéteia sconvolge le attese: è un lupo travestito da

nonna […]. Il racconto è partito, con l’iniziale messaggio

normativo in agguato sullo sfondo. Forse la saggezza popolare

riconosce che è meglio lasciare che il messaggio normativo

rimanga implicito piuttosto che rischiare un confronto aperto su

di esso. Vorrebbe la Chiesa che i lettori della Genesi criticassero

l’iniziale ‘vuoto’ del Cielo e della Terra, protestando ‘ex nihilo

nihil’?” 7

C’è da chiedersi come nei racconti della propria formazione si genera la

“peripéteia” attraverso gli eventi “ordinari” della nostra esistenza; quali

indicatori ci consentono di cogliere i momenti di svolta nella complessità

delle esperienze personali e professionali; perché, invece, proprio a causa

dell’incapacità di leggere nella complessità delle nostre vite, rischiamo

spesso di eluderli o di lasciarcene travolgere, senza raggiungere

cambiamenti significativi e soddisfacenti. Ci troviamo già di fronte ad una

di quelle questioni di metodo che s’intendono affrontare e chiarire nella

tesi. Bruner ci suggerisce di rivolgere la nostra attenzione al modo

implicito e di conseguenza reticente con cui interpretiamo le nostre

esperienze. Nei tentativi di comprendere ciò che ci succede costruiamo le

nostre narrazioni, ma

“raramente ci chiediamo quale forma venga imposta alla realtà

quando le diamo la veste di un racconto. Il senso comune si

ostina ad affermare che la forma di un racconto è una finestra

                                                                                                               7 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 6.

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trasparente sulla realtà, non uno stampo che le impone la sua

forma.” 8

Per chiarire quest’aspetto fondamentale della nostra capacità di narrare,

Bruner riprende la distinzione di Gottlob Frege tra il “senso”, che è

connotativo e la “referenza”, che è denotativa.9 La narrazione, in quanto

finzione letteraria e non pura esperienza, non ci consente di pervenire alla

vera realtà, ma ci offre un mezzo indispensabile per dare senso

all’esistenza, rendendo così possibile la referenza alla vita reale. La

narrazione diventa, allora, l’espressione della propria visione della realtà,

del proprio punto di vista, delle proprie credenze e intenzioni, che

diventano interpretabili. Così, attraverso le relazioni, le successive

sedimentazioni delle interazioni sociali, le esperienze individuali si

convertono in esperienze collettive e queste, a loro volta trasformano le

prime.

In questa visione, la cultura in cui siamo cresciuti, che abbiamo appreso, o

sarebbe meglio dire, le culture che si sono depositate in noi, ci vincolano a

particolari modelli narrativi della realtà, che utilizziamo per dar forma alle

nostre esperienze. Possiamo intendere i “vincoli” come limiti da

riconoscere per reinterpretare le nostre esperienze, e come possibilità,

orizzonti culturali dai quali aprirsi a nuove prospettive di senso.

1.2 I dispositivi della narrazione

Nel capitolo successivo vedremo come la letteratura ci abbia fornito, e

continua a farlo, i modelli narrativi di riferimento per la costruzione del sé.

Sceglieremo in particolare di analizzare quelli più rilevanti nella nostra

cultura occidentale, nell’ipotesi di poterne ricavare efficaci indicatori di

metodo negli ambiti della nostra formazione personale e professionale.

                                                                                                               8 Ivi, p. 7 9 Cfr. Frege F.G., Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma 2001.

Page 18: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  17

Prima di accingerci a questo compito, è importante proseguire la nostra

visita alla fabbrica delle storie di Bruner, per attrezzarci con strumenti utili

a comprendere e manovrare i dispositivi della narrazione.

Innanzitutto, il rapporto tra esistenza e racconto implica una disponibilità

ad aprire spazi di ascolto e di lettura, di dialogo e di confronto tra la

soggettivizzazione e la pluralità di prospettive, per transitare dalla

prevedibilità del quotidiano all’eventualità dell’inatteso, dal familiare e

consolidato al possibile e immaginabile. Per Bruner si tratta di “coniugare

la realtà al congiuntivo”,10 partire da chi e cosa noi siamo per esplorare

cosa potremmo essere.

Questa capacità di “congiuntivizzare” la realtà assume una particolare

rilevanza nelle attuali società complesse. L’identità culturale attraversa una

profonda crisi per effetto dei processi di omologazione dei mass-media, di

sradicamento dovuti ai flussi emigratori e alle nuove mobilità territoriali,

per i problemi derivanti dall’accelerazione sociale, dalla globalizzazione e

dalla stessa crisi economica. Tutto ciò genera incertezza nel futuro e un

sentimento di insicurezza, che incide profondamente sul senso delle

identità sia individuali che collettive.

Soprattutto per le giovani generazioni, il futuro come “promessa”,

prospettiva fondamentale della cultura occidentale moderna, si è

trasformato in futuro come “minaccia”. La risposta a questo permanente

stato di emergenza e fragilità individuale e sociale, come avvertono

Benasayag e Schmit, 11 è l’imporsi di un’ideologia dell’utilitarismo, che

invita i giovani a crescere ed apprendere, a costruire la propria identità, i

propri ruoli sociali in una logica di produttività ed efficienza immediata.

Tale “narrazione” si oppone alla possibilità di proporre ai giovani la loro

integrazione sociale attraverso una più equilibrata coniugazione del

desiderio profondo con le necessità sociali.

La narrativa letteraria può offrire non solo modelli o esempi, ma

soprattutto chiavi di interpretazione e strategie per trasformare l’indicativo

                                                                                                               10 Cfr. Bruner J. S., La mente a più dimensioni, op. cit.. 11 Cfr. Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2009.

Page 19: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  18

della propria realtà familiare e quotidiana nel congiuntivo regno del

possibile. La narrativa letteraria è un’occasione per orientare la nostra

disponibilità a creare alternativi racconti produttori del sé.

La sensibilità del racconto a sfidare la nostra concezione del canonico, ci

aiuta a prevenire il prevedibile, ma anche ad aprirci al possibile e ad

affrontare l’imprevedibile.

La nostra capacità di leggere gli stati mentali altrui, la reciproca

intersoggettività che ci contraddistingue come specie umana è generata,

secondo Bruner, proprio dalla consuetudine di organizzare e comunicare

l’esperienza in forma di racconto. Dipende, quindi, dalla condivisione di un

comune fondo di miti e racconti.

“E dato che la narrativa popolare, come la narrativa in genere, è

organizzata sulla dialettica fra norme che sostengono l’attesa e

trasgressioni di tali norme evocanti la possibilità, come la stessa

cultura, non stupisce che il racconto sia la moneta corrente della

cultura.”12

C’è da chiedersi come si coniuga questa duplice e reciproca costruzione

del sé e costruzione di cultura attraverso la narrazione con l’avvento della

società globalizzata. Come condividere nella contemporaneità il comune

fondo di miti e di racconti nella sovrabbondante e immediata disponibilità

di credenze e narrazioni, che caratterizza la cosiddetta società della

conoscenza? La fine delle “grandi narrazioni” implica una rinuncia nella

ricerca di integrare la propria identità in un contesto riconosciuto, proprio

in quanto delimitato, oppure offre nuove possibilità di coevoluzione tra

identità e sfondo, entrambi non riducibili ed in continua trasformazione? Si

avverte il bisogno di maggior “riflessività”, proprio quando appare

incrementarsi sempre più il rapporto tra la previsione degli eventi e

l’influenza che essa ha sul loro verificarsi, a causa della velocità di

diffusione di informazioni e credenze. Questo effetto di schiacciamento sul

                                                                                                               12 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 19.

Page 20: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  19

presente che ci impedisce di mediare i propri desideri, di dilazionarli nel

tempo, confondendoli con bisogni immediati, ci induce a scegliere più sulla

base di fattori esterni e secondari, che sulle motivazioni più profonde del

nostro agire. Il rischio è di ridurre a nulla tutto il resto, nella sensazione

dell’impossibilità di poter considerare i molteplici e frammentari contenuti

esistenziali da selezionare, rielaborare, re-integrare.13

Proprio per collocarci come registi e non solo come attori negli scenari

della contemporaneità, con la miriade di sollecitazioni, a cui siamo

sottoposti, nel tentativo di dirigere le proprie esperienze e dar senso alle

nostre esistenze, la narrazione diventa un valido strumento. Infatti, la

narrazione, non solo crea modelli di mondi possibili, ma modifica anche i

modelli del narratore e le menti di coloro che nel racconto ricercano i suoi

significati. Come ci ricorda ancora Bruner

“… narrare deriva sia dal latino narrare, sia da gnarus, che è ‘chi

sa in un particolare modo’ - il che ci fa pensare che il raccontare

implichi sia un modo di conoscere, sia un modo di narrare, in una

mescolanza inestricabile.”14

Aggiungerei, un particolare modo di conoscere, riferito agli elementi

emergenti delle routine quotidiane, quelli che riteniamo significativi pur

nella consuetudine delle esperienze, ed il cui riconoscimento ci permette di

trattare gli esiti incerti delle nostre aspettative. Allora, quella distorsione

nel rapporto tra la previsione degli eventi e l’influenza che essa ha sul loro

verificarsi, può essere riequilibrata proprio dal racconto, che dilata lo

spazio tra le resistenze del presente e l’attesa del futuro, connettendoci di

volta in volta con i ricordi del passato. La nostra capacità di progettare

non deriva solo da cosa sappiamo di noi stessi, delle nostre relazioni, da

cosa conosciamo riguardo ciò che ci accade e ci è accaduto, ma anche dal

                                                                                                               13 Cfr. Batini F., Del Sarto G., Narrazioni di narrazioni, Erickson, Trento 2005. 14 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 31.

Page 21: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  20

modo in cui conosciamo le cose, da come siamo abituati a prevederle,

dalle nostre reazioni di fronte agli eventi inaspettati.

Se da una parte siamo specializzati nell’adattarci all’ordinarietà del

quotidiano, dall’altra siamo altrettanto specializzati a mantenerci vigili di

fronte alle deviazioni dalla routine. Con riferimento alle scoperte

neurofisiologiche di Giuseppe Moruzzi e Horace Winchell Magoun, Bruner

ci ricorda come

“… i messaggi sensoriali inviati alla corteccia cerebrale vengono

trasmessi non solo per i consueti tramiti sensori, ma sono portati

al cervello anche per un’altra via, il sistema reticolare

ascendente, la cui principale funzione è quella di risvegliare la

corteccia, di sgombrarla dal monotono tipo di onde in cui l’Es si

adagia quando siamo confortevolmente annoiati.” 15

A questo proposito azzardo una considerazione riguardo la nostra attuale

capacità di narrare, riferendomi in particolare ai giovani ed alla loro

frequentazione dei videogiochi. Il problema del loro uso continuo non

riguarda tanto il pericolo di confondere il virtuale con il reale, trasferendo

nella realtà la violenza che molti di essi contengono, quanto piuttosto il

rischio di compromettere la funzione narrativa del pensiero. Infatti, nei

videogiochi l’elemento narrativo è rappresentato esclusivamente da una

sorta di ricompensa al giocatore degli sforzi accumulati nelle fasi giocate.

La stessa pratica interattiva non porta ad una più ampia conoscenza del

racconto in cui si sviluppa il gioco, ma solo ad un aumento dell’abilità del

giocatore, che si basa essenzialmente sulla prontezza dei riflessi. Secondo

Miguel Benasayag e Gérard Schmit ciò provoca uno “stato di coscienza

alterato”, che si mantiene grazie al meccanismo del “feed-back”: per non

perdere il filo della partita, l’attenzione viene costantemente sollecitata.

                                                                                                               15 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 35.

Page 22: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  21

“In questo modo i giocatori si abituano ad un livello di tensione

nervosa più elevato del normale. Ciò significa che gli adepti di

questi giochi avranno la tendenza ad annoiarsi di fronte a

qualunque situazione che non esiga una soglia elevata di

attenzione – eccitazione nervosa (il sintomo tipico dello zapping:

è necessario che accada costantemente qualcosa). Diventa

quindi difficile per loro seguire una trama, interessarsi a una

storia se l’attenzione richiesta non raggiunge la soglia di

eccitazione delle sinapsi da cui sono ormai dipendenti.” 16

Si potrebbe, a questo punto, azzardare un confronto tra videogioco e

narrazione, senza per questo demonizzare le nuove tecnologie, il cui

corretto utilizzo in particolare da parte dei cosiddetti “nativi digitali”, apre

ampie e indubbie possibilità di conoscenza e di comunicazione.

Comunque, nonostante le numerose ricerche per sviluppare videogiochi in

cui il giocatore sia messo in grado di influenzarne la trama, le reazioni

cognitive si riducono sempre al puro riflesso. Tale abilità si dimostra

affatto vantaggiosa nel gestire la prevedibilità e governare l’imprevedibilità

degli eventi nelle nostre esistenze. Al contrario, i racconti e la narrativa in

genere continuano a offrire modi assai più indicativi e significativi per

riflettere sulle proprie aspettative e per elaborare le proprie prospettive

personali.

Ci deve far riflettere, per rimanere in ambito educativo, il fatto che, ancor

prima di sviluppare le proprie abilità linguistiche, già da piccoli

comprendiamo e interagiamo con soddisfazione a quei “muti drammi

dell’inaspettato” 17 che gli adulti mettono in scena per noi come nel gioco

del “bubusettete”. Ciò che Bruner considera una precoce sensibilità

narrativa radicata nell’interesse per lo sconvolgimento di attese

consolidate è una predisposizione, che andrebbe tutelata e sviluppata

                                                                                                               16 Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, op. cit., p. 96. 17  Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 36  

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  22

nell’ambito delle relazioni educative dove si genera, divenendo nel tempo

fondamentale per le future interazioni sociali.

Altro aspetto fondamentale della narrazione e della narrativa in genere è

quella che Bruner chiama “la ‘spinta metaforica’ delle storie”. 18 Se la

cosiddetta “grammatica dei casi”, tipica delle lingue naturali, offre uno

strumento privilegiato quando rappresentiamo le cose in forma di

racconto, la sua conoscenza non giustifica da sola la capacità di narrare.

“Chi ha fatto che cosa a chi, a che scopo, con quale risultato, dove,

quando e con che mezzi” è un dispositivo essenziale, ma occorre un altro

livello di “grammatica” per spiegare la raccontabilità delle storie. Ci viene

in aiuto, secondo Bruner, la “pentade scenica” di Kenneth Burke.19 Per lo

studioso, una storia reale o fantastica richiede un attore, un’azione, un

fine, dei mezzi e un contesto riconoscibile. A motivare una storia è una

qualche discordanza tra gli elementi fondamentali della pentade. Si tratta

sempre di situazioni particolari, che a causa della loro emblematicità,

finiscono per assumere la funzione di cliché narrativi per l’esperienza

umana. È il caso, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, del

“Bildungroman”: i romanzi appartenenti a questo genere sono un

paradigma fondamentale dell’attività dell’individuo nel suo processo

formativo. Le vicende dei giovani protagonisti, che attraverso una serie di

prove, sofferenze e interrogativi, subiscono un processo di maturazione

interiore alla scoperta della loro vocazione e della loro collocazione in

rapporto con la società, sono uniche e particolari ma, al tempo stesso,

metafore potenti della formazione e costruzione del sé. Costruzione del sé,

che Bruner indica, quindi, come una vera e propria arte narrativa.

1.3 La costruzione narrativa del sé

Per l’autore non conosciamo intuitivamente un sé, piuttosto lo costruiamo

e ricostruiamo continuamente in base alle esigenze delle situazioni che

incontriamo, orientati sia dai nostri ricordi, sia dalle nostre paure e

                                                                                                               18 Ivi, p. 38 19 Cfr. Burke K., Grammar of motives, University of California press, 1969.

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  23

speranze. Memoria, sentimenti, idee e credenze costituirebbero il suo lato

interiore, parte del quale innato (il nostro senso di continuità nel tempo e

nello spazio, il sentimento posturale di noi stessi…); le fonti esterne

deriverebbero dall’apparente stima degli altri e dalle innumerevoli attese,

anche inconsapevoli, provenienti dalla cultura in cui siamo immersi. Il dato

più significativo della tesi dell’autore sta nell’aspetto relazionale della

creazione del sé, veicolato proprio dalla narrazione e dalla cultura in

genere, dai modelli che fornisce, quali presupposti e prospettive

sull’identità, che ci permettono di parlare di noi a noi stessi e agli altri.

Dall’ampia documentazione del capitolo dedicato specificatamente al

tema, val la pena di riportare il brillante confronto di Bruner, che fa

corrispondere una serie di “definizioni – lampo” psicologiche dell’identità

del Sé con altrettante regole utili per la narrazione di un buon racconto

(vedi lo schema della pagina seguente).20

                                                                                                               20 Liberamente tratto da Bruner J. S., La Fabbrica delle storie, op. cit., pp. 80 – 81.

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  24

1. Il Sé è teleologico, pieno di desideri, intenzioni, aspirazioni, sempre intento a perseguire degli scopi.

1. Un racconto vuole una trama.

2. Di conseguenza, è sensibile agli ostacoli: risponde al successo o al fallimento, è vacillante nell'affrontare esiti incerti.

2. Alle trame servono ostacoli al conseguimento di un fine.

3. Risponde a quelli che sono giudicati i suoi successi o fallimenti modificando le sue aspirazioni e ambizioni e cambiando i suoi gruppi di riferimento.

3. Gli ostacoli fanno riflettere le persone.

4. Ricorre alla memoria selettiva per adattare il passato alle esigenze del presente e alle attese future.

4. Esponi soltanto il passato che ha rilevanza per il racconto.

5. È orientato su ‘gruppi di riferimento’ e su ‘altre persone importanti’ che forniscono i criteri culturali mediante i quali giudica se stesso.

5. Fornisci i tuoi personaggi di alleati e relazioni.

6. È possessivo ed estensibile, in quanto adotta credenze, valori, devozioni, perfino oggetti come aspetti della propria identità.

6. Fa' sviluppare i tuoi personaggi.

7. Tuttavia, sembra capace di spogliarsi di questi valori e acquisizioni a seconda delle circostanze, senza perdere la propria continuità.

7. Ma lascia intatta la loro identità.

8. È continuo nelle sue esperienze al di là del tempo e delle circostanze, malgrado sorprendenti trasformazioni dei suoi contenuti e delle sue attività.

8. E mantieni anche evidente la loro continuità.

9. È sensibile a dove e con chi si trova a essere nel mondo.

9. Colloca i tuoi personaggi nel mondo della gente.

Può rendere ragione e assumersi la responsabilità delle parole con cui formula se stesso e prova fastidio se non trova le parole.

Fa' che i tuoi personaggi si spieghino per quanto necessario.

È capriccioso, emotivo, labile e sensibile alle situazioni.

Fa' che i tuoi personaggi abbiano cambiamenti di umore.

Ricerca e difende la coerenza, evitando la dissonanza e la contraddizione mediante procedure psichiche altamente evolute.

I personaggi debbono preoccuparsi quando appaiono assurdi.

Page 26: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  25

Da questo confronto si potrebbe supporre che il nostro senso d’identità sia

all’origine della narrativa, come anche l’inverso, e cioè, che sia la nostra

capacità di narrare a conferire all’identità la sua forma. In realtà, non è

possibile verbalizzare l’esperienza senza assumere una prospettiva

attraverso l’impiego del linguaggio, né tutto il nostro pensiero è formato al

fine esclusivo della parola. In questo senso, nessuna autobiografia può

dirsi completa, ma è solo una versione, un modo di dare un senso

coerente alla propria esistenza. Possiamo affermare, in termini

psicanalitici, che sulla scena della nostra identità recita un “cast di

personaggi”, ai quali ogni costruzione narrativa del Sé tenta di dar voce,

ma nessun racconto riuscirà mai a parlare a nome di tutti, né a tener

conto della complessità delle nostre relazioni.

Secondo Bruner, una narrazione creatrice del Sé è una specie di atto di

bilanciamento tra istanze di autonomia e impegno verso gli altri. Il

carattere profondamente relazionale dell’identità è indissolubilmente

legato alla capacità di narrare. Infatti, quando tale capacità viene meno,

come in quelle patologie neurologiche, citate dall’autore, che prendono il

nome di “dysnarrativie”, le persone che ne sono affette sembrano aver

perduto il senso del sé, ma anche il senso dell’altro.21 La narrazione

connette la nostra singolarità alla molteplicità che ci abita e ci spinge a

creare legami con la molteplicità delle nostre relazioni: così si produce la

nostra identità, sullo sfondo di un rapporto dialettico più ampio con la

cultura di cui siamo espressione, che si riflette nelle nostre storie. Il rischio

della nostra epoca delle “passioni tristi”, 22 segnata dall’incertezza del

presente, da un passato, le cui promesse appaiono irrimediabilmente

smentite e da un futuro percepito come una minaccia, è quello di smarrire

il senso di questo processo in una crisi che ci sprofonda sempre più nella

nostra fragilità. Dovremmo, altresì, accettare tale condizione come

connaturata all’esperienza umana, leggerla come apertura al mondo e ai

suoi possibili cambiamenti. Sono i nostri vissuti a rivelarci che non siamo

                                                                                                               21 Cfr. Bruner J. S., La Fabbrica delle storie, op. cit., pp. 98 – 99. 22 Cfr. Benasayag M., Schmit G., op. cit.  

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  26

individui isolati, separati gli uni dagli altri, ma “persone”, 23 la cui

molteplicità non ci permette di conoscere i propri limiti; la nostra etica

consiste nell’accettare tale incompletezza come una certa forma di

“neotenia”,24 così da favorire il processo formativo della costruzione di sé.

È in questa ricerca di prospettive e di metodo che la narrazione può

aiutarci a ricostruire, perfino a reinventare il nostro passato per meglio

coltivare attese e progetti futuri.

                                                                                                               23 Mi riferisco alla distinzione tra individuo e persona formulata da Benasayag M. e Schmit G.. “L’individuo […] è il prodotto di quell’ordine sociale che pensa che l’umanità sia composta da una serie di esseri separati gli uni dagli altri, che stabiliscono contratti con il loro ambiente e con gli altri. […] La persona è l’alternativa all’individuo. Etimologicamente, ‘persona’ viene dal latino persona, che significa maschera. Una maschera che non nasconde un vero volto, ma una molteplicità di volti. […] Le persone, al contrario degli individui-contratti, hanno un rapporto di apertura con il mondo.” Da Benasayag M., Schmit G., op. cit., p. 107. 24 “Viene definito neotenia il fenomeno evolutivo per cui negli individui adulti di una specie permangono le caratteristiche morfologiche e fisiologiche tipiche delle forme giovanili. Essa può essere importante per fornire un più ampio spettro di adattabilità ambientale rispetto alla specie ancestrale più specializzata.” La definizione è tratta da Wikipedia, <http://it.wikipedia.org/wiki/Neotenia>, 2013, p. 1.  

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  27

2 La creazione del sé nel romanzo di formazione

L’altro motivo per studiare la narrativa consiste nel

comprenderla per meglio coltivare le sue illusioni di

realtà, nel ‘congiuntivizzare’ gli ovvi indicativi della

vita di tutti i giorni.

(Bruner J., La fabbrica delle storie)

2.1 La metafora formativa del Bildungroman

Per comprendere il rapporto dialettico che esiste tra la creazione del sé e

la cultura di cui siamo espressione, ci affidiamo all’analisi di quel genere

letterario che va sotto il nome di “romanzo di formazione”, a partire dal

cosiddetto “Bildungroman”.

Il termine stesso che caratterizza questo genere di romanzo, vale a dire la

“Bildung”, indica tanto il processo di formazione che il suo risultato, la

forma e la cultura, le conoscenze e i modi in cui sono acquisite. È sul finire

del ‘700 che il termine acquista il suo attuale significato sullo sfondo di un

rinnovato umanesimo, che promuove il progetto di una formazione

armonica di tutte le forze fisiche e spirituali dell’uomo.25

Nell’ambito di questa tesi assume particolare interesse l’esame di tale

forma di romanzo, che ha come capostipite il Wilhelm Meister di Goethe,26

sia perché istituisce un nuovo paradigma nella concezione della

formazione dell’individuo fin allora prevalente nella cultura occidentale, sia

perché seleziona e sviluppa una serie di temi narrativi, la cui influenza si

estende ben al di là della letteratura in genere, giungendo fino ai giorni

nostri. Franco Moretti li ha descritti e ben argomentati in un saggio, che

                                                                                                               25 Nel 1820 il critico tedesco Karl von Morgenstern in una sua opera, Über das Wesendes Bildungsromans, introduce per la prima volta la definizione di Bildungsroman con riferimento al Wilhelm Meister di Goethe. È interessante come lo studioso non si limiti a definire il genere letterario in base al contenuto, che deve rappresentare un processo di formazione del protagonista, ma vede rappresentata in questo tipo di romanzo anche un’evoluzione interiore dell’autore, che promuove attraverso la sua opera una Bildung del lettore. Cfr. http://www.cinziatani.it/2011/01/10/romanzo-di-formazione>, 2013, p. 1. 26 Cfr. Goethe J. W., Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Adelphi, Milano 2006.

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  28

ripercorre la parabola del romanzo di formazione, letto come “forma

simbolica della modernità”.27

Innanzitutto, la nascita del Bildungroman segna uno spostamento

simbolico nella gerarchia dei valori generazionali, rappresentando la

“gioventù” come la fase più significativa dell’esistenza. È il riflesso del

crollo della società di stato, con l’esodo dalle campagne e la crescita delle

città, la rapida trasformazione del mondo del lavoro, il formarsi di nuove

classi sociali, tutti fattori che comportano un crescente spaesamento degli

individui di fronte ad una realtà in continuo movimento.

Se nelle società tradizionali l’essere giovane si realizzava solo nella

differenziazione biologica e nell’introduzione a ruoli preesistenti, con

l’avvento della rivoluzione industriale l’apprendistato non comporta più un

lento e prevedibile cammino verso il lavoro del padre, ma spinge verso

un’incerta quanto necessaria esplorazione del nuovo spazio sociale. Ciò

avviene in uno sfondo d’inquietudine, ansia e incertezza generando, al

tempo stesso, desideri, aspettative e nuove speranze.

Di sicuro, come indica Moretti, la gioventù che sale alla ribalta della nuova

scena sociale non si esaurisce in questo quadro, ma la finzione letteraria

nel fornire un senso alla realtà, la connota privilegiando alcuni aspetti a

scapito di altri, ispirando particolari referenze alla vita reale.28

Due sono i motivi privilegiati del romanzo di formazione: “mobilità” e

“interiorità”. Tali motivi, visti come attributi giovanili caratterizzanti le

nuove generazioni nell’epoca della rivoluzione industriale, in una visione

più ampia dei processi sociali, finirono per racchiudere il senso della

“modernità”. Potremmo dire, senza timore di essere smentiti, che questi

due temi si sono fissati nell’immaginario collettivo e hanno continuato a

influenzare le idee sull’identità e la costruzione del sé, assumendo

contenuti via via differenti secondo i diversi periodi e vicende storiche, fino

ai giorni nostri.                                                                                                                27 Cfr. Moretti F., Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1999. 28 L’autore indica tra gli altri “la crescente influenza della scuola, il rinsaldarsi dei legami interni di generazione, un rapporto interamente nuovo con la natura, la ‘spiritualizzazione’ della gioventù: ecco alcune caratteristiche altrettanto salienti della sua storia ‘reale’”. Moretti F., op. cit., p. 5.

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  29

Abbiamo visto nel capitolo precedente come il tema dell’interiorità si

declini nell’incertezza dell’attuale crisi sociale, nella mancanza di

prospettive di un futuro vissuto come minaccia; in un rapporto più diretto

e complesso rispetto al passato, lo stesso tema si coniuga oggi con quello

della mobilità. Secondo il sociologo Appadurai,29 la convergenza di mobilità

fisiche, relazioni interpersonali mediate e comunicazione di massa

esercitano un effetto combinato sull’immaginazione, che diventa un fatto

sociale, fino al punto di determinare la realtà attraverso la nostra capacità

di immaginarla.

Con lo scopo di rappresentare, di dare una forma alla natura sconfinata e

inarrestabile della modernità, nel romanzo di formazione emerge un'altra

caratteristica della gioventù: il fatto che “non dura in eterno”. Questo

tentativo di esorcizzare la modernità, trova espressione sul piano tematico

nel cammino verso la socializzazione dell’eroe – protagonista.

È un processo dialettico di socializzazione nel quale il giovane

protagonista, partito da un’iniziale opposizione alle norme del vivere

associati, in particolare dell’etica borghese, passando attraverso alterne

vicende, finisce o per sposare tali norme (spesso è proprio un matrimonio

a rappresentare l’avvenuta integrazione), oppure per rifiutarle

definitivamente. Così il giovane si forma attraverso le sue esperienze e

acquista la propria maturità o, quantomeno, scopre il senso del suo essere

al mondo. Lo script narrativo del Bildungsroman racchiude così la storia

della formazione di un uomo, incarnandosi nello sviluppo naturale del

romanzo stesso, come fosse una sua espressione quasi fisiologica. Viene

spontaneo affermare che la vita di ogni uomo è, in un certo senso, un

romanzo, con un protagonista che deve affrontare delle prove, subendo

talvolta lo smacco di qualche sconfitta ed è spesso chiamato a scendere a

compromessi con la realtà circostante. Tale visione, tuttavia, non

esaurisce né la complessità del processo di costruzione dell’identità, né

tantomeno la rappresentazione che ne offre il romanzo di formazione, le

                                                                                                               29 Cfr. Appadurai A., Modernità in polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.

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  30

cui caratteristiche vanno ben al di là di una prospettiva che si affidi

esclusivamente al buon senso.

2.2 Principio di classificazione e principio di trasformazione

Lo studio di Moretti si basa sulle “differenze di intreccio”, e più

esattamente sul modo in cui l’intreccio perviene all’istituzione del senso nei

diversi tipi di romanzo di formazione. Seguendo la distinzione classica di

Lotman tra “principio di classificazione” e “principio di trasformazione”,30 lo

studioso rivela come, pur essendo entrambi presenti nelle opere del

genere, il prevalere dell’uno o dell’altro comporta opzioni di valore molto

diverse, che si traducono in differenti strategie narrative e indicano

atteggiamenti opposti nei confronti della modernità.

Quando prevale il principio di classificazione l’intreccio narrativo si risolve

in un finale particolarmente marcato, in cui il significato degli eventi, come

nel pensiero hegeliano, conduce ad un unico scopo; la storia acquista

senso quanto più riesce a sopprimersi come racconto. Esempi di questo

tipo sono il classico Wilhelm Meister di Goethe, e il “romanzo familiare”

della tradizione inglese, come Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen.31

Quando, invece, a predominare è il principio di trasformazione, a conferire

senso al racconto è la sua “narratività”, che si declina in un processo

aperto, instabile e mai definitivo; come nel pensiero di Darwin, prevale

una logica narrativa, secondo la quale il senso della storia consiste proprio

nell’impossibilità di poterlo fissare. Romanzi di questo tipo sono il Rosso e

Nero di Stendhal e l’Onegin di Puškin.32

I due modelli del romanzo di formazione rappresentano visioni opposte

della gioventù e di conseguenza, identificando quest’ultima con l’avvento

della nuova epoca, incarnano idee contrapposte nei confronti della

modernità.

                                                                                                               30 Cfr. Lotman J., La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1990. 31 Cfr. Austen J., Orgoglio e pregiudizio, Einaudi, Torino 2010. 32 Cfr. Stendhal, Il Rosso e il Nero, Einaudi, Torino 2005 e Puškin A. S., Eugenio Onegin, Rizzoli, Milano 1985.

Page 32: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  31

Il contrasto rivela un vero e proprio sdoppiamento dell’immagine della

gioventù. Sotto il segno del principio di classificazione la gioventù, vista

come fase della vita che deve inevitabilmente finire, è subordinata all’idea

di “maturità”. Come il racconto ha un senso perché si conclude con un

finale determinato, così la gioventù acquista il suo significato come

tirocinio verso la vita adulta, verso un’identità stabile ed integrata.

Al contrario, all’insegna del principio di trasformazione la gioventù appare

in tutta la sua irrequietezza e inquietudine; è una gioventù incapace di

tradursi in maturità, perché vede tale conclusione come un tradimento,

che la priverebbe di senso.

Proseguendo nell’analisi, c’è da rilevare come fu proprio il carattere

contraddittorio del romanzo di formazione a decretarne il successo e,

potremmo dire, ad affermare la sua influenza sull’idea di creazione del sé.

“Giacché la contraddizione tra opposte valutazioni della

modernità e della gioventù, o tra opposti valori e rapporti

simbolici, non è un difetto – o magari è anche un difetto – ma è

soprattutto il paradossale principio di funzionamento di larga

parte della cultura moderna.” 33

In questo genere di narrativa i contrasti tra libertà e felicità, tra identità e

cambiamento, tra sicurezza e metamorfosi, tipici della mentalità

occidentale moderna, pur sviluppandosi in una dialettica conflittuale nella

relazione con se stessi e con l’altro, tendono a risolversi in una logica di

“compromesso”. Da questo punto di vista, il romanzo di formazione non

produce alcuna formalizzazione concettuale, come nel caso del Faust

goethiano, il cui ideale di sintesi si riflette nella filosofia di Hegel.34 È più

affine, invece, alla sfera del quotidiano, agli eventi ordinari della nostra                                                                                                                33 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit. p. 10 34 Attraverso la figura simbolo del Faust goethiano, Hegel afferma che l’unione con l’universale è l’aspirazione massima della coscienza. Tale unione è possibile se e quando l’individuo scopre che la sua felicità è concepibile unicamente nella vita Etica, all’interno di un tessuto sociale, dove poter realizzare la propria essenza e le proprie autentiche finalità. Non è possibile quindi rimanere allo stato di pura individualità perché lo Spirito è universalità concreta.

Page 33: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  32

esistenza, nella quale, attraverso diverse forme di compromesso,

proviamo a convivere con le contraddizioni che ci abitano.

Non solo la filosofia, ma nemmeno la psicanalisi, al contrario delle

interpretazioni in cui s’è spinta nei confronti del mito, della tragedia, della

fiaba e della commedia, ha tentato simili analisi riguardo al romanzo di

formazione. Il motivo di questa mancata riflessione è da individuare,

secondo Moretti, nel diverso approccio di psicanalisi e romanzo nei

confronti dell’individuo. La prima tende a scomporre la psiche tra le sue

opposte forze, guardando sempre e dovunque oltre l’Io; il romanzo si

pone invece il compito di amalgamare e far coesistere gli aspetti

contraddittori della personalità, per costruire l’Io, ponendolo al centro della

propria struttura. Abbiamo visto come il “plot narrativo” del romanzo di

formazione sviluppi sempre, attraverso la molteplicità degli intrecci e delle

trame, il tema della socializzazione

“… che consiste, in larga misura, nel ‘buon funzionamento’ dell’Io

grazie a quel compromesso particolarmente ben riuscito che è

per Freud il ‘principio di realtà’”.35

Questa continua tensione verso l’integrazione sociale del protagonista, sia

nelle circostanze in cui si realizza, sia nei casi di rifiuto o di impossibilità ad

attuarla, ci porta a interrogarci su un’idea terribilmente imbarazzante per

la nostra cultura, come quella di “normalità”. È una normalità letta

dall’interno, anti – eroica e prosaica, che rende i personaggi più unici che

tipici, e al tempo stesso familiari al nostro senso della vita, alle narrazioni

che accompagnano la costruzione del sé nell’esperienza quotidiana.

Proprio l’affinità delle caratteristiche dei romanzi di formazione con quelle

intrinseche ai modi delle nostre esistenze quotidiane, ci invita a indagare

nei primi quei fattori utili per comprendere ed elaborare i secondi. Non si

tratta di ricercare modelli, ai quali ispirare le proprie vite, ma di analizzare

quegli elementi narrativi “sporgenti”, la cui scelta da parte degli scrittori

                                                                                                               35  Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 12 - 13.  

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  33

del genere ha contribuito a rendere esemplari le loro storie. Tale analisi ci

aiuta a riflettere sulle strategie che mettiamo in atto nella costruzione

delle nostre identità, e può contribuire a un’elaborazione più consapevole

di quei dispositivi narrativi che applichiamo in modo spesso irriflesso e

inconscio quando ci affidiamo alle esperienze passate per affrontare

situazioni nuove: previste e impreviste, prevedibili e imprevedibili.

L’opera di Franco Moretti si rivela una preziosa “banca dati”, da cui

ricavare quella tipologia di elementi sopra indicati. La sua indagine del

romanzo di formazione, che spazia dalla letteratura alla filosofia, dalla

psicanalisi alla sociologia, dall’antropologia alla storia, offre anche utili

indicatori di metodo per l’analisi di altre opere del genere.

Per Moretti, il Bildungroman, nella sua originaria e originale composizione

presenta la più equilibrata soluzione a uno dei dilemmi della nascente

civiltà borghese moderna: il conflitto tra l’ideale dell’”autodeterminazione”

dell’individuo e le esigenze, altrettanto imperiose, della sua

“socializzazione”. La tensione verso l’”individualità” e il desiderio di

“normalità” si presentano nelle diverse opere non come coestensive e

isomorfe ma complementari e governate da meccanismi narrativi diversi. I

valori e le esperienze che soddisfano il senso dell’individualità, ostentati e

continuamente in primo piano, formano l’”intreccio”, l’aspetto più

affascinante e prevalente delle opere; sullo sfondo, l’anelito

all’integrazione, l’accettazione o il rifiuto delle convenzioni sociali,

rappresenta la “fabula”, come ristretta logica compiuta in se stessa degli

eventi narrati. Si afferma così la visione dominante del pensiero borghese,

quella dello “scambio”: la realizzazione dei propri valori passa

inevitabilmente per l’accettazione di quelli sociali.

2.3 La Bildung goethiana

Goethe per primo affronterà la questione, adottando per il suo secondo

romanzo una trama “ad anello”. Mentre nella “Missione teatrale”, la trama

si svolgeva con un andamento più drammatico e sorprendente, negli “Anni

di apprendistato” autosviluppo e integrazione assumono la forma di

Page 35: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  34

percorsi complementari, che convergono verso un punto di equilibrio in cui

si colloca il raggiungimento della piena maturità del protagonista. È

interessante notare come tale conquista non avviene per Wilhelm

attraverso rinunce o sacrifici della propria individualità, e solo

all’apparenza attraverso l’assunzione di un lavoro e la creazione di una

famiglia. La maturità si realizza attraverso una continua costruzione di

senso, apprendendo di volta in volta a costruire “legami” tra sé e gli

eventi vissuti,

“… a indirizzare la trama della propria vita in modo che ogni

momento rinsaldi il proprio senso di appartenenza ad una più

vasta comunità”.36

Nel chiarire tale costruzione, Moretti fa riferimento al termine

“Zusammenhang”, indicato da Dilthey, secondo il quale, l’opera poetica,

evidenziando la concatenazione interna delle vicende narrate mette in luce

i valori di un avvenimento connettendoli alla trama di tutta la vita;

l’avvenimento, sollevato così al suo significato, rivela e illumina il rapporto

tra la vita e il suo senso.37

Ciò traduce bene l’ideale di Goethe, secondo il quale, come sostiene

Cambi:

”l’uomo è quello che si viene formando e vale in quanto si

forma, e la formazione […] è un bagno nel pluralismo

dell’esperienza, nella sua varietà e contraddittorietà, per

distillarvi una sintesi vissuta, originale, etica e estetica insieme,

ma guidata dalla luce della razionalità (= universalità e

necessità)”.38

                                                                                                               36 Ivi, p. 21. 37 Cfr. Wilhelm Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947. 38 Cambi F., I Grandi modelli della formazione, in Cambi F. e Orefice P. (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo, Liguori, Napoli 1996, p. 64.

Page 36: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  35

La trama del romanzo ci rivela come Wilhelm realizza la propria

personalità accettando la tutela della Società della Torre, la cui istituzione

si giustifica, d’altra parte, unicamente per permettere la sua felicità.

L’ineluttabilità di tale destino è confermata, nel finale, dalla scoperta del

protagonista nella Sala del Passato, il luogo più segreto della Torre, di una

pergamena che racconta, appunto, “Gli anni di apprendistato di Wilhelm

Meister”. Così, l’intreccio confuso degli eventi si risolve nella logica di una

fabula da cui traspare il senso del tutto. La Società della Torre plasma

Wilhelm, che d’altra parte si mostra desideroso di fare ciò che comunque

avrebbe dovuto fare. Questo ideale di “Bildung”, che prevede il definitivo

assestamento dell’individuo e del suo rapporto con la società, sarebbe

possibile solo all’interno di un mondo pre – capitalistico, una visione che

Goethe aspira ancora a salvaguardare.39 La società dinamica moderna,

come anche quella contemporanea, rendendo sempre più casuali,

mutevoli e mobili i rapporti dell’individuo col suo ambiente, lo costringe a

mettere alla prova le sue capacità per tutta la vita. Come afferma Agnes

Heller, l’appropriazione del mondo, dei suoi sistemi ed istituzioni, non può

dirsi conclusa col raggiungimento di un’ipotetica maturità.40 Affronteremo

in seguito questo tema in rapporto all’attuale “società formativa”.

È importante sottolineare come la trama ad “anello” influenza tutt’ora la

visione della costruzione del sé. Pensare alla gioventù come fase

transitoria della vita, in vista del raggiungimento di una maturità finale,

rappresenta ancora un modello narrativo capace di condizionare

l’immagine della propria esistenza quotidiana, così come l’idea di una

reciprocità, in base alla quale la società plasma l’individuo, che a sua volta

si adatta ad essa allo scopo di conseguire la sua socializzazione.

Ritengo utile soffermarmi su entrambe le questioni, anche alla luce di una

lettura più consapevole e di un’analisi più approfondita del romanzo di

                                                                                                               39 Sarà l’autore stesso, appena dieci anni dopo, con “Le affinità elettive” e ancor più col “Faust” a confutare l’idea che la maturità possa definitivamente essere raggiunta e concludersi in una duratura felicità per l’uomo moderno. 40 Cfr. Heller A., Sociologia della vita quotidiana, Editori Riuniti, Roma, 1975.

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  36

Goethe.41 Se è vero, come afferma Heller, che più una società è sviluppata

e complessa, meno può dirsi conclusa per l’adulto la sua formazione, il

raggiungimento di diversi livelli di “integrazione sociale” 42 sono conquiste

che ci accompagnano durante tutto il corso dell’esistenza. Proprio la

funzione narrativa del nostro pensiero ci permette, a fronte di esperienze

particolarmente significative, di tenere il filo del processo che si dipana

davanti a noi, delineando l’”intreccio” delle rappresentazioni dei propri

vissuti in una “fabula” rinnovata. In tal modo, costruiamo nuove

prospettive di senso che modificano la propria identità in rapporto col

mondo. Per rimanere nella metafora, potremmo dire che la trama

narrativa attraverso la quale costruiamo le nostre identità si compone di

diversi anelli, che formano una spirale. Una spirale aperta, che evolve e si

rinnova in un processo, nel corso del quale il “pensiero sull’esperienza”

provoca il “cambiamento”. Se l’agire è pratica, il poter pensare a ciò che si

è fatto diventa esperienza. Il fare esperienza del mondo significa

rielaborare soggettivamente gli eventi esterni, ricercando i “nessi” col

proprio mondo interno. La narrazione permette agli avvenimenti di

dialogare con i vissuti, le emozioni e i sentimenti che ci abitano.

“All’inizio come alla fine del romanzo, il problema di Wilhelm è

sempre lo stesso: non riesce a costruire un ‘nesso’, a dare alla

sua vita la forma di un ‘anello’, e saldarlo. E se ciò non avviene,

                                                                                                               41 Il saggio di Moretti F., come già affermato in precedenza, propone un’analisi molto complessa e variegata del Bildungroman, offre molteplici spunti di riflessione e si presta a diverse interpretazioni, al di là di una visione stereotipata del genere letterario. 42 Utilizzerò, quando necessario, il termine “integrazione sociale” che amplia e ingloba quello di “socializzazione”, anche se spesso i due termini sono utilizzati come sinonimi. Per integrazione “s’intende il processo attraverso il quale un sistema acquista e conserva un'unità strutturale e funzionale, pur mantenendo la differenziazione degli elementi. L'integrazione è anche il prodotto di tale processo, in termini di mantenimento dell'equilibrio interno del sistema, della cooperazione sociale, del coordinamento tra i ruoli e le istituzioni”. La socializzazione è, altresì, “quel processo sociale di trasmissione e di interiorizzazione delle informazioni sulla realtà e sull'immaginario sociale (l'insieme di valori, ruoli, norme, aspettative e credenze) attraverso pratiche e istituzioni dell'organismo sociale”. Entrambe le definizioni sono tratte dal Glossario di Tesionline, <http://sociologia.tesionline.it/sociologia/glossario>, 2013, p. 4907, 3385.  

Page 38: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  37

la sua esistenza rischia di restare incompiuta – anzi, peggio:

insensata”.43

Tale condizione è comune anche a noi; per questo, probabilmente, risulta

facile identificarci nel protagonista del romanzo, anche se ci separano più

di due secoli e le problematiche del nostro vivere sociale sono alquanto

mutate. In un mondo che ci pone di fronte ad un sapere mai definitivo,

siamo sempre attraversati dal dubbio, ma, come per Wilhelm, ci sostiene

la nostra capacità d’interrogarsi. È quest’atteggiamento mentale che ci

permette di attivare un pensiero vivo, vitale, trasformativo e non

cumulativo; un pensiero che rifugge da astrazioni e valutazioni, capace di

generare pensieri nuovi. Proiettare i nostri timori e le nostre inquietudini

sul protagonista del romanzo44 aiuta ad accettare e tollerare un certo

livello d’ansia, che comporta la perdita degli stereotipi, ossia dei punti di

riferimento sicuri e fissi. Solo così saremo capaci di cogliere sia gli indizi,

sia le tracce più labili che gli eventi lasciano sul cammino della nostra vita.

Il pensiero narrativo che sostiene il processo si evolve e sviluppa nella

continuità. Si fa progetto, giacché connette quello che è avvenuto con ciò

che ci si propone di raggiungere. La maturità può essere allora

interpretata come una crescita nel “cambiamento” che consolida, di volta

in volta, il sentimento di sé in rapporto al mondo.

Riguardo alla formazione di Wilhelm, sappiamo che si compie perché gli è

stato concesso di accedere alla trama che la Società della Torre aveva

intessuto per lui, che accetta, così, di essere determinato dall’esterno; ma

si può anche affermare che, reciprocamente, La Torre esiste solo in

funzione di Wilhelm. È un’istituzione, la cui legittimità si giustifica nel porsi

come mediazione tra l’allievo e il suo apprendimento. Le trame che la

Società della Torre imbastisce orientano le scelte di Wilhelm, le cui azioni,

a loro volta, modificano l’intreccio della storia. Il ritrovamento del

manoscritto, che egli scopre essere il romanzo stesso, più che rivelare la

                                                                                                               43 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 20 44 Da leggersi come un invito o una proposta di metodo valida anche per molti altri romanzi di formazione, che rappresentano “metafore potenti” della costruzione del sé.

Page 39: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  38

predeterminazione del suo destino, può essere letto come un elegante

espediente narrativo, col quale l’autore esalta l’armonia di un’ideale

Bildung, sciogliendo ogni equivoco e restituendo, così, al lettore il senso

del caotico succedersi degli eventi.45

Ciò che traspare nella complessa trama del romanzo, va ben al di là di un

lineare e univoco processo di influenzamento di Wilhelm da parte della

Società della Torre. Riprendendo la lezione di Bateson, 46 sarebbe più

valido affermare che l’individuo (nel nostro caso il protagonista del

romanzo) non è separato dal contesto (rappresentato dalla Società della

Torre), ma forma con esso una totalità ecosistemica, una coevoluzione di

elementi in iterazione. Sarebbe unilaterale considerare la socializzazione di

Wilhelm come il risultato del cambiamento del contesto (scoperta della

Società della Torre). Piuttosto, la Società della Torre può essere intesa

come la risposta evolutiva del contesto al mutato atteggiamento di

Wilhelm.

Ciò che qui interessa rilevare è che l’identità personale è una

“coevoluzione” di elementi diversi, la costruzione di una “trama”

complessa, che possiamo comprendere affinando le nostre capacità

narrative e riflessive.

Per tornare alla storia, il matrimonio finale di Wilhelm sugella e, in qualche

modo, stabilizza questo patto tra individuo e mondo. Natalie, infatti, per

via dei suoi legami con la Torre, è la degna rappresentante del sistema

sociale che il Bildungroman intende rappresentare. Un sistema in cui il

contrasto tra nobili e borghesi si risolve nell’aspirazione comune a un agire

sociale in cui regni una sostanziale concordia. Come la “felicità” non va

ricercata a prezzo di guerre e rivoluzioni (che proprio in quegli anni

imperversavano in Europa), così la “famiglia” non rappresenta per Goethe

un rifugio dalla violenza del mondo (come lo sarà nei romanzi del secolo                                                                                                                45 La grandezza di Goethe sta proprio nel suo giocare con le forme narrative per dare agli eventi quel significato che altrimenti sfuggirebbe in una mera riproduzione della realtà dei fatti. La sua modellizzazione analogica del mondo offre una riproduzione del reale che risulta tale non per fedeltà riproduttiva superficiale, per mimesi o rispecchiamento, ma per una affinità di struttura parziale tanto significativa da toccare l'essenza della realtà da riprodurre. 46 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1980.

Page 40: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  39

successivo), ma un luogo d’elezione sociale dal quale diffondere verso il

mondo esterno armonia e serenità.

2.4 Bildungroman e identità professionale

Da questa prospettiva, l’idea di famiglia acquista specifiche connotazioni

sociali, come accade anche per l’idea di lavoro. Pur essendo l’attività

economica collocata ostentatamente al di fuori del processo di formazione

e di socializzazione, ciò non significa che i personaggi del Meister siano

degli oziosi. Come ci fa notare Moretti, l’elogio del commercio pronunciato

da Werner, l’alter ego di Wilhelm, più che celebrare i meriti economici del

“mercato”, ne afferma la funzione di connettere in una trama di senso le

più disparate attività umane, rendendo visibili i rapporti sociali e indicando

all’individuo quale posizione occuparvi.

Per la sua dinamicità, per l’inquietudine connessa allo sforzo continuo di

accumulare ricchezze, per la costante conflittualità dovuta alla concorrenza

cui è soggetto, il viaggio del mercante non potrà, comunque, mai

concludersi in un luogo ideale come la tenuta della Torre, dove tutto è

benessere, trasparenza e finitezza. A un’idea di lavoro finalizzato

all’”avere”, se ne contrappone ed esalta un’altra finalizzata all’”essere”. Al

lavoro che produce merci, oggetti che acquistano valore solo nello

scambio, che li allontana dal loro produttore, si oppone un lavoro - più

simile all’arte che all’attività economica - capace di realizzare “cose

armoniose”:

“oggetti che ‘tornino’ a chi li ha creati permettendogli di

riappropriarsi interamente della propria attività”.47

Il lavoro del Meister non aderisce a una logica propriamente economica,

ma acquista una forte impronta pedagogica, e in alcuni casi addirittura

terapeutica: riesce, infatti, almeno provvisoriamente, a sanare la follia

dell’Arpista. L’aspetto soggettivo, associato al sentimento di sé,

                                                                                                               47 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 32

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  40

all’inventiva personale, all’opportunità che offre di coltivare le proprie

facoltà intellettuali, prevale sull’aspetto oggettivo, strumentale e, in

quanto tale, alienante del lavoro. In questo senso, il Bildungroman

esplicita in forma narrativa la concezione estetica schilleriana.

Per Schiller,48 l’uomo moderno ha acquisito progressi enormi nel campo

del sapere e dell’intelletto, ma questo suo incessante maturare e crescere

intellettualmente, l’ha allontanato da un rapporto armonico con la natura e

con il tutto, caratteristico dell’uomo greco. Mentre questi ha ricevuto la

sua forma dalla natura, “che tutto unifica”, l’uomo moderno l’ha ricevuta

dall’intelletto “che tutto distingue”. L’unilateralità nell’esercizio delle facoltà

umane si rivela vantaggiosa per la specie, ma crea alienazione

nell’individuo. La maggiore specializzazione da una parte, il “meccanismo

più complesso degli stati”, dall’altra, ha quindi compromesso l’intima

armonia dell’anima umana.

È interessante notare come Schiller, descrivendo la relazione tra umanità e

progresso, segue sempre un duplice piano: quello istituzionale e quello

dell’interiorità dell’uomo: ciò che ha il potere di cambiare la società è

l’uomo nella sua interiorità, ma contemporaneamente questo stesso uomo

viene trasformato dal contesto sociale in cui si forma.

L’uomo, allora, deve potersi sviluppare partendo da una relazione

rinnovata e armoniosa tra sensibilità e intelletto. Ciò può avvenire solo in

un contesto di libertà, dove siano rispettate le particolarità e le

caratteristiche uniche degli individui. L’ideale di Schiller, risposta agli echi

che giungevano dalla rivoluzione francese, è quello di una “società

socievole”, spontaneamente coesa, priva di lacerazioni e conflitti. Una

società in grado di attenuare e rielaborare l’alienazione che deriva dal

lavoro capitalistico finalizzato all’utile, attraverso un’educazione estetica

fondata sulla “bellezza” e l’”arte”, più in sintonia con l’anelito dell’uomo

all’armonia e alla felicità.

                                                                                                               48 Cfr. Schiller F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze 1970.

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  41

L’idea di lavoro che emerge dalla lettura del Bildungroman e che

riecheggia nella cultura tedesca del tempo di Goethe, di cui l’autore si fa

interprete e narratore, assume un particolare rilievo se letta alla luce

dell’attualità. La cultura occidentale è sempre stata pervasa da una

dialettica tra opposte analisi sulla visione del lavoro, che ha inoltre

generato ideologie contrastanti nel tempo. Senza volersi addentrare in

approfondite analisi politiche e sociologiche, possiamo affermare che

“modelli narrativi del lavoro” hanno influenzato e influenzano la nostra

formazione personale e la costruzione della propria identità. L’opposizione

si presenta ancor oggi, in un’epoca di tardo capitalismo e di

globalizzazione, e corre tra la visione di un lavoro che degrada l’umanità,

perché non serve l’uomo, bensì il dio dell’utile, come diranno Schiller e

l’abate del Meister, e quella di un lavoro che, altresì, nobiliti la persona

impegnandola a perfezionarsi, a raffinare il suo carattere coltivando le

proprie facoltà intellettuali in un rapporto di reciproca cooperazione con gli

altri, in vista del raggiungimento di fini comuni.

Dagli albori della modernità, fondata sulla promessa messianica di un

progresso costante e inalterabile, alla sua fine, venuta meno la speranza

di poter articolare le conoscenze acquisite con la necessità di migliorare il

mondo, l’utilitarismo pare ancora costituire l’ideologia dominante. Per

l’utilitarismo il valore dell’individuo si basa su criteri meramente

quantitativi, determinati dalla sua funzione produttiva nel contesto

dell’economia di mercato.

Come ci ricordano Benasayag e Schmit,49 l’affermazione del neoliberismo

ha imposto al mondo l’economicismo come una sua seconda natura e,

potremmo aggiungere, declina le narrazioni della nostra formazione

personale e professionale in senso individualistico e in modo

unidimensionale, eludendo sia le aspirazioni soggettive della persona, sia

la possibilità che queste si accordino con l’aspetto pubblico dell’esistenza.

                                                                                                               49 Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, op. cit.

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  42

“Egli deve rendersi utile, sviluppare alcune attitudini, ed è inteso

che nel suo essere non ci sia né possa esserci armonia; poiché

per rendersi utile in un modo, deve trascurare tutto il

rimanente”. (Wilhelm Meister, V, 3)”50

La reazione a tale rinuncia sta nell’idea di un lavoro più prossimo all’arte e

alla socievolezza estetica. Un lavoro che, anziché scindere una

oggettivazione alienata e un’interiorità incapace di esprimersi, crei una

continuità tra interno ed esterno, tra la formazione personale dell’individuo

e la sua socializzazione.

Tale visione del lavoro appare in tutta la sua attualità e ci induce ancor

oggi a riflettere e a rielaborare la costruzione della nostra identità in

rapporto con la propria formazione professionale.

2.5 Bildulgroman e vita quotidiana

Il fascino del Meister, comunque, non nasce solo dal rimpianto di un

mondo precapitalistico destinato a scomparire, perché l’organicità estetica

e l’aspirazione alla felicità e all’armonia sono sempre atturali

“Ma si spostano per dir così a lato delle nuove istituzioni

collettive, con cui ingaggiano una tacita e interminabile guerra

di frontiera”.51

L’autore individua questo mondo parallelo nell’area della “vita quotidiana”

che, secondo l’analisi di Henri Lefebvre,52 costituisce il legame e il luogo

d’incontro di tutte le attività, inglobandole con le loro differenze e conflitti.

Qui l’analisi di Moretti si fa più serrata e complessa. Vale la pena di

sintetizzarla, perché rappresenta un’importante chiave d’interpretazione

delle modalità narrative, attraverso le quali il Bildungroman tratta la

                                                                                                               50 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 36 - 37 51 Ivi, p. 54 52 Cfr. Lefebvre H., Critica della vita quotidiana, 1947, tr. it. Delalo, Bari 1977

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  43

costruzione del rapporto della persona con il proprio contesto materiale e

culturale.

Per Moretti, la vita quotidiana rappresenta quel “mondo proprio” alla cui

costruzione l’individuo singolo subordina le sue attività. “Singolo” che

Agnes Heller53 definisce, con impostazione lukacsiana, “particolarità”, da

contrapporre all’”individualità”, legata alla nozione hegeliana di “individuo

storico – universale”. A quest’ultima categoria appartengono i grandi

uomini, capaci di seguire solo le loro passioni, rappresentativi delle grandi

svolte e acquisizioni storiche; sono quelli che Schiller nelle “Lettere”

afferma essere “vantaggiosi per la specie”, ma non sono “uomini felici e

perfetti”. La fatica, la lotta e il lavoro speso per raggiungere il loro scopo,

non li rende felici ma, come afferma Hegel,54 involucri vuoti che cadono,

una volta raggiunto il proprio fine, realizzata la loro opera, ed è questa ciò

che sono. Li troveremo in un altro tipo di romanzo di formazione, quello di

Stendhal, i cui eroi, infatti, s’identificano nel modello storico universale di

Napoleone.

Tali individui straordinari, non sono, invece, rappresentativi di quei tempi

da normale amministrazione, che costituiscono lo sfondo del romanzo. In

particolare il Bildungroman si propone come “cultura della vita

quotidiana”, e attraverso le vicende dei suoi personaggi, che

accompagnano la formazione del protagonista, lungi dallo svalutarla, la

rende sempre più viva e interessante.

È proprio nella sfera della vita quotidiana, infatti, che le contraddizioni e i

conflitti causati dall’eterogeneità delle sue occupazioni e delle relazioni

pubbliche e private possono raccordarsi e acquistare senso, contribuendo

a sviluppare la propria personalità.

Personalità che, pur essendo un tratto distintivo, che rende ogni individuo

diverso dagli altri, non è mai affidata a un’unica caratteristica, né sarà mai

definita attraverso la pura e semplice occupazione professionale. Si

esprime piuttosto

                                                                                                               53 Cfr. Heller A., Sociologia della vita quotidiana, op. cit. 54 Cfr. Hegel G. W. F., Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1947.

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  44

“… in una peculiare disposizione d’animo: che s’infiltra via via in

ogni occupazione, e la rimugina, la valuta, la osteggia, si sforza

di renderla consona allo sviluppo individuale come unità

dispiegata. In questo senso si può davvero dire, con

Baudrillard, che ‘la vita quotidiana è un sistema

d’interpretazione’”.55

Come tale trova nel Bildungroman la sua narrazione, che non si risolve in

un unico ambito di vita del protagonista. Wilhelm, infatti, a differenza degli

altri personaggi del romanzo non è definito in un “ruolo”, ma acquista la

figura di un “personaggio poli-paradigmatico”, secondo la definizione che

Moretti riprende da Hamon.56

Nessun particolare appellativo contraddistingue il protagonista, il cui

nome, Wilhelm, lo rende agli occhi del lettore una conoscenza familiare,

aperta a ogni possibile identificazione e proiezione. Così, sul piano

narrativo, ogni evento viene attratto nell’orbita della sua personalità.

La trama stessa ha il suo centro nello sviluppo multilaterale del

protagonista. L’aspetto più interessante di tale configurazione sta nei modi

in cui la prospettiva narrativa rivela certi aspetti della sua vicenda

esistenziale come più significativi di altri, nello sfondo di una vita

quotidiana, in cui nulla appare come pura ripetizione, né come pura

novità. Perché, come ci ricorda Kosik,

“la vita di ogni giorno ha la propria esperienza, la propria

saggezza, il proprio orizzonte, le proprie previsioni, le

ripetizioni, ma anche le eccezioni, i giorni comuni, ma anche le

festività”.57

                                                                                                               55 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 45 56 Cfr. Hamon P., Per uno statuto semiologico del personaggio, in Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Pratiche, Parma 1977. 57 KosiK K., Metafisica della vita quotidiana, 1963, in Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965, p. 85.

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  45

Pensarla come banale ripetizione in opposizione all’eccezionalità della

Storia risulta per l’autore mistificante.

2.6 Il rapporto figura/sfondo nel Bildungroman

La proprietà della trama romanzesca di restituirci in un qualsiasi momento

prosaico della narrazione il senso di un evento, di una situazione, di una

sensazione, che si rivelerà avvincente e denso di significato, ci riporta al

meccanismo della “peripéteia” descritto nel primo capitolo. Tale

meccanismo acquista in Goethe un significato particolare nel rapporto tra

il passato, gli eventi presenti del racconto e la prospettiva del suo futuro.

Emblematico, a questo riguardo, è l’episodio in cui Wilhelm, prendendo

con sé Felix, il bimbo lasciatogli da Mariane, arriva nel cortile di un grande

palazzo sconosciuto (il castello di Lothario). Con in braccio il figlio

addormentato, egli entra nel luogo “più severo e più sacro” in cui mai

avesse posto piede. L’apparizione di Nathalie (l’Amazzone) avviene in

questo ambiente avvolto di stupore e di interrogativi ansiosi. Ogni dubbio

tuttavia scompare, quando Wilhelm riconosce alcune opere d’arte

appartenute un tempo alla collezione del nonno e, primo fra tutte, un

quadro che aveva affascinato la sua infanzia (il ritratto di una principessa

somigliante a Nathalie). E’ il segno di un ritorno alle origini quale culmine

perfetto e circolare della strada percorsa alla ricerca del proprio io.

Riecheggiano, come rileva lo stesso Moretti, i due atteggiamenti che

dominano la “Teoria del romanzo” di Lukács.58 L’uomo non può tornare

indietro nel tempo, ma attraverso il ricordo si riappropria del suo passato,

mentre la speranza lo distoglie dalla paura del futuro. Questa condizione,

tipica nei personaggi del romanzo, è propria anche dell’uomo. Moretti, in

qualche modo va oltre l’analisi della temporalità romanzesca lukácsiana,

affermando che passato e futuro convergono di continuo sul presente, in

cui, ciò che è trascorso, si riorganizza in vista di una progettazione futura.

Cosa avvenga in tale riorganizzazione, lo si comprende dalla trama del

romanzo, che annuncia sempre un cambiamento nella vita del

                                                                                                               58 Cfr. Lukács G., Teoria del romanzo, SE, Milano 2004.

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  46

protagonista. Come ciò avvenga nella costruzione del sé, è motivo del

nostro interesse, per questo ritengo vada approfondito e in tal senso

avanzo un’ipotesi interpretativa.

Con riferimento alla Teoria della Gestalt, 59 la “vita quotidiana” del

romanzo, “metafora in grande” della nostra esistenza, appare come lo

“sfondo” dal quale emerge la “figura” del protagonista. Come lui, anche

noi, siamo sempre la figura, finché siamo consapevoli, nello sfondo della

nostra esperienza. A riguardo Mc Luhan60 afferma che l’interazione tra la

figura e il suo sfondo ci mette in grado di cogliere il significato, cioè il

rapporto tra se stessi e il contesto di riferimento. L’apparente normalità

della vita quotidiana fa sì che ci percepiamo di solito come figure integrate

nel suo sfondo. L’integrazione personale viene, invece, messa in crisi ogni

qualvolta avviene un mutamento tale da rendere inutilizzabili i valori, i

riferimenti abituali e le competenze, che prima erano sufficienti a rendere

possibile e significativa l’esistenza. A quel punto, la modalità che ci

permette di superare lo sconvolgimento dei rapporti “figura/sfondo”, è una

ristrutturazione globale della propria personalità. Si tratta di porsi dal

punto di vista di una “Gestalt” più ampia di quella disfunzionale che ha

provocato la disgregazione. In tal modo sarà possibile raggiungere un

livello più evoluto d’integrazione.

Nel romanzo, il meccanismo letterario della peripéteia, genera, appunto,

quegli accadimenti improvvisi che cambiano l’esperienza del protagonista.

Però, come ci avverte Moretti, a differenza di quanto avviene nel dramma

e nella tragedia, tali eventi non modificano in modo univoco e irrevocabile

la sua personalità. Wilhelm non cerca mai l’azione risolutiva, perché ha

adottato un atteggiamento più duttile verso lo scorrere del tempo, a

differenza degli altri personaggi del romanzo come Mariane, Aurelie,

l’Arpista e soprattutto Mignon. La morte di quest’ultima, infatti, appare la                                                                                                                59 “La Psicologia della Gestalt parte dalla constatazione che l’esperienza si presenta in forma di strutture organizzate di fenomeni tra loro così connessi che la modificazione di uno comporta necessariamente la modificazione degli altri. Così, al concetto di ‘elementi psichici’ la psicologia della forma sostituisce quello di ‘forma’ (‘Gestalt’ in tedesco) o ‘tutto organizzato’ in cui le proprietà delle parti o dei processi parziali dipendono dal tutto”. Tratto da Bertolini P., Dizionario di psico-socio-pedagogia, Mondadori, Milano 1980, p. 25. 60 Cfr. Mc Luhan M., Hutchon K., Mc. Luhan E., La città come aula, Armando, Roma 1980.

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  47

conseguenza di un desiderio prematuro e appassionato destinato a restare

insoddisfatto, un sentimento che la personalità irrequieta del personaggio

non riesce a rielaborare, a decantare nel tempo della propria esperienza

interiore. All’opposto, per Wilhelm, gli eventi più suggestivi e avvincenti,

stemperati e diluiti nella trama del romanzo, acquistano il loro significato

nell’intreccio di ciascun “episodio”, a piccoli passi, un po’ alla volta, dando

alle esperienze dell’eroe un senso di esperimento provvisorio, di apertura

al mondo.

“Questa dialettica di significato ed episodio è alla base del

capitolo romanzesco. Meccanismo straordinario di

autosegmentazione del testo, il capitolo instaura un equilibrio

tra la soddisfazione per ciò che abbiamo appreso (il significato

che è stato attribuito a un evento) e la curiosità per ciò che

ancora ignoriamo (quel significato è di norma sempre

incompleto)”.61

È messo così in luce l’atteggiamento più riflessivo del Wilhelm degli “Anni

di apprendistato”, rispetto a quello della “Missione teatrale” che,

prigioniero della sua passionalità non riuscirà a portare a termine la sua

ricerca di senso.

Negli “Anni di apprendistato”, infatti, il protagonista sembra aver acquisito

una maggiore capacità di leggere le tracce sul proprio cammino, di

interpretare gli eventi senza lasciarsene travolgere.

In questo senso, possiamo leggere l’espressione “cogliere le occasioni”,

che riecheggia spesso nel corso del romanzo, in base all’analisi del

rapporto “figura/sfondo” citato in precedenza.

L’introduzione di nuovi elementi a livello di trama narrativa permette di

riorganizzare in senso evolutivo le situazioni problematiche. Keeney parla,

in proposito, di “rumore significativo”,62 per intendere come un elemento,

                                                                                                               61 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., nota n. 42 di p. 51. 62 Cfr. Keeney B. P., Ross J. M., La mente nella terapia, Astrolabio, Roma 1986.

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  48

che acquista significato sullo sfondo di una trama narrativa, perturbi gli

equilibri raggiunti, costringendo ad una nuova riorganizzazione. Per

elaborare una diversa configurazione del rapporto “figura/sfondo” è

necessaria una relativizzazione dei propri contesti di apprendimento e un

decentramento che ci permettano di interpretare in modo nuovo la realtà.

A questo riguardo, Bateson distingue diversi livelli di apprendimento.63 Un

livello particolarmente importante è quello che chiama

“deuteroapprendimento” (o apprendimento 2). Consiste

nell’apprendimento di contesti di apprendimento, cioè di modalità

determinate di segmentare gli eventi, di operare distinzioni. Ciascuno di

noi impara, come esito dell’educazione, delle modalità specifiche di fare

distinzioni. Apprendere modalità alternative di segmentare i medesimi

eventi ci fa muovere, comunque, ancora a livello di

deuteroapprendimento. Per Bateson esiste anche la possibilità di un

apprendimento di livello superiore (apprendimento 3), che consiste nel

cambiamento delle premesse sottese all’intero sistema di abitudini di

punteggiatura. Si tratta a questo livello di un vero e proprio cambio di

epistemologia. In qualche modo, il mutamento finale dell’eroe prodotto

proprio dalla sua capacità di “saper cogliere le occasioni” si muove nella

direzione di questi due tipi di apprendimento: La maturità di Wilhelm

deriva dal suo modo nuovo di punteggiare gli eventi, che lo porta a

compiere scelte sempre più consapevoli, come quella di dedicarsi

all’attività teatrale.

C’è da dire che l’integrazione sociale di Wilhelm avviene in un contesto di

“vita quotidiana” di sostanziale equilibrio ed armonia, sullo sfondo, cioè, di

una visone sociale tenuta salda dalla cultura organicistica di Goethe.

L’autore tende a ricomporre l’opposizione fra la libertà dell’individuo e le

costrizioni del mondo moderno, e a eludere il conflitto di classe tra

l’aristocrazia e la borghesia, nel nome di una Bildung ideale, quanto

utopica. Resta il fatto che, nel costruire tale progetto, ci offre l’opportunità

di riflettere a fondo sulle modalità attraverso le quali nel processo di

                                                                                                               63 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit.

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  49

formazione della persona è possibile raggiungere livelli di integrazione più

evoluti, evitando di soccombere alla realtà sociale o di isolarsi dalla stessa,

di adattarvisi in modo passivo o di esserne iniziati attraverso prove che

qualcun altro ha deciso per noi.

Come rileva Moretti, infatti, quelle che a Wilhelm si presentano come

occasioni sono alquanto differenti, ad esempio, dalle “prove” che in

un’altra opera di ispirazione massonica come il “Flauto Magico” di Mozart

– Schickaneder consentono al protagonista Tamino di raggiungere la

maturità. L’antitesi tra iniziazione e formazione si manifesta in modo assai

chiaro nell’opposta funzione che vi svolge il linguaggio. Il confronto è

particolarmente interessante per comprendere quali modalità possono

favorire quei cambiamenti di paradigma personale necessari per operare

una più attiva e consapevole integrazione del sé. Mentre Tamino nel

“Flauto” deve essenzialmente tacere, nel Meister il linguaggio, attraverso

la conversazione, si fa strumento di formazione.

“Una svolta decisiva della Bildung di Wilhelm si ha quando egli

abbandona la retorica teatrale del monologo infiammato per

volgersi all’assai più prosaica arte del dialogo”.64

Imparare a parlarsi con fiducia nella socievolezza della vita quotidiana

favorisce sia l’espressione di sé, sia la comprensione degli altri, che passa

attraverso l’ascolto. Per cambiare il proprio punto di vista su ciò che

accade intorno a noi, occorre in qualche modo abbracciare quello

dell’altro.

2.7 L’integrazione tra socialità, orgoglio e pregiudizio

Il linguaggio della “conversazione”, della “socievolezza mondana”, che

accompagna le pagine del “Meister” e riempie gran parte di quelle di

“Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen, si pone all’opposto di

quell’”argomentazione pubblica razionale” che Habermas pone a

                                                                                                               64  Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 54 – 55.

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  50

fondamento dell’opinione pubblica.65 In realtà, infatti, la conversazione

romanzesca, non si oppone tanto al silenzio, quanto all’orazione

rivoluzionaria.

“È un’antitesi che ne porta con sé molte altre: alla corposità

frenante della concretezza si oppone il freddo e audace

universalismo dei principi; alla convertibilità dialogica dell’’io’ in

‘tu’, la rigida demarcazione di oratore e pubblico; all’attenzione

per la tessitura paziente di una trama, il gusto dello strappo, la

passione del ‘ricominciamento’”.66

Tali contrasti ci dicono che la vita quotidiana è incompatibile con la

rivoluzione, come lo è la stessa narrativa romanzesca con la grande storia,

destinata, quando appare, a rimanere sullo sfondo. All’esemplarità tragica

o epica dei grandi personaggi storici, il romanzo predilige l’unicità di

personaggi più “comuni”, che appaiono sempre in qualche modo

sovradeterminati e complicati da altre caratteristiche, in una parola

“personalizzati”. Ciò permette al lettore di identificarsi con loro, in quanto

la lettura stessa si propone come un percorso formativo. Anche se, proprio

per questo fine, occorre che il lettore si liberi del punto di vista parziale e

troppo spesso erroneo del protagonista, per poter vedere oltre.

L’errore del protagonista del Bildungroman è ben sintetizzato dal titolo del

romanzo di Jane Austen: “Orgoglio e pregiudizio”. Morettti individua due

significati del pregiudizio che caratterizzano sia l’eroina del romanzo di

Austen, sia il Wilhelm di Goethe. Sono entrambi indicativi di atteggiamenti

che impediscono proprio quel cambio di paradigma necessario

all’integrazione sociale della persona. Il primo coincide con la propensione

a giudicare frettolosamente ciò che ci accade, senza darsi un tempo per

lasciar decantare gli eventi che ci colpiscono, riflettere e rielaborare i

                                                                                                               65 Cfr. Habermas J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971. 66 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 58.

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  51

propri vissuti.67 Il secondo significato riguarda la parzialità del proprio

punto di vista che, se non riconosciuta, sfocia in partigianeria, unilateralità

del proprio pensiero, che rende impossibile una socializzazione imperniata

sul modello della totalità organica. Da questo punto di vista Elizabeth

Bennet, nel voler dimostrare soprattutto a se stessa un’intelligenza fuori

del comune, non pecca per difetto, ma per “eccesso di critica”.

“Il superamento del pregiudizio è il meccanismo narrativo in cui

prende corpo la critica della società civile borghese nella sua

massima espressione culturale: la sfera dell’opinione pubblica.

Dominata per l’appunto da quella passione illuministica per la

critica e la confutazione che ancora echeggia nei protagonisti

del Meister e di Orgoglio e pregiudizio” 68

Però, come ci avverte Hegel,

“Restare abbarbicato al sistema dell’opinione e del pregiudizio

per autorità altrui o per convinzione propria, differisce soltanto

per la vanità che si annida nella seconda maniera”.69

I protagonisti del Bildungroman partecipano di entrambe le esperienze,

descrivendo, così, un processo, che dal cammino dell’individualità conduce

all’integrazione sociale, evitando il rischio che l’irresoluto vagabondare

porti alla propria autodistruzione. Infatti, in termini narrativi, a Wilhelm ed

Elizabeth, è affidato l’intreccio della storia, che non potrebbe mai giungere

a conclusione senza la Torre e Darcy, che ne rappresentano la fabula

finale. Gli errori di Wilhelm e Meister, derivano, a detta di Moretti, dal loro

porsi “senza motivo”, in alterità al mondo dato; ma questo esercizio

critico, che dovrebbe essere un legittimo atto d’interpretazione, base di

                                                                                                               67 Non a caso il titolo del manoscritto di J. Austen era “First Impressions”, “Prime Impressioni”. 68 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 65 69 Hegel G. W. F., Fenomenologia dello spirito, La Nuova italia, Firenze 1976, p. 97.

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  52

ogni processo conoscitivo, rischierebbe, se prolungato, di compromettere

quell’acquisizione di senso, che è la proposta fondamentale del

Bildungroman. Così, all’esercizio critico si sostituirà la pratica

dell’”ascolto”, attraverso il quale il significato della realtà potrà

manifestarsi nella sua essenza e verità. Solo così, per Goethe e Austen,

sarà possibile ricomporre la frattura tra soggetto e oggetto e permettere il

“superamento dell’alienazione”. Sul piano della visione storica, possiamo

qui leggere la riformulazione di un’ideale riconciliazione tra le principali

classi dell’epoca, l’aristocrazia e la borghesia, attraverso un cammino di

emancipazione e promozione sociale.

“Nel Meister e in Orgoglio e pregiudizio i rappresentanti dei due

opposti poli sociali – Wilhelm ed Elizabeth da un lato; Lothario,

Jarno e Darcy dall’altro – si modificano appunto in modo tale da

smussare e rendere inoffensive le rispetive caratteristiche di

classe. I ‘borghesi’ guariscono dall’intossicazione mentale del

‘pregiudizio’ – gli aristocratici riescono a svelenire la noncuranza

umiliante del loro ‘orgoglio’.”70

In questo senso, il Bildungroman intende narrare come si sarebbe potuta

evitare la rivoluzione francese o, quantomeno, i suoi effetti irreversibili.

Tale proposta è rivolta specificatamente al lettore borghese, al quale

s’intende dimostrare l’assurdità di una cultura ispirata all’autonomia critica

individuale e il vantaggio che comporta la conciliazione sociale. Entra qui

in gioco la dialettica della libertà borghese, che nel Bildungroman si risolve

in uno scambio: l’accettare di appartenere a un sistema di coesione sociale

simbolicamente compatto e armonioso, in cambio della possibilità di poter

disporre della vita a proprio rischio e pericolo. La cultura dell’individuo

moderno si declina fin dall’inizio in una combinazione di questi due

estremi. Moretti la paragona ad un pendolo, nel cui il moto, che conduce

                                                                                                               70 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 71.

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da un polo all’altro, possiamo leggere la miriade di posizioni intermedie

che il movimento crea.

Si tratta, quindi, di un processo tuttora attivo, reso ancor più complesso

nella nostra società del disincanto, in cui la frontiera tra ciò che è possibile

per l’individuo e ciò che è pensabile per la società è quanto mai aperta e

confusa. Come ci avvertono Benasayag e Schmit, 71 una società che

estende continuamente il campo del “possibile” rischia di sprofondare in

un mondo in cui il virtuale sovrasta il reale, un mondo dell’impotenza,

regno dell’individuo psicotico, governato dal “posso tutto”. Nell’ambito

della costruzione del sé, l’esperienza della “non – onnipotenza” diventa

fondamentale per la persona, la cui formazione è indissolubilmente legata

a una lunga e profonda ricerca di ciò che i limiti delineati dal contesto

sociale e culturale di appartenenza rendono possibile. Possiamo essere

d’accordo o meno con l’ideale Bildung dei romanzi di Goethe e Jane

Austen, e chiederci, come Moretti, la ragione per la quale una civiltà

abbia di fatto scartato un congegno narrativo così perfetto. Al di là

dell’auspicio di entrambi di evitare la rivoluzione francese, il carattere

totalizzante del finale, il prevalere della necessità sulle possibilità, che

caratterizza la fabula del Bildungroman, rappresenta ancor oggi una

metafora in grande del processo formativo. Come si è cercato di delineare

in queste pagine, proprio il congegno narrativo creato per rappresentarlo è

ricco di spunti di riflessione, di motivi e di temi di rielaborazione utili per

pensare alla propria formazione personale e professionale.

2.8 Il romanzo di formazione nella modernità

Il conflitto tra individuo e società, tra desiderio di libertà e aspirazione alla

felicità, trova più articolate modalità narrative in quei romanzi dove a

prevalere è il principio di trasformazione. A trent’anni dal Meister, all’idea

                                                                                                               71 Per Benasayag e Schmit, “Il pensabile […] è l’insieme degli atti che ogni membro di una cultura, di una società o di una religione accetta in quanto rispettosi dei suoi fondamenti, come conformi o adatti alla vita. […]. Il possibile è un insieme molto più vasto […]. Le frontiere tra il possibile e ciò che lo limita (il pensabile) si spostano in funzione delle situazioni e dei periodi storici.”. Benasayag M., Schmit G., L’epoca della passioni tristi, op. cit., p. 92.

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di formazione come sintesi di varietà e armonia, subentra, la

problematicità, l’inquietudine e l’incertezza nell’appassionata ricerca di vie

nuove e tortuose della formazione individuale.

L’analisi morettiana di questo nuovo modello romanzesco, i cui massimi

interpreti sono Stendhal e Puškin, ci offre l’opportunità di riflettere

sull’origine e lo sviluppo di alcuni paradigmi della costruzione del sé nella

modernità, che tuttora influenzano la formazione dell’identità personale. Li

possiamo raccogliere e sintetizzare in alcuni “nuclei tematici”

fondamentali.

Il primo riguarda l’”ambivalenza” dei protagonisti. Essa appare un riflesso

di quella del contesto storico e sociale, nel quale, sulla scorta del modello

francese, la legittimità dell’esistente non è più affidata alla tradizione, ma

a principi la cui astrazione ne inficia di per sé la loro stessa realizzazione. I

valori rivoluzionari di libertà e di eguaglianza generano contraddizioni e

compromessi, come nel caso della carriera di Napoleone e della rivoluzione

industriale inglese, quando non sono addirittura sconfitti, come nel

periodo della restaurazione. Julien Sorel e Fabrizio del Dongo, protagonisti

rispettivamente del “Rosso e Nero” e de “La Certosa di Parma” di

Stendhal, entrambi ancora profondamente legati a quei valori appartenenti

una fase storica ormai conclusa, non si sottrarranno alla tentazione di

tradirli per conquistare una più soddisfacente collocazione sociale. Si

tratta, comunque, secondo Moretti, di un tradimento che si compie solo a

metà. Il ritratto che Julien tiene nascosto sotto il suo letto, dimostra che

gli ideali rivoluzionari non sono stati per nulla dimenticati; così come i falsi

passaporti di Fabrizio, ne rivelano la sua doppia e ambigua identità.

Questa duplicità che caratterizza gli eroi stendhaliani rappresenta, secondo

Moretti, un modo d’essere della personalità moderna, che lo studioso

interpreta alla luce di tre fenomeni tra loro interrelati. Il primo è il

“bovarismo” che, secondo la concezione di Jules de Gaultier,72 opera su

una scissione tra l’immaginario e il reale, e costituisce il tentativo,

destinato comunque a fallire, di riformare la realtà collettiva secondo le

                                                                                                               72Cfr. De Gaultier J. Il bovarismo, S.E., Milano 1992.

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  55

esigenze di un sogno individuale. Il secondo fenomeno si richiama alla

Verleugnung freudiana e consiste, secondo l’analisi di Mannoni, 73 al

disconoscimento dei propri ideali che, relegati nella vita immaginaria, pur

essendo di continuo sconfessati sul piano dell’esistenza reale, vanno a

costituire la struttura intima della personalità. L’ultimo fenomeno descritto

da Moretti riprende l’analisi della “malafede” contenuta nella prima parte

di “L’essere e il nulla” di Sartre. Secondo la concezione di quest’autore, la

malafede è

“l’arte di formare concetti contraddittori, che riuniscono cioè in

sé un’idea e la negazione di quest’idea”.74

Tale modo d’essere ritrae

“una persona che compie una certa azione e simultaneamente,

parlando, presenta a sé e all’altro l’immagine opposta di sé”.75

I fenomeni indicati da Moretti per descrivere il comportamento

ambivalente degli eroi stendhaliani e, di riflesso, tratti caratteristici della

personalità moderna, richiamano la teoria del “doppio legame” di

Bateson.76 Ai fini di questa tesi, è importante soffermarsi a riflettere su di

essa, per le sue implicazioni con la narrazione che ciascuno fa di se stesso

nelle situazioni in cui l’adattamento del sé a determinati contesti relazionali

risulta problematico. Si tratta, infatti, di un insieme di interazioni che non

permettono di formulare una narrazione coerente o di creare connessioni

possibili tra azioni ed emozioni, perché il soggetto stesso è preso in una

relazione paradossale. Lo stesso accade nei romanzi di Puškin e Stendhal,

nei quali la trama si trasforma in una lunga sequenza di atti d’arbitrio

compiuti dai protagonisti senza alcuna coerente connessione causale tra

                                                                                                               73 Cfr. Mannoni G., La funzione dell’immaginario, Laterza, Bari 1972.  74 Sartre J. P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 97 – 98. 75 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 99. 76 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit..

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l’azione e il suo contesto. Se le connessioni tra le diverse azioni e le

proprie narrazioni costituiscono la base della costruzione del sé, nelle

situazioni a doppio vincolo il soggetto fatica a costruirsi un “Io” capace di

narrare una storia coerente di sé. Ciò che risulta compromesso è il

rapporto tra l’identità e lo sfondo delle relazioni vissute passate e future,

tra l’immagine di sé e la cultura di riferimento del proprio contesto sociale.

2.9 Realismo narrativo e relativismo sociale

Tale paradosso ci porta all’analisi di un altro nucleo tematico, quello della

“maturità”. L’impossibilità di conciliare la fede nei valori rivoluzionari di

libertà e di eguaglianza con il desiderio di dominio e la ricerca di privilegi,

che contraddistinguono il funzionamento sociale del contesto borghese,

costringe i primi ad esser relegati nella breve stagione della gioventù. La

gioventù, proprio per la sua breve durata, viene così presentata come l’età

degli ideali da contrapporre alla maturità. Quest’ultima non consiste più

nell’acquisire delle qualità, ma al contrario nel perderle, nel rinunciare

proprio a quei valori, a quelli stessi principi sui quali si legittima l’ordine

democratico della società borghese.

“Non si diventa più adulti divenendo adulti, ma cessando di

essere giovani: è un processo che si riassume in una perdita, una

rinuncia. [...] volendo esprimersi in termini freudiani, la

socializzazione che ha luogo durante la gioventù non esige il

sacrificio dell’Es, ma quello simbolicamente più inquietante del

Super-io”77

Se per Julien, Fabrizio e Onegin questo passaggio dalle illusioni della

gioventù al disinganno dell’età matura non si compirà mai, perché

impossibile per i loro autori immaginarli adulti, il paradigma della maturità

come rinuncia s’imporrà d’ora in avanti nella concezione moderna

dell’esistenza. Viene così svalutata l’idea stessa di esperienza come

                                                                                                               77 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 100 - 101

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  57

incontro formativo con la realtà, rielaborazione continua della personalità

in sviluppo, tipica del Bildungroman. La narrazione della costruzione del sé

pare interrompersi davanti alla reificazione di un’esistenza che resiste al

mutamento, alla possibilità di trasformare e ancor più di migliorare la

condizione umana. Dal piano del racconto si passa così a quello del

discorso e del commento, che accompagna le vicende degli eroi tra il

cinismo “delle fredde osservazioni della ragione” e la nostalgia “delle note

dolorose del cuore”.78

Veniamo così ad esplorare un altro nucleo tematico fondamentale che

riguarda la costruzione del sé nella modernità, quello del “realismo”.

Secondo Moretti, il realismo dei romanzi di Puškin e Stendhal non è

assimilabile al principio di realtà freudiano, che guida l’opera equilibratrice

dell’Io, consentendogli di sentirsi a suo agio nel mondo. È, invece, proprio

da questi romanzi che prende le mosse quella teoria del realismo narrativo

formulata da Bachtin e ripresa da Lotman,79 secondo la quale ciò che

rende un romanzo come l’Onegin realistico è la molteplicità dei punti di

vista, che invece di esser ricondotti ad una sintesi equilibratrice si

risolvono nella “discontinuità”, caratteristica fondamentale della realtà

quotidiana. L’irreversibile moltiplicarsi delle prospettive e il conseguente

relativismo portano al sorgere dell’ironia, che gioca un ruolo vitale nel

romanzo moderno e si configura come un atteggiamento essenziale della

cultura e della coscienza moderna.

È importante, in questo senso, la riflessione di Moretti riguardo

l’atteggiamento del lettore, perché implica il modo in cui il romanzo

moderno ha condizionato e influenza tuttora le rappresentazioni del sé, e

come, dal punto di vista di questa tesi, può, altresì, orientare le nostre

narrazioni, fornirci valide indicazioni di metodo per la formazione

personale.

Lo studioso si mostra alquanto scettico sulla possibilità che la molteplicità

dei punti di vista, tipica del romanzo moderno, possa stimolare

                                                                                                               78 Puškin A. S., Eugenio Onegin, Rizzoli, Milano 1985, p. 33. 79 Cfr. Lotman J. M., La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1990.

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  58

“una forma mentis ‘dialogica’ e ‘sperimentale’, un

atteggiamento verso il mondo che è curioso e duttile, aperto,

empirico, responsabile. In una parola: ‘maturo’”.80

D’altra parte, questo cosiddetto “lettore implicito” di Lotman è proprio

quello cui dovremmo ispirarci, nella misura in cui intendiamo valersi del

romanzo per riflettere sulla nostra condizione umana, ricavare significati e

temi di vita per acquisire consapevolezza di se stessi, elaborare strategie

d’azione e di relazione, scoprire chiavi di lettura utili a costruire e

ricostruire le proprie esistenze.

Occorre, però, tener conto, come la pluralità dei punti di vista possa

condurre allo scetticismo e all’indecisione, piuttosto che a una elastica e

problematica maturità.

Gli opposti piani del racconto, inevitabilmente melodrammatico, e del

discorso fin troppo ironico, su cui si fondano i romanzi di Puškin e

Stendhal e buona parte del romanzo moderno, descrivono una visione

amara e cinica della realtà, “così va il mondo”, e al tempo stesso

l’inquietudine della personalità moderna, il cui processo di formazione è

sempre più complesso e problematico di quel che ciascuno potrebbe

immaginare.

                                                                                                               80  Moretti F., op. cit., p. 109  

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  59

3 Autoformazione tra riflessività e narrazione

“Nella storia della vita, l’ascesa e la caduta di tratti

e funzioni dipende da quanto essi contribuiscono al

successo degli esseri viventi. Il modo più diretto

per spiegare coma mai la coscienza si sia

affermata nell’evoluzione consiste nel dire che essa

ha contribuito significativamente alla

sopravvivenza delle specie che ne erano dotate. La

coscienza venne, vide e vinse. Poi fiorì rigogliosa e

adesso sembra sia qui per restare.”

(Antonio Damasio, Il sé viene alla mente)

3.1 Aspetti dell’autoformazione

La costruzione del sé si declina in una più funzionale ricerca di metodo

attraverso le forme, i modelli e le pratiche dell’autoformazione. Secondo

Margiotta, nella nostra società globale e della conoscenza

“l’autoformazione si è, infatti, imposta come via metodica alla

ricomposizione unitaria (mente/corpo; intelligenza/emozione;

io/altri; finito/infinito) del soggetto”.81

Si tratta della sfida a guardare il percorso della propria vita come un

disegno che abbia senso. Pur riconoscendo che ogni storia di vita si svolge

“senza un disegno previsto, progettato e controllato”, anzi “il

disegno non è ciò che guida fin dall’inizio il percorso di una vita,

bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza poterlo mai

prevedere e neanche immaginare”.82

                                                                                                               81 Margiotta U., Autoformazione. Oltre le colonne d’Ercole per riconquistare il gusto e la disciplina dell’ignoto, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, Pensa Multimedia Editore, Lecce 2008, p. 9. 82 Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 2003, p. 8.

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  60

Seguendo le indicazioni di Margiotta, 83 nello schema seguente sono

sintetizzati gli aspetti fondamentali dell’autoformazione e il suo rapporto

con la narrazione.

AUTOFORMAZIONE & NARRAZIONE

Percorso autobiografico

Ricostruire la memoria della propria storia, attraverso un procedere maieutico che fa emergere temi significativi del percorso personale nei contesti sociali di relazione e di lavoro professionali.

Metodo fondato sul riconoscimento del principio di intersoggettività

Produrre storia ripercorrendo le proprie storie di vita, attraverso un atteggiamento di autoriflessività, che permette di imparare dall’esperienza.

Ricostruzione delle trame vitali della mente e delle sue forme espressive

Potenziare identità e autostima e trovare nella connessione tra passato, presente e futuro possibili, il senso della propria unicità esistenziale.

Riflessione attraverso i testi

Esercitare il pensiero narrativo come un dispositivo cognitivo che permette di ricostruire esperienze, fatti, relazioni tra eventi, cause e possibili conseguenze in modo da sviluppare prospettive di interpretazione da cui nascono nuove chiavi di lettura.

Istruzione & Educazione

Processo di apprendimento di contenuti, che soddisfa ad una domanda esterna alla persona, allo scopo di collocarsi professionalmente. Processo di conoscenza di sé e delle proprie dinamiche, per rispondere ad una domanda interna di crescita della consapevolezza di sé.

Meditazione

Educazione interiore, lavoro intellettuale, autodisciplina mentale, formazione del carattere; prendersi cura di sé in una ricerca di senso e di speranza.

Se è vero che l’autoformazione oggi gode di larga attenzione, e che di

conseguenza la cultura assegna grande rilievo al pensiero narrativo, è

necessario chiedersi da una parte chi siano i soggetti destinatari di tali

                                                                                                               83 Liberamente tratto da Margiotta U., Autoformazione. Oltre le colonne d’Ercole per riconquistare il gusto e la disciplina dell’ignoto, op. cit., p. 9 – 10.

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  61

pratiche, e dall’altra come declinare il proprio progetto di costruzione del

sé nella prospettiva dell’attuale società della conoscenza.

L’analisi di Bauman 84 offre un interessante spaccato sulla condizione

contemporanea dell’identità individuale e su ciò che la caratterizza in

rapporto alle dinamiche sociali.

L’autore riconosce una stretta connessione tra la paura dell’inadeguatezza

e la frenesia del consumismo. Mentre nelle società moderne il timore della

devianza aveva sostituito la paura dell’incertezza, spingendo gli individui

ad uniformarsi ai principali modelli istituzionali, la deregolamentazione

postmoderna genera identità sempre meno definite, frammentate e

destrutturate, proprio perché i meccanismi di ristrutturazione stanno

perdendo la loro funzione normativa. L’incertezza, che caratterizza la

società postmoderna, spinge gli individui a un continuo e frenetico sforzo

di autoaffermazione. La mancanza di criteri definiti cui uniformarsi rende

più difficile acquisire forme e immagini desiderate; una volta che la paura

dell’incertezza si è trasformata nell’ansia dell’inadeguatezza personale, le

proposte del mercato diventano irresistibili, perché offrono l’illusione di

scelte spontanee fuori da ogni coercizione e obblighi. La ricompensa delle

moderne società regolamentate e coercitive era il conformismo che

liberava gli individui dalla responsabilità e dalla scelta. L’attuale

ricompensa che offre il mercato è invece l’illusoria libertà di non dover

pensare alla responsabilità delle conseguenze future delle proprie scelte,

in un mondo dove i continui e frenetici cambiamenti sospendono le nostre

esistenze in un presente senza tempo. Per l’autore, tale irresponsabilità,

che svincola dagli obblighi sociali e dalla schiavitù dei destini personali

genera, in realtà, nuove dipendenze, nonostante sia sentita come

un’emancipazione e vissuta come una forma di liberazione.

L’autoformazione rischia allora di trasformarsi in un’autoaffermazione di sé

attraverso uno spasmodico consumo di merci, invece di evolvere in nuove

produzioni di senso e di significato, che potrebbero più facilmente essere

veicolate dalle opportunità che una società più libera da ideologie,

                                                                                                               84 Cfr. Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Firenze 1999.

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  62

strumenti e modelli istituzionali coercitivi potrebbe offrire in termini di

costruzione di sé, di nuove forme di legame e di relazione con gli altri.

I legami sociali tendono, invece, a dissiparsi, a disgregarsi, addirittura a

liquefarsi, secondo un’altra felice, seppur inquietante, definizione di

Bauman.85 Tale “processo di liquefazione”, che riguarda i diversi ambiti

della vita (il lavoro, la comunità, le strutture sociali etc.) produce a sua

volta individui solitari, smarriti e disorientati di fronte alla miriade di stimoli

e informazioni che li bombardano ogni giorno. Lo stesso incontro con gli

altri è un incontro fra estranei. Rapporti che si consumano in “non–luoghi”

atti al consumo, tra persone che non si conoscono e non si

conosceranno, perché il consumo è un atto individuale che isola i corpi

nelle proprie sensazioni e li distoglie dalla percezione dell’altro, invece di

aprirli all’espressione di sé e alla comprensione delle emozioni altrui.

L’autoformazione come “cura di sé”, orientata ad un percorso costruttivo

esistenziale su chi e come si intenda essere, presuppone allora, un

parallelo e concomitante processo di decostruzione di sé, rivolto ad una

continua pratica di reinterpretazione dei propri presupposti e delle proprie

credenze, di riadattamento delle proprie condotte esistenziali, di

rielaborazione delle proprie esperienze, di verifica delle proprie

aspettative, insomma, di una ricorrente narrazione del proprio romanzo di

vita.

Altrimenti, correremo sempre il rischio di eludere sia la problematicità sia

la ricchezza delle nostre identità, in una “cura per sé” che espone i nostri

corpi ad assorbire e assimilare esperienze al di fuori di qualsiasi orizzonte

di senso, preoccupati unicamente che le proprie sensazioni siano

equiparabili a quelle degli altri, le cui esperienze, non potendo

comprenderle, potrebbero essere sempre più elevate delle nostre. Ciò è

quanto la pubblicità nei diversi media dà continuamente ad intendere,

provocando, così, una costante insoddisfazione e precludendoci l’accesso

alla possibilità del piacere stesso.

                                                                                                               85 Cfr. Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari 2006.

Page 64: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  63

Diversa è la modalità del “prendersi in cura”,86 narrando le nostre storie

individuali e relazionali, a partire proprio dalla centralità del corpo, come

tessuto di sensi e di significati che svelano a noi stessi e agli altri le nostre

identità e alterità.

3.2 Autoformazione e identità sociale

L’aspetto che qui più ci interessa, è proprio la pratica della “cura di sé”,

come metodo formativo che implica un ruolo fondamentale per coloro che

per professione devono “prendersi cura” di altri soggetti. A educatori,

insegnanti, assistenti sociali, animatori, formatori e alle altre figure

professionali, che esercitano l’aiuto alla persona, per stare in quella cura

degli altri, intesa a promuovere emancipazione e autonomia, è richiesto di

liberarsi il più possibile da pregiudizi, condizionamenti e false credenze che

nelle proprie esperienze operano spesso come “impensati”. Anche e

soprattutto per loro è necessario confrontarsi con quei nuovi processi di

formazione adulta legati alla riflessività interiore, all’orientamento e

all’auto-direzione di sé.

In una società fluida, dove il sistema sociale non è più stabile e

determinato nelle sue articolazioni, ma in continua trasformazione, la

realtà che viviamo è sempre quella del momento, è la relazione di senso

che occorre ricercare in ogni istante; è una realtà implicativa, nella quale

osservatore ed osservato si compenetrano; è una realtà interna ed

esterna, per la quale il soggetto creando legami con gli altri si fa coscienza

del mondo; è una realtà dinamica e costruttiva, dove l’azione della

persona è perturbazione per l’altro che, per mantenere l’equilibrio, sarà

costretto a mutare.

Maturana e Varela87 ci aiutano a chiarire questa prospettiva, proponendo

come modello in grado di render conto dello sviluppo delle singole identità

quello di un “accoppiamento strutturale” fra realtà che si sviluppano

mantenendo la propria organizzazione. La costruzione di sé va intesa, per

                                                                                                               86 Cfr. Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Bari 2002. 87 Cfr. Maturana H, Varela F., L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1990.

Page 65: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  64

questi autori, come una complessa e dinamica forma di adattamento,

come una “deriva di cambiamenti strutturali”, che permettono alla persona

e all’ambiente di coevolvere, mantenendo, ciascuna, la propria autonoma

organizzazione. In questo senso le due realtà, soggetto e contesto,

costruiscono un mondo condiviso, cioè una storia.

L’identità personale, quindi, come una coevoluzione di elementi diversi, un

equilibrio originale di diversità: diverse linee di crescita che si intrecciano e

si sovrappongono.

È quanto già risalta dalla lettura dei romanzi di formazione che abbiamo

analizzato nel capitolo precedente. Un ulteriore e calzante riferimento

letterario può aiutarci a comprendere come la diversità degli elementi

concorra alla definizione della propria identità. È il caso di “Narciso e

Boccadoro” di Hesse.88

Questa storia di amicizia, di amori, di passioni e di arte, è anch’essa una

lunga metafora formativa.

“Boccadoro, all’inizio del racconto è un ragazzo, dai riccioli

biondi e dal sorriso ingenuo, che giunge in un convento per

ricevere un’istruzione. Qui incontra Narciso, un giovane

maestro, di poco più grande di lui, col quale l’affinità è

immediata. Boccadoro ammira le doti intellettuali e spirituali del

maestro, e desidera ardentemente conquistarsene la simpatia.

Narciso, a sua volta, è affascinato dall’indole inquieta del

ragazzo, dalla sua curiosità, dal suo bisogno di sperimentare. È

un’inquietudine che gli deriva dall’amore per una madre il cui

ricordo gli è stato offuscato dal padre. Questi ha sempre

descritto a Boccadoro la madre come una donna selvaggia e

vagabonda, che lo aveva abbandonato quando era ancora

molto piccolo. Proprio per espiare le colpe materne, il padre lo

convince a dedicare la sua vita a Dio.

                                                                                                               88 Cfr. Hesse H., Narciso e Boccadoro, Mondadori, Milano, 2012.

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  65

Narciso, da gran conoscitore della psiche umana, comprende

come le ansie del giovane sono legate alla scomparsa della

madre, da cui Boccadoro ha ereditato lo spirito inquieto e

gitano. Decide, allora, di aprirgli gli occhi, e per aiutarlo a

trovare la sua strada, lo avverte:

‘Io ti prendo sul serio quando sei Boccadoro. Ma tu non sei

sempre Boccadoro. Io non mi auguro altro se non che tu

divenga Boccadoro in tutto e per tutto. Tu non sei un erudito,

tu non sei un monaco … per far un erudito ed un monaco basta

una stoffa meno preziosa della tua’.

L’invito di Narciso, che non risparmia all’amico parole di fuoco,

è un’esortazione affinché Boccadoro possa realizzare se stesso

nel modo giusto, non in quello impostogli dal padre.

Il ragazzo decide, così, di intraprendere un viaggio, un

vagabondaggio senza mèta, passando da un’avventura all’altra,

alla ricerca della figura materna, del senso pieno della vita.

Boccadoro attraverserà la propria esistenza, combatterà le sue

paure, conoscerà la bestialità dell’uomo, l’effimera durata del

dolore come del piacere. Infine, approderà sulla sponda sicura

dell’arte con la quale s’illuderà di poter sconfiggere la stessa

morte. Intagliando sculture nel legno presso un anziano

scultore, crede di rivedere nel volto della Madonna quello di sua

madre; si svelerà, altresì, l’immagine di una Madre Primigenia,

che riunisce in sé i visi di tutte le donne che ha amato e da cui

è stato amato. È la coscienza del mondo che si coniuga con

l’esperienza di sé.

Solo al termine di una vita errabonda, Boccadoro ritorna al

convento, dove ritrova Narciso, il suo grande amico. In fondo a

ciascuno dei due è rimasta la convinzione di essere

complementari, due anime opposte che si completano, in cui

ciascuna si arricchisce dell’altra. Narciso è una parte di sé che

non può essere eliminata, pena una riduzione delle proprie

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potenzialità; questo è il senso delle ultime parole di Boccadoro

prima di morire: ‘Anch’io ti ho sempre voluto bene, Narciso: la

metà della mia vita è stata uno sforzo continuo per

guadagnarmi l’animo tuo.’”

L’esito della ricerca sarà proprio la scoperta della complessità dell’essere

umano. La stessa complessità si ripropone a livello cognitivo, perché

l’intelligenza non funziona secondo un’unica modalità. Wallon89 ha per

primo posto in risalto la complementarietà fra due diversi tipi di

intelligenza. Da una parte l’intelligenza spaziale (o consecutiva), di tipo

pratico, che si organizza a partire dall’azione e dai suoi effetti. Dall’altra

l’intelligenza concettuale, che si organizza intorno alle operazioni mentali.

Entrambe coevolvono; ciò che varia è la calibrazione delle reciproche

relazioni e influenze.

In questo modo, fin da bambini, costruiamo il “reale”, appropriandocene

in modo originale; produciamo ipotesi e teorie e attraverso queste diamo

senso al mondo e alle nostre esperienze. È un procedere per continue

organizzazioni, disorganizzazioni e riorganizzazioni di quadri mentali. Se la

molla di questo processo è, in termini piagetiani, lo “squilibrio”, non si

tratta però unicamente di uno squilibrio cognitivo: non mutiamo le nostre

teorie solo perché i fatti le smentiscono, ma perché quelle stese teorie,

che contribuiamo a costruire, non sono più in grado di mantenere

quell’accoppiamento strutturale all’ambiente che garantisce il permanere

della propria identità.90

3.3 Identità complesse e complessità sociale

La complessità del reale si rispecchia nella complessità delle nostre menti

incarnate, capaci di coniugare, secondo Gardner, una molteplicità di

intelligenze.91 Lo psicologo statunitense definisce “correnti, onde e canali

                                                                                                               89 Cfr. Wallon H., De l’acte à la pensèe, Flammarion, Paris 1970. 90 Cfr. Maturana H, Varela F.,L’albero della conoscenza, op. cit.. 91 Cfr. Gardner H., Formae mentis: saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano 1987.

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di simbolizzazione” quei fattori che contribuiscono all’acquisizione delle

nostre funzioni simboliche. Per ognuna delle intelligenze compresenti nella

nostra mente esisterebbe una “corrente”, provvisoriamente separata dalle

altre, ma destinata a intrecciarsi con esse attraverso l’attività delle “onde

di simbolizzazione”. Lo studioso ne indica quattro:

- “l’onda della strutturazione di ruoli o di eventi”, che presiede all’uso

della parola o nella finzione del gioco;

- “l’onda della rappresentazione analogica o topologica”, che si

esprime nell’attitudine a cogliere dimensioni, forze o valenze

relative, come nel linguaggio, nel disegno, nella manipolazione e

nella musica;

- “l’onda di rappresentazione numerica o quantitativa”, che presiede

alla nascita del numero;

- “l’onda della simbolizzazione notazionale”, che concorre allo

sviluppo dei sistemi di simboli correlati ad altri sistemi di simboli,

come il linguaggio scritto si riferisce all’oralità, il sistema numerico

ai numeri pronunciati, i sistemi di notazione per la musica, e via via

i vari codici culturali.

L’onda di simbolizzazione notazionale immerge le nostre intelligenze nella

cultura di appartenenza. Si sviluppa, così, il rapporto tra la nostra identità

e l’ambiente, con i limiti e le potenzialità che tale processo implica, perché,

ci avverte Gardner

“una volta che si trovi avviluppato in un mondo di notazioni, il

bambino si sforza di padroneggiare nuovi sistemi e di usarli in un

modo preciso e nel rispetto delle norme. Egli è ora seriamente

impegnato a conquistare le abilità simboliche della sua cultura; e,

in un certo senso, il divertimento è finito.” 92

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 92 Ivi, p. 331

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  68

Ciò è vero per il bambino come per l’adulto, in una dimensione educativa

che privilegia la trasmissione delle conoscenze, anziché valorizzare

l’autorialità del soggetto che apprende. Così, il divertimento di costruire la

propria intelligenza, di sperimentare l’efficacia delle onde di

simbolizzazione, rischia paradossalmente di finire proprio con l’inizio dei

processi d’istruzione, che ci inducono ad aderire ai principali canali

notazionali. Non è, comunque, del tutto scontato che apprendere a

padroneggiare i canali notazionali egemoni nella propria cultura

d’appartenenza, ci precluda l’opportunità di sviluppare gli altri potenziali

simbolici, presenti nelle intelligenze pure. Lo stesso Gardner, del resto, ci

avverte che le sette intelligenze da lui segnalate, che si organizzano

secondo i sistemi simbolici, non sono rintracciabili allo stato naturale,

bensì, sono tra loro intrecciate e compresenti. La teoria di Gardner appare,

allora, del tutto accettabile, proprio alla luce delle proposizioni illuminanti

di Wallon sulla comunicazione attraverso sistemi simbolici non verbali,

sguardo, gesto, sorriso, contatto corporeo, che originano dal “dialogo

tonico” con la madre. In questo senso, le emozioni appaiono come

conoscenze primitive, olistiche e arcaiche, il cui sviluppo si confonde con

l’attività cognitiva. Così, grazie ai processi di scambio comunicativo, la

mente si va costruendo in termini di intelligenza linguistica, di intelligenza

musicale, di intelligenza logico-matematica, di intelligenza visivo-spaziale,

di intelligenza corporea-cinestetica, di intelligenza intrapersonale, di

intelligenza interpersonale. La disponibilità di sistemi simbolici differenti

implica l’esistenza di un soggetto, neonato, bambino, adolescente, adulto,

protagonista attivo e costruttivo del suo apprendimento.

La questione dell’autoformazione si pone, allora, sia come una necessità

attuale per orientare le persone nella nostra società della conoscenza, sia

come una forma necessaria per declinare una concezione

dell’apprendimento come costruzione attiva e consapevole dei propri

saperi e delle proprie competenze, alla luce delle ricerche psicologiche,

pedagogiche, di educazione degli adulti, e dei rinnovati studi sulle

potenzialità della mente.

Page 70: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  69

Come afferma Ivana Padoan,93 si tratta di un vero e proprio cambio di

paradigma del processo formativo, che ci sollecita a diventare autori della

propria formazione.

Questo passaggio trasformativo comporta una serie di condizioni, che

sono correlate con l’acquisizione di metodi “riflessivo-narrativi” da parte

dei soggetti coinvolti nei processi di autoformazione.

3.4 Autoformazione e riflessività nell’azione

In questa prospettiva, è necessario un rapporto con il sapere in termini di

problematica interrogativa, di personalizzazione delle competenze e di

costruzione delle stesse attraverso la riflessività. Occorre, per dirla con

Schön, 94 superare il modello della “razionalità tecnica” fondato sulla

separazione tra ricerca e pratica professionale.

Per l'epistemologia positivistica la pratica è una applicazione a problemi

strumentali di teorie e tecniche basate sulla ricerca, la cui obiettività deriva

dal metodo della sperimentazione controllata. E' una particolare visione

del sapere che elude la competenza pratica, la creatività e le abilità

artistiche del professionista.

La razionalità tecnica è una eredità del Positivismo, al fine di applicare le

conquiste della scienza e della tecnologia al benessere del genere umano.

Questa ambizione dalla rivoluzione industriale ad oggi ha influenzato tutte

le professioni.

Secondo tale modello esiste un mondo conoscibile in modo oggettivo, il

controllo tecnico su di esso si esercita osservandolo e mantenendosene a

distanza; perciò gli esperimenti controllati, necessari alla produzione delle

teorie scientifiche, possono essere condotti solo dalla ricerca. Non possono

essere condotti in modo rigoroso dalla pratica, dove le variabili sono

legate assieme, e difficilmente possono essere separate per essere

analizzate.                                                                                                                93 Cfr. Padoan I., L’avvento dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit.. 94 Cfr. Schön D., Il Professionista Riflessivo. Per una epistemologia della Pratica Professionale, Dedalo, Bari, 1993.  

Page 71: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  70

Secondo la razionalità tecnica la pratica appare come una sconcertante

anomalia, perché non è possibile trattarla come forma descrittiva del

mondo, né ridurla a schemi analitici matematici. Occorre, allora,

trasformarla in una tecnica basata sulla scienza che servirebbe per

scegliere i mezzi migliori. Negli ultimi decenni, però, quest’approccio è

stato delegittimato da una serie di insuccessi e danni provocati dai

cosiddetti “professionisti-esperti” che vi si ispiravano: vedi i danni

ambientali, i disastri sociali, le crisi economiche, etc.

Questo paradigma, quindi, mostra tutti i suoi limiti davanti alle sfide della

complessità postmoderna, nei contesti contrassegnati da incertezza, dove

le situazioni problematiche non sono descrivibili in modo lineare, né

solvibili in modo univoco; quando i fini non sono chiari, quando, almeno

all’apparenza, non c'è nemmeno il problema davanti e bisogna in qualche

modo immaginarlo.

Dal punto di vista della razionalità tecnica la pratica professionale è un

processo di soluzione dei problemi, ma non dice nulla sulla qualità del

problema. Quest’attenzione esclusiva all'aspetto della “soluzione” ignora

quello dell’”impostazione del problema”, che è il processo attraverso cui

selezioniamo le scelte e definiamo le decisioni da prendere. L'impostazione

del problema è un processo, attraverso il quale, in modo interattivo,

designiamo gli oggetti, di cui ci occupiamo nell'indagine. Nella pratica

quotidiana, infatti, i problemi non si presentano quasi mai come dati,

devono essere pensati, costruiti, elaborati.

In tal senso, il modello della razionalità tecnica appare incompleto, perché

non sa spiegare la competenza pratica, se non come un’applicazione della

conoscenza, ma non c'è nulla che ci induca a pensare che il conoscere

consista in regole definite che abbiamo nella mente prima dell'azione.

L'azione intelligente, secondo Schön è guidata da due fattori fondamentali:

la "conoscenza-nell'azione" e la "riflessione-nell'azione". La prima si

manifesta in quelle azioni intelligenti che richiedono una certa abilità,

come ad esempio condurre un veicolo. In casi come questo la conoscenza

è intrinseca all'azione, è incorporata in essa. Si rivela tramite l'esecuzione

Page 72: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  71

spontanea e sapiente di un atto, ed è difficile da verbalizzare. Si tratta di

schemi d'azione, cosiddetti “script” che guidano i nostri gesti intelligenti.

Accade anche, però, che la routine produca risultati imprevisti, causando

errori che resistono alle correzioni, oppure, più semplicemente, capita di

osservare in modo diverso le proprie azioni. Di fronte a queste esperienze

uniche, che contengono elementi di sorpresa, il professionista può

ignorare gli elementi perturbatori e proseguire sulla propria strada, oppure

può riflettere su quanto sta accadendo.

Egli può, cioè, “fermarsi e pensare”, separando l'azione dalla riflessione,

oppure “riflettere nel corso dell'azione”, determinando un cambiamento di

quest'ultima durante l’esecuzione. A questo proposito, Schön propone

un’epistemologia della pratica, centrata sull’idea di riflessione nel corso

dell’azione, che pone lo scambio immediato, la non-separazione, tra

ricerca e pratica.

“[…] Sia la gente comune sia i professionisti spesso riflettono su

ciò che fanno, spesso perfino mentre lo fanno. Stimolati dalla

sorpresa, tornano a riflettere sull’azione e sul conoscere

implicito nell’azione. […] C’è qualche fenomeno enigmatico,

problematico o interessante che l’individuo sta cercando di

affrontare. Quando egli cerca di coglierne il senso, riflette

anche sulle comprensioni implicite nella sua azione, che fa

emergere, critica, ristruttura, e incorpora nell’azione

successiva.”95

La prestazione del professionista si presenta alla stregua di una

performance artistica, in quanto opera una gestione selettiva e creativa di

una grande quantità di informazioni, è capace di costruire lunghe

sequenze di deduzioni, impiega diversi modi di osservare e di immaginare

le cose simultaneamente senza interrompere il flusso dell'indagine.

Schön paragona questa condotta all’improvvisazione dei musicisti jazz.

                                                                                                               95  Ivi, p. 76.  

Page 73: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  72

Questi, mescolando abilmente strutture acquisite con riflessioni

nell’azione, rispondono in tempo reale alle sorprese lanciate dagli altri

musicisti fino a comporre nuovi brani musicali.

La riflessione nel corso dell’azione assume la forma di una “conversazione

riflessiva” con la situazione, nel corso della quale il professionista opera

alternando di continuo pensiero e azione.

“Egli modella la situazione in conformità con il proprio iniziale

apprezzamento di essa, la situazione ‘replica’, ed egli risponde

alla replica impertinente della situazione. In un valido processo

progettuale, tale conversazione con la situazione è riflessiva. In

risposta alla replica della situazione il progettista riflette nel

corso dell’azione sulla costruzione del problema, sulle strategie

d’azione, o sul modello dei fenomeni impliciti nelle sue azioni.”96

Lo strumento principale che il professionista utilizza in questa

conversazione con la realtà è la “metafora generativa”, il “vedere come”.

La strategia consiste nel vedere la situazione come qualcosa che è già

presente nel suo repertorio di conoscenze e di esperienze, senza per

questo includerla in una categoria già nota. Anzi, è proprio la capacità di

“vedere come” che permette di trattare quei casi unici, che mal si

adattano a regole predefinite. Si tratta, in qualche modo di una funzione

narrativa che permette di connettere l’esperienza passata alla situazione

presente per progettare il futuro. Non è una relazione rigida,

deterministica; per la sua natura fluida, ha più a che vedere con

l’intuizione, con esiti di riflessioni su similarità percepite. Ad esempio, per

capire perché le setole naturali dipingono meglio delle artificiali, i

ricercatori hanno cominciato a pensare al funzionamento di una pompa.

Un altro aspetto chiave del modello di Schön è l’importanza che assegna

alla componente soggettiva che interviene nella costruzione dei problemi,

                                                                                                               96 Ivi, p. 103  

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  73

che devono essere solubili prima nelle scelte in fase di progettazione e poi

nella realizzazione delle decisioni assunte.

Spesso, l’attenzione esclusiva all'aspetto della "soluzione" porta ad

ignorare l'aspetto della "impostazione del problema", che è il processo

attraverso cui definiamo la decisione da prendere. Nella pratica i problemi

non si presentano come dati, devono essere costruiti. Un professionista

per trasformare una situazione problematica in un problema compie un

lavoro riflessivo.

Quando i fini sono definiti e chiari può bastare la concezione della pratica

secondo la razionalità tecnica, che suggerisce di scegliere i fini più

adeguati; spesso, invece, i fini non sono chiari, oppure non c'è nemmeno il

problema davanti e bisogna costruirlo.

Inoltre, il filosofo mette in luce l’aspetto politico delle scelte, che non

possono essere legittimate dalla razionalità tecnica. Occorre, altresì,

riconoscere che, sebbene la soluzione del problema sia tecnica, la sua

impostazione non è della tecnica ma di altra natura, al di fuori dal modello

della razionalità tecnica. È mistificante, infatti, invocare motivazioni

tecniche per decisioni che sono di natura politica. In questo senso, il

professionista non dovrebbe restare ai margini delle scelte sociali, né

essere costretto a usare il proprio sapere per sostenere determinate scelte

politiche, che spesso si rivelano incongruenti con la realtà dei fatti. Al

contrario, la partecipazione al confronto politico in termini di co-

progettazione può favorire l’assunzione delle proprie responsabilità,

consentendo ai professionisti di agire come attori autonomi nel contesto

sociale. Si pensi alla necessità di tali prerogative da parte di chi opera

nelle aree educative e sociali, in cui le decisioni che vengono prese nelle

situazioni problematiche incidono profondamente sulla vita di vasti gruppi

di persone. Ad esempio, negli interventi rivolti a prevenire la dispersione

scolastica, nell’accoglienza degli stranieri, nel sostegno famigliare nei casi

di grave disagio, nelle politiche sull’affido, etc.. Tutte quelle situazioni,

insomma, nelle quali le modalità di partecipazione al confronto sono assai

diverse nei casi in cui prevalga il modello della razionalità tecnica, oppure

Page 75: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  74

la riflessione nell’azione.

“Nel primo modello il mondo comportamentale - quello

dell'interazione interpersonale sperimentata - tende ad essere

tale che o si vince o si perde. I partecipanti agiscono in modo

difensivo [...] Le attribuzioni ad altri tendono ad essere

verificate in privato [...] le attribuzioni tendono a divenire

impenetrabili - l'individuo non può disporre dei dati che le

confuterebbero e gli individui tendono ad adottare strategie

basate sul mistero e la maestria, cercando di dominare la

situazione mantenendo misteriosi i propri pensieri e sentimenti.

Nel secondo modello le parti [...] sono assai poco difensive e

[sono] aperte all'apprendimento. [...] Le discussioni tendono

allora a essere aperte all'esplorazione reciproca di idee che

comportano dei rischi, ed è probabile che le assunzioni siano

sottoposte a controllo pubblico. [...] Tendono a essere messi in

moto dei cicli di apprendimento, non solo con riferimento ai

mezzi necessari per raggiungere gli obiettivi ma anche con

riferimento alla desiderabilità degli obiettivi.”97

La “conversazione riflessiva” con la situazione, la “metafora generativa” e

la “partecipazione al confronto” si possono annoverare come tecniche

all’interno di un metodo riflessivo – narrativo, la cui efficacia nell’ambito

dell’autoformazione risiede, anche e soprattutto, in un rigore che risulta al

tempo stesso simile e differente al rigore della ricerca accademica.

I valori di controllo e obiettività centrali nel modello della razionalità

tecnica assumono nuovi significati all'interno del modello della riflessione

durante l'azione: la conoscenza è rigorosa nel senso che può scoprire di

essere smentita perché non ha realizzato cambiamenti soddisfacenti. In

questa prospettiva il professionista mira a trasformare la situazione, ma

non deve ignorare la resistenza al cambiamento che oppone la situazione

                                                                                                               97 Ivi, p. 239 – 240.

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  75

stessa, altrimenti tutto si riduce ad essere l'autorealizzazione di una

profezia. Egli sperimenta in modo rigoroso quando si sforza di rendere la

situazione conforme alla propria visione di essa, allo stesso tempo

rimanendo aperto alla dimostrazione del fallimento del proprio tentativo.

L'abilità di costruire mondi virtuali è componente cruciale per sperimentare

in modo rigoroso, perché qui il professionista può gestire alcuni dei vincoli

relativi all'esperimento di verifica delle ipotesi, dando, però la priorità

all'interesse per la trasformazione, quindi all'affermazione dell'ipotesi,

piuttosto che alla sua negazione.

La modalità di costruire e decostruire la situazione, di leggerla attingendo

anche dal proprio repertorio di casi simili, di usare un rigore metodologico

pur nella fluidità della riflessione nell’azione, richiama quanto afferma

Bruner riguardo il racconto giudiziario e ci riporta inevitabilmente

nell’ambito della narrazione.98

Come le situazioni problematiche che il professionista riflessivo di Schön

affronta, anche i racconti giudiziari comportano un confronto fra ciò che ci

si attende di norma e quanto è effettivamente accaduto. La difformità fra i

due elementi viene poi giudicata tramite criteri che si riferiscono agli

statuti e ai precedenti casi. Nel proporre un’interpretazione, chi narra un

racconto giudiziario si richiama principalmente alla somiglianza fra la sua

interpretazione dei fatti nel caso presente e le interpretazioni in casi del

passato che secondo lui si assomigliano. Attinge, quindi, dal proprio

repertorio di conoscenze.

Il rapporto col sapere in termini di problematica interrogativa implica,

quindi, la capacità di incrementare il proprio repertorio di esperienze

professionali anche attraverso la narrazione. Perché, per rievocare i casi di

cui ci siamo occupati nel passato occorre che in qualche modo siano stati

raccontati i fatti rilevanti che ne hanno determinato la loro unicità, e

rielaborati per coglierne le affinità con le situazioni presenti. Come già

affermato nel primo capitolo dedicato alla lezione di Bruner, nel momento

stesso in cui la raccontiamo, noi interpretiamo la realtà e la organizziamo

                                                                                                               98 Cfr. Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit..

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  76

per dare senso e significato al rapporto col mondo attraverso la

costruzione di continue “metafore generatrici”. La stessa “partecipazione

al confronto” può dar luogo a un processo di scambio di significati, che ci

consente di aderire ad una comunità attraverso l’esplorazione reciproca di

idee e di innescare “cicli di apprendimento” virtuosi per mezzo della co-

progettazione.

3.5 L’importanza del contesto nell’autoformazione

Altra condizione indispensabile per declinare il paradigma

dell’autoformazione è la centralità che assume il “contesto” nei processi di

apprendimento.

Abbiamo visto come l’apprendimento “adulto” si realizza in prevalenza

come pratica cognitiva di tipo riflessivo e non come mera acquisizione di

conoscenze, e come sia determinante l’integrazione tra dimensione

individuale, collettiva e sociale dell’apprendere. L’epistemologia della

conoscenza centrata sull’individuo, sul rapporto mente-corpo, lascia il

campo ad una epistemologia data dalla relazione della persona con il

mondo, spostando così l’attenzione verso le conoscenze relazionali come

forme di apprendimento situato.

Le conoscenze si acquisiscono sia in modo intenzionale ed esplicito sia in

modo tacito e implicito, e influenzano non solo i criteri e la capacità di

apprendere, ma anche le rappresentazioni interne e i propri sistemi di

credenze. Ci torna ancora utile, a questo riguardo, la lezione di Bruner,

secondo il quale

“[…] la conoscenza di una persona non ha sede esclusivamente

nella sua mente, bensì anche negli appunti che prendiamo e

consultiamo sui nostri notes, nei libri con brani sottolineati che

sono nei nostri scaffali, nei manuali che abbiamo imparato a

consultare nelle fonti di informazione che abbiamo caricato sul

computer, negli amici che si possono rintracciare per chiedere

un riferimento o un’informazione, e così via all’infinito [...]

Page 78: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  77

Giungere a conoscere qualcosa in questo senso è un’azione sia

situata sia distribuita. Trascurare questa natura situazionale e

distribuita della conoscenza e del conoscere significa perdere di

vista non soltanto la natura culturale della conoscenza, ma

anche la natura culturale del processo di acquisizione della

conoscenza.” 99

Un altro fondamentale apporto a questo approccio socioculturale viene da

Lev Vygotsky, 100 per il quale l’apprendimento ha una natura

specificamente sociale, in quanto l’interazione avviene attraverso

strumenti e segni, prodotti di una cultura, che mediano l’azione del

soggetto sulla realtà. La modalità attraverso la quale l’interazione sociale

determina lo sviluppo agisce su quella che lo psicologo russo definisce

“zona di sviluppo prossimale”: la distanza, cioè, tra il livello effettivo di

sviluppo e il livello di sviluppo potenziale che può essere raggiunto con

l’aiuto di altri, adulti, esperti o pari grado con un livello di competenza

maggiore. Il contesto della relazione assume anche qui una fondamentale

rilevanza.

Pur avendo già altre volte intercettato il concetto di contesto nel corso

della tesi, è importante soffermarsi a riflettere sull’origine e lo sviluppo del

suo significato per comprenderne meglio il ruolo nel processo formativo.

Solitamente s’intende per “contesto” l’insieme degli elementi che

concorrono alla definizione del significato di una parola o di un enunciato.

Il significato di una parola, sostiene Frege, 101 non va considerato

spiegando quella parola, ma considerandola nel contesto di un enunciato.

In seguito Searle, con la sua “teoria degli atti linguistici”,102 ci avverte che

                                                                                                               99 Bruner J.S., La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 104-105. 100 Cfr. Vygotsky L., Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze, 2002. 101 Cfr. Frege G., Logica ed aritmetica, Boringhieri, Torino, 1965. 102 Tale teoria è basata sul presupposto che con un enunciato non solo si descrive un contenuto, ma si compiono delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo. L’autore, a riguardo, presenta 5 tipi di illocuzioni (atti linguistici): assertive, direttive, commissive, espressive e dichiarative. Cfr. Searle J., Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino 1976.

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  78

l’effetto di un enunciato è diverso a seconda del contesto in cui viene

espresso.

Si tratta, quindi, di un concetto linguistico, ma che ha assunto man mano

significati anche psicologici e culturali, che hanno in comune il rilievo dato

all’esperienza socio-relazionale dell’individuo. Il significato di “contesto” si

allarga ad una visione sistemica della realtà con le proposizioni di

Maturana e Varela,103 e di Bateson.104 Con i primi, la definizione di sistema

vivente come autopoietico ci permette di superare la dicotomia sistema

aperto - sistema chiuso e l’illusione del controllo. Per i due autori, infatti, i

sistemi autopoietici sono chiusi, autonomi, e con una propria identità dal

punto di vista dell’organizzazione, in quanto si autoproducono e non sono

caratterizzati da rapporti ‘input-output’; e sono anche sistemi aperti,

dipendenti dall’esterno, in quanto il loro comportamento è influenzato

dalle perturbazioni dell’ambiente, che non determina, però, la loro

identità. La chiusura organizzazionale del sistema, che corrisponde al suo

dominio cognitivo, stabilisce l’ambito delle interazioni possibili e determina

il significato da attribuire agli stimoli esterni rispetto alla sua evoluzione.

Bateson, a sua volta, rovescia la prospettiva del modello di interpretazione

tradizionale di tipo lineare e deterministico, e propone una visione

altrettanto sistemica, che non separa gli effetti dei sistemi nella loro

interazione, ma ne coglie le connessioni degli elementi presenti in un

contesto: la “struttura che connette” è, per l’autore, la condizione che

determina il significato dei fenomeni.

Da questo punto di vista, possiamo affermare che ogni elemento

denotativo del processo d’apprendimento acquista senso all’interno degli

scambi relazionali, che concorrono a dare significato ai contesti di vita.

L’autoformazione si presenta, quindi, come un tessuto di relazioni

dinamiche che riveste l’esperienza di vita della persona, e gli

apprendimenti formali e informali ne rappresentano il filo doppio della

trama. Acquista, inoltre, connotazioni più ampie e fluide la stessa relazione                                                                                                                103 Maturana H.R., Varela F.J., L’albero della conoscenza, op. cit.. 104 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit..  

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  79

tra chi educa e chi apprende, in quanto appartenenti alla stessa storia, alla

stessa “struttura che connette” e dà significato a parole e cose, a gesti e

azioni.

In questa prospettiva, è interessante analizzare due proposte

metodologiche che possiamo considerare affini all’ambito

dell’autoformazione, in cui il contesto assume quelle connotazioni

sistemiche, che fin qui abbiamo analizzato, e la narrazione si rivela una

dimensione determinante della relazione educativa e dei processi di

apprendimento.

3.6 Prima proposta metodologica: l’apprendimento situato e le

comunità di pratica

La prima proposta si riferisce alle cosiddette “comunità di pratica”. Si

tratta di un costrutto sviluppato intorno agli anni Novanta negli Stati Uniti

da Jean Lave e Etienne Wenger.105 I due antropologi sostengono che

l’apprendimento non deve essere considerato come indotto

dall’insegnamento, mera acquisizione passiva di nozioni, quanto, piuttosto,

come un processo di natura attiva, contraddistinto dalla partecipazione e

dal coinvolgimento dei soggetti all’interno di un determinato contesto

sociale d’azione.

L’apprendimento, quindi, non è una costruzione esclusivamente

individuale e mentale ma una pratica sociale e collettiva, in cui le

dinamiche cognitive sono strettamente connesse a quelle sociali.

È importante porre l’accento sulla forte correlazione che questa

concezione implica tra apprendimento e identità, in quanto

l’apprendimento consiste, in buona sostanza, nell’imparare ad essere e ad

agire come membro della comunità. Acquisire nuove capacità di operare

nel mondo coincide con il modificare la propria identità e i propri modelli di

comportamento.

Tale approccio, nato dall’intenzione di recuperare il concetto di

                                                                                                               105 Cfr. Lave J., Wenger E., L’apprendimento situato. Dall'osservazione alla partecipazione attiva nei contesti sociali, Erickson, Milano 2006.

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“apprendistato” per definirlo in modo più rigoroso, fa riferimento alla

cosiddetta teoria dell’“apprendimento situato”. Tale modello enfatizza

la “dimensione tacita, narrativa e situata” dei processi relazionali, che

danno vita all’apprendimento organizzativo come processo costruttivo,

sociale e contestualizzato.

La pratica, ossia il fare in un determinato contesto che struttura e dà

senso all’agire stesso, e la comunità, come la dimensione sociale e

relazionale che determina quel contesto di apprendimento situato,

connettono l’esperienza della persona alla cultura storica, materiale e

sociale di appartenenza.

Tre sono gli elementi che vincolano una comunità di pratica:

- “l’impegno reciproco” tra i membri, legati tra loro da una identità comune

e da rapporti di fiducia all’interno di una determinata struttura sociale;

- “l’intrapresa comune”, che implica la responsabilità condivisa e negoziata

nei suoi diversi aspetti;

- “il repertorio condiviso” di artefatti, strumenti, routine, storie, linguaggi,

credenze e valori che costituiscono la memoria storica della comunità.

L’insieme di relazioni in evoluzione e la continua negoziazione del

significato danno luogo ad una co-produzione di senso in perenne

trasformazione, che influenza e contribuisce ad un’integrazione delle

competenze tra i membri della comunità.

La negoziazione avviene attraverso due processi complementari e

convergenti:

- “la partecipazione”, che comporta un coinvolgimento attivo e

un’appartenenza come identificazione;

- “la reificazione” dei significati negoziati in artefatti, attorno ai quali viene

pianificata la rinegoziazione in vista della produzione di nuovi significati ed

il coordinamento delle azioni future.

Possiamo interpretare tali pratiche come ”storie di apprendimento

condivise”, giacché la concreta realizzazione delle attività implica una

continua rimodulazione delle conoscenze codificate attraverso uno

scambio e un confronto reciproco tra i membri.

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Una comunità di pratiche si presenta come un sistema autopoietico

aperto-chiuso, essendo il processo di apprendimento connesso anche ai

confini che la delimitano, attraverso i quali si stabiliscono i contatti con

altre comunità e con la complessità dell’ambiente esterno. Non sono

confini di tipo istituzionale, sono piuttosto tracciati in base al grado di

appartenenza dei membri a determinate pratiche. Proprio la loro flessibilità

e permeabilità garantiscono sviluppo e condivisione in sinergia con altre

comunità, sia per le connessioni attuate attraverso gli artefatti, le

tecnologie, i documenti, sia per le connessioni stabilite tramite la

partecipazione di persone che ricoprono il ruolo di intermediari, il cui

compito è quello di trasferire elementi di una pratica da una comunità ad

un’altra.

All’interno della comunità, l’apprendimento è un’attività situata,

caratterizzata da un processo che gli autori denominano “legitimate

peripheral partecipation” (LPP), per mezzo del quale i nuovi arrivati

possono acquisire quel repertorio condiviso di conoscenze e competenze

necessarie per raggiungere una partecipazione piena alle pratiche

socioculturali della comunità e integrarsi gradualmente in essa. Con la LLP

si definisce il “curriculum di apprendimento”, l’insieme delle opportunità

situate per lo sviluppo di una nuova pratica, complementare al curriculum

di insegnamento, organizzato per l’istruzione dei nuovi membri.

La partecipazione a una comunità significa anche imparare il suo

linguaggio, per mezzo del quale apprendere la pratica nelle conversazioni

e nel racconto di storie riguardanti casi particolari o emblematici della

pratica quotidiana. Secondo gli autori, infatti, apprendere una pratica solo

attraverso l’osservazione e l’imitazione comporta il rischio di

un’associazione troppo stretta tra processi lavorativi e di apprendimento,

che limita l’acquisizione di competenze.

Una delle chiavi della LLP è imparare il “parlare della comunità”, che gli

autori intendono in due sensi: il parlare di storie, racconti di casi, tradizioni

della comunità e il parlare all’interno di una pratica per scambiare

informazioni utili per la pratica in corso. Da una parte, quindi, la

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narrazione, dall’altra ancora, una riflessività nell’azione: due modalità

complementari che insieme contribuiscono al cambiamento dell’identità dei

soggetti attraverso la relazione, e concorrono allo sviluppo ed alla

riproduzione sociale di una comunità.

3.7 Seconda proposta metodologica: lo sfondo integratore

La seconda proposta metodologica è quella dello “sfondo integratore”,106

formalizzata all’inizio degli anni ’80, all’interno de gruppo di ricerca legato

alla cattedra di Pedagogia speciale dell’Università di Bologna. Si colloca

nell’ambito della Pedagogia istituzionale, così com’è stata interpretata in

Italia da Andrea Canevaro. Accanto ad altri strumenti organizzatori del

lavoro educativo-didattico, lo “sfondo integratore” costituisce la possibilità

di porre in atto un “sistema di mediatori” in grado di favorire un contesto

complesso di apprendimento coevolutivo. Si tratta di una metodologia

pensata per favorire un reale processo d’integrazione dei soggetti disabili,

a partire dalla valorizzazione della diversità.

L'ipotesi si è, poi, ampliata in una progettualità più ampia di integrazione

di competenze diverse, di professionalità, di linguaggi, di strumenti e di

percorsi.

Attraverso lo strumento dello “sfondo integratore” s’intende favorire

l'integrazione dell’evento casuale, dell’imprevisto, dell’emergente non

preventivabile in anticipo, trasformandolo in nuovi “nuclei progettuali”

connessi in modo organico, proprio attraverso lo sfondo, ai percorsi

originariamente progettati. In quest’ottica, si ritiene possibile e

vantaggiosa un’interpretazione che ne configuri l’attualità anche oltre

l’approccio educativo previsto per l’età evolutiva. Lo “sfondo integratore”

agisce, in primo luogo, a livello di meta-apprendimenti, sostenendo lo

sviluppo di “strategie di apprendimento costruttive”, in cui i diversi

elementi vengono utilizzati per costruire un'immagine complessa,

scomponibile e ricomponibile secondo il soggetto, il contesto e gli scopi.

                                                                                                               106 Cfr. Canevaro A., Lippi G., Zanelli P., Una scuola uno sfondo. Sfondo integratore, organizzazione didattica e complessità, Nicola Milano Editore, Bologna 1988.

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È sulla dialettica “figura/sfondo” che si fonda la strategia formativa di

questa metodologia. Il riferimento proviene dalla Psicologia della

Gestalt. 107 La riflessione di Paolo Zanelli ci aiuta a comprenderne il

significato.

“L’integrazione personale viene messa in crisi ogni qualvolta si

ha un mutamento così radicale e improvviso dello sfondo tale

da rendere inutilizzabili i valori e le abilità che prima erano

sufficienti a rendere possibile e significativa l’esistenza.

L’unica modalità veramente produttiva di superare la ‘situazione

estrema’, cioè, nei termini da me usati, lo sconvolgimento dei

rapporti figura/sfondo, è una ristrutturazione globale della

propria personalità. Ciò è possibile ponendosi dal punto di

visata di una ‘Gestalt’ più ampia di quella disfunzionale, che ha

provocato la disgregazione. In questo senso, le ‘situazioni

estreme’, i mutamenti improvvisi e sostanziali dello sfondo,

possono costituire una provocazione verso gradi di integrazione

maggiore”.108

Quindi, avvalersi anche nei processi formativi della dialettica

“figura/sfondo” significa riconoscere che il senso delle nostre azioni è

sempre riferito ad un contesto, e adoperarsi per la costruzione di quella

particolare organizzazione contestuale, lo sfondo, appunto, che consenta

la percezione di una “connessione evolutiva” fra i vari momenti della

nostra esperienza.

Lo sfondo, come afferma Paolo Zanelli, si rifà anche al concetto di

“holding”, “contenimento”, proposto da Winnicott per descrivere l’offerta

di risorse ambientali che, a partire dal rapporto con la madre, sono

indispensabili allo sviluppo emotivo del bambino.109

                                                                                                               107 Cfr. nota n. 59 p. 46 108 Zanelli P., Uno ‘Sfondo’ per integrare, Cappelli Editore, Bologna 1986, p. 26. 109 Cfr. Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1970.

Page 85: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  84

In seguito, assumerà le forme e i modi dell’intervento educativo, in quanto

favorisce le tendenze che sono all’opera nell’individuo stesso,

conducendolo verso il suo sviluppo.

Canevaro propone una doppia accezione di sfondo, utile riferimento per la

progettazione dei contesti di apprendimento, per l’attenzione che viene

posta sia agli elementi denotativi, sia agli elementi connotativi.

Lo sfondo integratore, infatti, è da intendersi, da una parte, come una

struttura di connessione istituzionale, cioè una particolare organizzazione

di tempi, spazi, mediazioni, regole e comunicazioni, che devono favorire

l'autonoma organizzazione dei soggetti coinvolti; dall'altra, come una

struttura di connessione narrativa, corrispondente all'insieme di

connotazioni, di significati, di pratiche condivise; una vera e propria

narrazione, ideata nel corso dell’azione, che connette nel tempo elementi

diversi delle esperienze vissute dal gruppo.

“Sfondo istituzionale” e “struttura di connessione narrativa” non sono

tipologie diverse di sfondo, al contrario, è necessario che entrambi

coesistano per garantire un sempre maggior livello d’integrazione, di

abilità e di competenze.

L’azione educativa richiede, allora, una continua opera di progettazione

che miri a costituire le condizioni istituzionali perché sia possibile

un'effettiva coevoluzione delle diverse identità del gruppo. È, inoltre, un

impegno attivo di co-costruzione, secondo modalità rigorose e una

costante verifica del feed-back.

All’interno delle attività, imparare e sbagliare sono condizioni

dell’apprendere, in quanto la sospensione del giudizio, il valore dato alla

sperimentazione e alla ricerca, l’aiuto reciproco e il tutoring consentono di

scegliere, sperimentare e scambiare modalità e stili cognitivi diversi. Ciò si

traduce in una maggiore capacità di percorsi non lineari, che facilitano

l'acquisizione di strategie costruttive di apprendimento. In particolare, le

connessioni e gli intrecci che si creano tra e nelle diverse situazioni

consentono il coordinamento fra le singole abilità e lo sviluppo di meta-

apprendimenti.

Page 86: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  85

Giampietro Lippi propone tre diverse definizioni dello “sfondo integratore”,

utili da analizzare per l’attualità dei riferimenti a modelli cognitivi e

autoformativi.

Nel primo tentativo di definire lo “sfondo”, Lippi parte dalla differenza

sostanziale tra condizionamento ed educazione. Il condizionamento, che si

rifà al modello comportamentista, tende a produrre un addestramento che

impedisce al soggetto di discriminare in modo intenzionale e consapevole

tra gli elementi dell’ambiente. Al contrario, educare significa che ciascuno

sia in grado di compiere delle scelte, rapportarsi in modo attivo con il

reale, così da poter acquisire una propria identità. Lo stesso Alberto

Bandura,110 studioso neo-comportamentista che ha rivisitato il modello

classico del comportamentismo, sostiene che non si può considerare

l’ambiente come una forza autonoma che forma e controlla

automaticamente il comportamento. È vero, altresì, che il comportamento

produce in parte l’ambiente naturale e, di ritorno, l’ambiente naturale

influenza il comportamento. La sua teoria dell’”apprendimento sociale”

interpreta i progressi regolatori in termini di reciproco determinismo. Nella

vita di tutti i giorni, infatti, lo stesso evento può essere considerato uno

stimolo, una risposta o un rinforzo proveniente dall’ambiente, secondo il

posto nella sequenza da cui si fa cominciare l’analisi. Secondo tale teoria,

l’apprendimento è determinato da reciproche relazioni tra processi

regolatori dell’individuo, i suoi comportamenti e il suo ambiente di vita.

A partire da questi assunti Lippi fornisce una prima definizione di

“sfondo”:

“Lo sfondo è in una situazione pedagogico-didattica, uno

strumento mediatore fra il bambino e il suo apprendimento;

esso, cioè, è uno degli strumenti che un’agenzia educativa

formale di tipo democratico mette a disposizione del bambino

perché egli – senza eccessivi condizionamenti e/o

addestramenti – possa pervenire ad un apprendimento formale

                                                                                                               110 Cfr. Bandura A., L’apprentissage social, P. Mardaga, Bruxelles 1980.

Page 87: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  86

in un modo il più possibile autonomo e cooperativo, tramite un

sistematico processo evolutivo che lo aiuti a conseguire la

propria identità”.111

Se sostituiamo il termine bambino con quello di persona, possiamo

assegnare tale definizione anche all’ambito formativo, in quanto,

attualmente, nessuna professionalità si sviluppa unicamente in termini di

addestramento. Inoltre, tale definizione si avvicina a quella concezione

prevalente in autori sia europei che nordamericani, i quali, ispirandosi alle

tesi di Gramsci e di Freire, tendono ad identificare la formazione con

l’“educazione contro-egemonica”, cioè con un tipo di azione che, al tempo

stesso, produce cambiamenti strutturali e crea negli stessi soggetti valori

nuovi, aspettative diverse, identità significative e propensione alla

solidarietà. L’attenzione verso la dimensione interattiva e trasformativa dei

processi formativi dà risalto alla dimensione collettiva delle dinamiche. In

tal senso, la formazione, intesa soprattutto come permanente e continua,

è parte integrante dell’azione dei movimenti sociali che aspirano

all’emancipazione e al cambiamento in senso democratico.

Nel concepire una seconda definizione di sfondo, Lippi s’ispira alla

cosiddetta “Pedagogia Istituzionale”, che parte da una critica delle

istituzioni sociali, in quanto costruttive e immodificabili. La ricerca

pedagogica, ci avverte Lapassade, 112 distingue le “istituzioni esterne” alla

classe, di cui si occupa la sociologia dell’educazione, dalle “istituzioni

interne” che, nella classe, rispecchiano l’ambiente esterno: orari,

programmi, regole di lavoro. Così, mentre nella pedagogia tradizionale le

istituzioni si impongono come un sistema che non può essere messo in

discussione, nella Pedagogia Istituzionale, come afferma lo studioso, le

“istituzioni” sono considerate semplicemente dei “pezzi” la cui struttura

può essere modificata. L’insieme delle tecniche istituzionali che si possono

                                                                                                               111 Canevaro A., Lippi G., Zanelli P., Una scuola uno sfondo. Sfondo integratore, organizzazione didattica e complessità, op. cit., p. 69. 112 Cfr. Lapassade G., L’autogestione pedagogica / Ricerche istituzionali, Angeli Editore, Milano 1977.

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  87

utilizzare in una classe, come il lavoro in gruppi, la cooperativa, i

laboratori, e le “istituzioni interne” diventano strumenti, forme

dell’organizzazione del lavoro e degli scambi pedagogici, la cui struttura

può essere modificata. In tal senso, è dimostrato che i cambiamenti sono

accettati e realizzati meglio quando sono decisi dagli stessi interessati.

Assumere la prospettiva della dimensione istituzionale in campo formativo

chiarisce i significati di ciò che accade nell’esperienza di classi e gruppi. È

indicativo, dal punto di vista della riflessione, della ricerca di nuovi

paradigmi e della contaminazione tra saperi, il fatto che esistono profondi

legami fra tre “pratiche istituzionali”: la terapia, la pedagogia e l’analisi.

Tale ricerca partecipata, che assume i contributi di discipline diverse,

favorisce congruenza e specularità fra rapporti degli adulti e quelli dei

bambini. Entrambi, infatti, giocano un ruolo attivo all’interno dei processi

di apprendimento.

Per chi è chiamato a condurre percorsi orientati all’auto-formazione, ciò

significa assumere un punto di vista particolare su due fondamentali

questioni concernenti i processi di insegnamento/apprendimento:

l’”oggetto del controllo” e il “feedback”. Riguardo il primo, Lev N. Landa,113

psicopedagogista americano di origine sovietica, sostiene che, nonostante

il sistema di controllo sia l’insegnante e il sistema controllato lo studente,

quest’ultimo è simultaneamente un “soggetto” capace di agire di propria

iniziativa, di accettare o respingere gli obbiettivi dell’insegnante e di

svilupparne di propri. Chi apprende, insomma, è contemporaneamente un

soggetto controllato e autocontrollato, con una grande capacità di

“autoorganizzazione”. Posta in questi termini, la questione del controllo

porta con sé la necessità di un “feedback” continuo. Per questo motivo,

l’adulto educatore in rapporto ai bambini, come il formatore in rapporto al

gruppo è posizionato all’interno degli eventi, come osservatore

partecipante e non freddo.

                                                                                                               113 Cfr. Landa L. N., Regolazione e controllo nell'istruzione. Cibernetica, algoritmizzazione ed euristica nell'educazione, Giunti, Firenze 1985.  

Page 89: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  88

La disponibilità a modificarsi rappresenta una delle caratteristiche

fondamentali dello sfondo, la cui funzionalità è garantita dalla funzionalità

delle relazioni.

Nell’ultima definizione lo sfondo viene rapportato ed inserito nella

prospettiva della “Ricerca-Azione”. L’analisi dell’autore rivela, come

abbiamo in precedenza constatato per il modello di Schön, la necessità per

i ricercatori di attrezzarsi di metodologie di ricerca congruenti con una

società in continua trasformazione, sempre meno centrata e caratterizzata

da sistemi di valori divergenti. In particolare, la questione riguarda il come

si possa declinare la Ricerca-Azione, che nasce e si sviluppa in ambito

sociologico, nel campo dell’educazione. Anche la Ricerca-Azione mette in

campo capacità riflessivo-narrative indispensabili per una sua realizzazione

significativa ed efficace. Ciò si comprende dal fatto che il suo fondamento

procedurale consiste nella “discussione” tra i membri di un gruppo o di

un’istituzione. I suoi principali dispositivi, infatti, sono:

- la “chiarificazione” delle posizioni sia mediante l’utilizzazione critica

dei metodi di ricerca, degli strumenti di decodificazione e di

creatività, sia l’uso ottimale di informazioni esterne al gruppo;

- il “confronto” delle posizioni e “l’azione collettiva”.

La Ricerca-Azione si realizza, così, in tre momenti:

- il “lavoro preliminare”, in cui si definisce la base della collaborazione

in modo chiaro e preciso, e si identificano e definiscono i problemi

reali;

- la messa in atto dell’analisi”, in cui si individuano altri problemi oltre

a quelli considerati;

- l’”analisi” e la “strategia d’azione”, attraverso le quali si passa

dall’esperienza vissuta alla comprensione di tutto ciò che riguarda

l’azione sociale; ciò permette di raggiungere una specie di “verità

sociale provvisoria”, punto di partenza per elaborare nuove

strategie.

In questa prospettiva lo sfondo istituzionale è attuato da tutte le persone

coinvolte, che cercano di instaurare tra loro una “comunicazione

Page 90: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  89

simmetrica”, in modo da abolire la relazione “soggetti/oggetti”, che

solitamente si instaura tra chi insegna e chi apprende. Chi conduce

l’esperienza non persegue lo scopo che gli allievi producano dei risultati

riguardo determinate questioni, ma intende ottenere dei risultati insieme

agli allievi stessi.

Parlare di sfondo significa parlare di “struttura di connessione”, di quella

concezione batesoniana, alla quale ci siamo riferiti nel corso di questa tesi

anche per una particolare lettura del romanzo di formazione. Si tratta di

una struttura di connessione che si realizza sia a livello istituzionale, sia a

livello narrativo. Per gli ideatori della metodologia dello sfondo integratore

è attraverso l’uso del “fantastico” che si costruisce una trama narrativa,

intesa come insieme di significati condivisi e trasformabili che permettono

a più soggetti di riconoscersi parte di una storia comune.

3.8 La funzione del fantastico nell’autoformazione

Appartiene ad una delle ipotesi forti di questa tesi approfondire la

dimensione del “fantastico” e dell’”immaginario”, scoprire quale ruolo

giochi o possa giocare nella costruzione della propria identità, verificarne

le potenzialità per tentare di formulare significative ed efficaci proposte di

metodo. Utilizzeremo il significato dei termini “fantastico”, “immaginario”,

“magia” e “sacro” non come sinonimi, ma come appartenenti tutti a quella

dimensione psichica, che Winnicott definisce lo “spazio potenziale” tra

individuo e ambiente.

“Quando si considerano le vite degli esseri umani ci sono quelli

a cui piace di pensare superficialmente in termini di

comportamento ed in termini di riflessi condizionati e di

condizionamento; ciò porta a quella che viene chiamata terapia

del comportamento. Ma la maggior parte di noi si stanca di

limitarsi al comportamento o alla osservabile vita estrovertita

delle persone che, piaccia loro o no, sono motivate

dall'inconscio. Per contrasto, vi sono quelli che pongono

Page 91: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  90

l'accento sulla vita ‘interiore’, che pensano che gli effetti

dell'economia ed anche della stessa indigenza hanno ben poca

importanza in confronto con l'esperienza mistica. L'infinito per

quelli della seconda categoria è al centro del sé, mentre per i

behavioristi che pensano in termini di realtà esterna, infinito è il

raggiungere al di là della luna le stelle ed il principio e la fine

del tempo, tempo che non ha né una fine né un principio.

Io sto cercando di muovermi in mezzo a questi due estremi. Se

noi guardiamo alle nostre vite probabilmente scopriamo che noi

passiamo la maggior parte del nostro tempo né nell'agire né in

contemplazione, ma in qualche altro posto. Io chiedo: dove? E

cerco di suggerire una risposta.”114

Winnicott localizza questa importante area dell’esperienza, appunto, nello

spazio potenziale, che all’inizio unisce e separa al contempo il bambino e

la madre, allorché l’amore materno offre al bambino un senso di fiducia

verso l’ambiente esterno. Infatti, il bambino che ha potuto fare sufficiente

esperienza dell’attendibilità delle cure materne riempirà lo spazio fra sé e

la mamma attraverso un insieme di fenomeni transizionali, che gli

apriranno la via al simbolico e alla cultura. Perché questo spazio potenziale

si crei è necessario che il bambino subisca un processo di disillusione sulla

propria onnipotenza, cioè un progressivo riconoscimento della realtà

esterna nella sua oggettività. Ciò è reso possibile, secondo Winnicott,

dall’aver in precedenza sperimentato l’illusione dell’esistenza di una realtà

esterna corrispondente alla propria capacità di creare.

“Io ho introdotto i termini ‘oggetti transizionali’ e ‘fenomeni

transizionali’ per designare l’area intermedia di esperienza, tra il

dito e l’orsacchiotto, tra l’erotismo orale e il vero rapporto

                                                                                                               114 Winnicott D. W., Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 1974, p. 180.

Page 92: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  91

oggettuale [...] tra l’incapacità e la crescente capacità del

bambino di riconoscere e di accettare la realtà”115

“Quest’area intermedia di esperienza, di cui non ci si deve

chiedere se appartenga alla realtà interna o esterna (condivisa),

costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino, e per

tutta la vita viene mantenuta nella intensa esperienza che

appartiene alle arti, alla religione, al vivere immaginativo e al

lavoro creativo scientifico”.116

Quindi, con il termine “fantastico” possiamo intendere proprio quei

fenomeni che, con il loro carattere di ambiguità, si collocano al confine tra

il piano storico della realtà oggettiva e il piano astorico e temporale della

realtà interna. È necessario che tra questi due piani si instauri una

comunicazione dinamica, altrimenti l’annullamento della realtà esterna

condurrebbe la persona all’autismo, mentre la riduzione della realtà

psichica interna comporterebbe una completa oggettivazione dell’uomo.

Un esempio rappresentativo di questo rapporto è offerto ancora una volta

dalla narrativa. Nel romanzo La “Storia infinita” di Ende,117 l’incapacità di

venire a contatto con il mondo interno degli archetipi, rappresentato dal

mondo dei nomi di Fantàsia, dove ciò che è pronunciato è da sempre, è

causa di un impoverimento di senso per la vita dell’uomo privato delle sue

facoltà fantastiche. La morte della madre di Bastian, il protagonista della

storia, corrisponde alla malattia dell’Infanta imperatrice e al conseguente

rischio di distruzione del suo regno da parte del Nulla. Dall’altra parte, il

perdere contatto con la realtà conduce inevitabilmente all’autismo,

rappresentato dalla città degli imperatori, dove gli uomini si perdono per

sempre in una condizione senza storia e senza memoria. Bastian, offrendo

alla principessa il nome della madre scomparsa riuscirà alla fine a

ricongiungere il mondo della fantasia con quello reale, accettando, così, di

                                                                                                               115  Ivi, p. 24 – 26.  116 Ivi, p. 43. 117 Cfr. Ende M., La storia infinita, Salani, Firenze 2013, ed. or. 1979.

Page 93: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  92

affrontare la sua nuova esistenza ad un diverso livello di integrazione con

la realtà.

Secondo Bettelheim,118 l’uso del fantastico gioca un ruolo importante a

livello educativo, in quanto permette al bambino di rielaborare il proprio

mondo interno e di rassicurarsi sulla propria consistenza, e favorisce lo

sviluppo di un’intelligenza flessibile. In ogni età della vita dovremmo

essere capaci di cercare e trovare una pur modica quantità di significato

adeguata al modo in cui il nostro intelletto si è già sviluppato, perché il

significato della propria vita non viene raggiunto ad una particolare età,

nemmeno con la maturità. Al contrario, è l’acquisizione di una sicura

comprensione di ciò in cui potrebbe consistere tale significato a costituire

il raggiungimento della maturità psicologica. Per questo sono necessarie

molte esperienze di crescita.

Tra le esperienze più adatte a promuovere la capacità di trovare un

significato nella propria vita, Bettelheim annovera le fiabe. Queste, per lo

psicanalista austriaco, trasmettendo nello stesso tempo significati palesi e

velati, riescono a parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità

umana, comunicando in modo tale da raggiungere sia la mente ineducata

del bambino sia quella del sofisticato adulto. Le loro trame rivelano le

pressioni dell’Es, e suggeriscono indirettamente dei modi per soddisfare

quelle che sono in accordo con le richieste dell’Io e del Super-io.

“Per poter risolvere i problemi psicologici del processo di

crescita – superando delusioni narcisistiche, dilemmi edipici,

rivalità fraterne, riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili,

conseguendo il senso della propria individualità e del proprio

valore e quello di dovere morale – un b. deve comprendere

quanto avviene nella sua individualità cosciente in modo da

poter affrontare anche quanto accade nel suo inconscio. Egli

può giungere a questa conoscenza, e con essa alla capacità di

                                                                                                               118 Cfr. Bettelheim B., Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1977.

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affrontare se stesso, non attraverso una comprensione

razionale della natura e del contenuto del suo inconscio, ma

familiarizzandosi con esso, intessendo sogni ad occhi aperti:

meditando, rielaborando e fantasticando intorno ad adeguati

elementi narrativi in risposta a pressioni inconsce. Così facendo,

il b. adegua un contenuto inconscio a fantasie consce, che poi

gli permettono di prendere in considerazione tale contenuto. Le

fiabe offrono nuove dimensioni all’immaginazione del b.,

dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se

fosse lasciato completamente a se stesso. La forma e la

struttura delle fiabe suggeriscono al b. immagini per mezzo

delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e

con essi dare una migliore direzione alla propria vita.”119

Tale processo vale, ad altri livelli, anche per l’adulto. Lo stesso Bettelheim

descrive come nella medicina indù tradizionale si assegna ad una persona

psichicamente disorientata una fiaba che interpreta il suo particolare

problema. Meditando su di essa il paziente riesce a visualizzare la natura

delle sue difficoltà e la possibilità di superarle. Il contenuto della fiaba non

riguarda direttamente la vita del paziente, che, in tal caso, sarebbe indotto

a seguire un tipo di comportamento imposto. Proprio la natura non

realistica di questi racconti è l’espediente che permette di chiarire i

processi interiori della persona, in modo che il paziente, meditando sulle

implicazioni della storia nei suoi riguardi, trova da solo le proprie soluzioni.

Il fantastico, quindi, come ci suggeriscono Fonzi e Negro Sancipriano,120

può essere interpretato come uno strumento di “riassorbimento del

negativo”, che permette di rassicurarsi sulla propria consistenza per

tornare alla realtà con una maggior fiducia nelle proprie capacità di poterla

affrontare. Le autrici rilevano due leggi fondamentali del pensiero magico:

                                                                                                               119 Ivi, p. 12 – 13. 120 Cfr. Fonzi A., Negro Sancipriano E., Il mondo magico nel bambino, Einaudi, Torino 1979.

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  94

- la “commutabilità dei termini” dell’operazione magica, per cui tra i

medesimi non esiste un rapporto “significante-significato”. L’efficacia

magica consiste, appunto, nel commutare i due piani, cosicché operare

sull’uno implica operare sull’altro.

- la “giustapposizione dei termini”, per la quale non esiste alcuna

relazione obiettiva o causale tra due fenomeni presi in considerazione.

Il loro accostamento, determina delle nuove unità, che sono regolate

all’interno, non da rapporti spazio-temporali, bensì “partecipazionistici”.

È un criterio di concettualizzazione del reale che non si esaurisce con il

superamento dell’infanzia, ma costituisce una modalità di interazione con il

mondo propria anche dell’adulto.

Nell’ambito etnologico, Ernesto De Martino121 ha interpreto la permanenza

del magico nel mondo adulto come un elemento che permette di

“destorificare” la realtà, consentendo il passaggio dal “così” al “così come”,

dal piano storico, al piano metastorico, che riattualizza quella che lo

studioso definisce la “presenza al mondo”, in particolare per coloro che si

trovano sempre al di fuori della storia.

Per Gilbert Durand,122 allievo di Bachelard, l'immaginario è instauratore

della vita psichica nel suo insieme, partecipa dunque della conoscenza e

del sapere, siano formali o meno. Riprendendo la definizione di “mitema”,

coniata da Lévi Strauss, Durand propone una vasta e ambiziosa

cartografia dei fondamentali simboli che caratterizzano le culture

dell’umanità. Secondo questo studioso, i mitemi sono alla base non solo

delle creazioni artistiche e dell’elaborazione dei diversi stili, ma anche della

produzione di oggetti di uso corrente. I miti, infatti, grazie al loro

metalinguaggio, integrano e rendono presenti nella vita di tutti i giorni gli

elementi fondanti, eterni, sacri, gli archetipi dell’esistenza. Durand ha

ordinato i simboli fondamentali dell’umanità secondo due categorie:

                                                                                                               121 Cfr. De Martino E., Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 122 Cfr. Durand G., Le strutture antropologiche dell’immaginario, Edizioni Dedalo, Bari 1983.

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- la “distinzione” che riguarda il “regime diurno”, che ha come schema le

antitesi e i cui archetipi sono puro/impuro, chiaro/scuro;

- l’”unione” o la “confusione” che riguardano il “regime notturno” fondato

sullo schema della discesa e della penetrazione, i cui archetipi sono

profondità e intimità.

La “fantastica trascendentale” di Durand appare come una rifondazione

del metodo delle scienze sulla base del repertorio archetipo che ha da

sempre presieduto alla costruzione di ogni sapere, anche di quello

scientifico.

Nel corso degli anni Durand ha sviluppato una vera e propria

“epistemologia dell’immaginario”,123 secondo la quale, l’immaginario non è

un’oscura dimora di credenze illogiche o folli, ma una vera e propria

matrice delle rappresentazioni di una società. Alla luce della sua analisi, i

miti prometeici e faustiani di lotta contro le tenebre, di conquista e di

progresso della storia, che hanno caratterizzato il XX secolo, sono

tramontati. La nostra società postmoderna, dell’incertezza e del disincanto

è contraddistinta da un suo regime dell’immaginario, più “notturno”,

legato alla soggettività, all’intimità che, però, non deve per forza spingerci

a rifugiarsi in sé stessi. Un rapporto più dinamico tra gli aspetti

esperienziali e soggettivi con quelli più razionali e istituiti può consentirci,

altresì, di affrontare la pluralità e la molteplicità dell’esistente come nuove

opportunità, e ispirare la ricerca di equilibri diversi, tenendo in

considerazione gli impensati della coscienza, le dinamiche

dell’inconsapevolezza e del tacito.

Non ci deve, quindi, scoraggiare la sensazione di precarietà, né il timore

della mancanza di approdi sicuri. Può aiutarci a meglio comprendere

l’attuale condizione, e a rilanciare le nostre prospettive future, la metafora

che Bateson trae dalla ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, attraverso

                                                                                                               123 Durand G., L'immaginario: scienza e filosofia dell'immagine, Edizioni Red, Como 1996.

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la quale lo studioso illustra e chiarisce le sue ultime tesi riferite in

particolare all’idea di “sacro”.124

“Il poemetto narra di un vecchio Marinaio che intrattiene un

invitato ad una festa di nozze per raccontargli una sua

avventura. Il marinaio racconta di come la nave sulla quale

viaggiava, dopo aver attraversato l’Equatore, fu spinta da una

tempesta verso i ghiacci del Polo Sud. All’improvviso apparve

un albatro, accolto dall’equipaggio come presagio di buona

fortuna. Tuttavia, il marinaio uccide l’uccello senza motivo. Da

quel momento un maleficio viene gettato sulla nave che dopo

esser stata spinta da un vento favorevole verso l’Equatore, di

colpo si arresta in una calma mortale. I marinai a bordo stanno

morendo di sete, quando appare una nave fantasma con a

bordo la Morte e la Vita-nella Morte. I due si giocano ai dadi la

vita dell’equipaggio, la Morte vince i compagni del Marinaio, che

muoiono uno dopo l’altro. Lui sopravvive ma ossessionato dalla

visione dei marinai morti, si ritrova naufrago con l’albatro

appeso al collo. Ad un tratto scorge dei serpenti marini dai

colori splendenti che si agitano in mare. Mosso da un

improvviso sentimento d'amore, benedice le creature marine,

che sono segno di vita. Dio, impietosito dal gesto del marinaio,

stacca dal suo collo l’uccello che si inabissa, le stelle

ricominciano a muoversi e il vento a spirare. Durante la notte

un gruppo di spiriti angelici penetra nei corpi morti dei marinai,

che tornano a svolgere le proprie mansioni sulla nave. Mentre

questa procede sulla rotta, lo ‘spirito del polo sud’

improvvisamente cambia rotta facendo cadere il marinaio, che

perde i sensi, per ritrovarsi nel suo paese natale. L'uomo è

soccorso da un battello, in cui si trova un eremita, verso il quale

                                                                                                               124 Cfr. Bateson G., Bateson M.C., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 2002.

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il marinaio prova un forte desiderio di raccontare la sua

avventura. Una volta rivelato il suo vissuto, l'uomo si sente

sollevato dall'angoscia cui le vicende l'avevano condotto. Di

tanto in tanto però viene colto dallo sgomento e deve andare a

raccontare ad altri la sua storia, affinché tutti imparino, grazie

al suo esempio, ad amare e a rispettare ogni creatura di Dio”.

Bateson fa notare come la “salvezza”, di cui tratta il poemetto, nasce dal

fatto che la benedizione del marinaio agli esseri viventi sia sorta

improvvisamente, senza alcuna finalità; “senza sapere”, dice, infatti, il

marinaio.

“Oltre l'ombra della nave

Io spiavo i serpenti marini

[...]

Felici cose viventi! Lingua non c'è

Che possa dichiararne la bellezza!

Un'acqua d'amore mi fiottò nel cuore

E senza sapere le benedissi:

Certo il mio santo ebbe pietà di me,

Ed io le benedissi, senza sapere”125

È così che Bateson tenta di definire la sua idea di sacro, rapportandola

all’esperienza conoscitiva dell’uomo. Egli ritiene, infatti, che la “fede” sia

una precondizione del conoscere.126

“Se guardo attraverso i miei occhi corporei e vedo un’immagine

del sole che sorge, la validità delle proposizioni ‘guardo’ e ‘vedo’

è di genere diverso di quella di qualunque conclusione sul

                                                                                                               125 Coleridge S. T., La ballata del vecchio marinaio, Editore Clinamen, Firenze 2010. 126 La fede che intende Bateson non ha nulla a che fare con la fede religiosa. Si tratta, piuttosto, di una fede nel nostro processo mentale, e proprio per questo deve essere difesa. Tale fede in una mente sana, è involontaria e inconsapevole.

Page 99: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  98

mondo esterno alla mia pelle. ‘Vedo un sole che sorge’ è una

proposizione che in effetti, come sottolinea Cartesio, non può

essere messa in dubbio, ma l’estrapolazione da qui al mondo

esterno (‘C’è un sole’) non è mai certa e deve essere sostenuta

dalla fede”.127

Bateson ascrive il sacro a quell’aspetto metaforico che lo caratterizza e

connette con la danza delle parti interagenti. Il sacro acquista, così, un

significato ecologico, in quanto non cerca di consegnarci alcuna verità, al

contrario, amplia le possibilità della ricerca, fornendo una struttura e un

metodo alle domande.

“Si tratta di una ‘religione ecologica’, coerente con i principi

della cibernetica, della teoria dei sistemi, dell’ecologia e della

storia naturale”.128

Questa forma di religione richiede, due condizioni: non mettere limiti alla

propria hybris nel porre le domande e l’accettare con umiltà le risposte. Al

contrario, gran parte delle religioni dimostrano scarsa umiltà nell'accettare

le risposte, ma grande timore nel porre le domande. Accanto al “sacro

ecologico”, ci ricorda Manghi, 129 Bateson rivendica l'esistenza di

un'”ecologia del sacro”, che riguarda l'essere-in-relazione, in quanto il

punto di vista soggettivo non coinciderà mai con la totalità e mai riuscirà a

cogliere la Verità del Tutto.

Con la ballata del Vecchio Marinaio Bateson ci avverte che il processo di

guarigione, lo scampato naufragio, rischia di essere intralciato da ogni

conoscenza certa e previsione sicura dei possibili effetti. D'altronde,

afferma Bateson, se avessimo coscienza di tutti i nostri processi percettivi,

saremmo incapaci di reagire alle nostre stesse sensazioni. Nella nostra                                                                                                                127 Bateson G., Bateson M. C., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro,, op. cit., p. 148. 128 Ivi, p. 203 129 Cfr. Manghi S., Il gatto con le ali. Tre saggi per un'ecologia delle pratiche sociali, Asterios, Trieste 2000.

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  99

ricerca di significati è, allora, auspicabile mantenersi flessibili e aperti

anche agli effetti imprevedibili, perché limitare le nostre conoscenze e

abilità a ciò che abbiamo previsto non ci difende dagli imprevisti

dell’esistenza.

3.9 Identità, immaginazione e immaginario sociale

Solo sviluppando la nostra capacità d’immaginazione sarà possibile, allora,

fronteggiare l’incertezza degli scenari futuri delle nostre esistenze.

Un’immaginazione che, proprio perché appartenente alla nostra

costituzione neurobiologica, si alimenta di un immaginario potente,

specchio delle nostre emozioni, di ciò che suscita in noi piacere o

dispiacere. In questo senso, corriamo sempre il rischio che la forza delle

immagini trasformi i sentimenti in passioni fino ad annullare lo spirito

critico. L’immaginario, si sa, suscita un fascino irresistibile, che può

trascinare anche verso l’idolatria, il delirio politico o religioso.

Quelle che si definiscono rappresentazioni sociali derivano da diversi

ambiti: da immagini e ricordi personali così come da memorie collettive.

Originando da diversi contesti, pur implicandosi tra loro, assumono

differenti funzioni: a livello dell’individuo operano come immagini di

vissuti, di fantasmi; sul piano collettivo rispondono al nostro bisogno di

racconti e di miti, ma producono anche credenze, pregiudizi e stereotipi.

Sviluppandosi come costrutti mentali e contenuti dei pensieri nel rapporto

della coscienza con l’inconscio, rappresentano, quindi, l’interfaccia

dell’individuale con il sociale. Per questo motivo, determinate

rappresentazioni appaiono in un certo momento storico e in una data

società, nell’ambito di specifici contesti politici e culturali. Come

rappresentazioni sintetiche della scena sociale contribuiscono a modellare

le figure che in essa svolgono ruoli, a definirne le funzioni, a delinearne i

personaggi, coi quali ci identifichiamo e sui quali proiettiamo i nostri

atteggiamenti. In questo senso, regolano i processi cognitivi e gli stessi

prodotti della conoscenza. Infatti, è proprio mediante le rappresentazioni

Page 101: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  100

sociali che cogliamo i criteri di comprensione del mondo e il ruolo che in

esso vi svolgiamo.

L’immaginario nella società globalizzata è senz’altro amplificato dalle

nuove tecnologie informatiche con la loro capacità di generare esperienze

che travalicano il limite oggettivo tra gli eventi e i loro racconti. Secondo

Arjun Appadurai,130 la globalizzazione postmoderna più che omogeneizzare

le differenze, ingloba contesti locali in sfere sempre più ampie.

In questa prospettiva, l’immaginario attraverso la “transfrontalierità” delle

comunicazioni, genera flussi che si integrano nell’esperienza e nell’identità

degli individui.

A sostegno di questa tesi, lo studioso porta, tra gli altri, l’esempio dei

filippini, che ascoltano e imparano a memoria la musica pop americana

meglio degli americani stessi, nonostante la loro vita sia sganciata da ogni

referenzialità alla vita degli americani.

Sono le stesse dinamiche sociali che producono una “deterritorializzazione”

del locale, consentendo a migranti e rifugiati di reiventarlo nelle sfere

pubbliche e diasporiche in altre parti del mondo. Accade, così, che la

polverizzazione degli stati nazionali, unita ai flussi globali, genera

panorami caratterizzati da una “disgiunzione” tra immaginario e luogo di

vita, diventato un “deposito sincronico di scenari culturali”. Appadurai

definisce questo continuo processo di reinvenzione “nostalgia senza

memoria”. In questa formula efficace e assai evocativa, il sociologo

indiano include tutte quelle forme con le quali i media di massa e la

pubblicità inducono i consumatori a sentire la mancanza di cose che, in

realtà, non hanno mai perduto. Sono sensazioni di durata, passaggio e

perdita che riscrivono le storie di vita di persone, famiglie, gruppi etnici e

classi sociali attraverso, appunto, una nostalgia immaginata per cose ed

eventi mai accadute loro. In tal modo, s’inverte quella logica temporale

dell’immaginazione, mediante la quale immaginiamo quel che potrebbe

accaderci in futuro,

                                                                                                               130 Cfr. Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.

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  101

“creando desideri più profondi di quelli che potrebbero suscitare

la semplice invidia, l’imitazione o la cupidigia”.131

Tale sentimento fa il paio con quella “nostalgia per il presente”, che lo

rappresenta in forme di maniera come un passato che ritorna da un

immaginario futuro.

“Virgolettando il presente in questo modo particolare,

rendendolo così già oggetto di attenzione per la sua dimensione

storica, queste immagini collocano il consumatore in un

presente già periodizzato, preda quindi ancor più disponibile per

la rapidità della moda. Comprate oggi, non perché altrimenti

sarete fuori moda, ma perché presto lo sarà l’epoca in cui

vivete.”132

L’immaginazione, per Appadurai, non si può più considerare né come pura

fantasia, né come via di fuga dalla realtà, né come esclusivo passatempo

per èlites, né pura contemplazione. Essa è entrata a pieno diritto nella

logica del lavoro mentale quotidiano. È diventata un campo organizzato di

pratiche sociali, una forma di costruzione socio-culturale e in questo senso

anche e soprattutto di continua decostruzione.

3.10 Identità e individualizzazione nella postmodernità

Quella che possiamo considerare una virtualità incarnata dell’immaginario

sociale ci spinge ad accettare credenze e valori indotti, ad assumere ruoli

e comportamenti che rispondono più alla domanda di consenso, che al

bisogno di relazioni significative. Inoltre, ci avverte Lasch, 133 proprio

l’eccessiva liberalizzazione dei modelli culturali dominanti condiziona un

individualismo esasperato, un edonismo diffuso il cui primato è

l’ossessione per l’autorealizzazione. Quest’ultima, come risposta alla

                                                                                                               131 Ivi, p. 103 132 Ivi, p. 103 - 104 133 Cfr. Lasch C, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1995.

Page 103: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  102

perdita di un’identità collettiva, trasforma gli stili e i comportamenti della

vita quotidiana, anteponendo all’esigenza di dare senso e significato alle

nostre esistenze valori come il culto del corpo, il consumismo omologante

e la deresponsabilizzazione sociale.

Così Ehrenberg, in un testo dal titolo emblematico, “La fatica di essere se

stessi”, 134 descrive un individuo che, pur caratterizzato dalla propria

fragilità, è obbligato ad essere performativo, in una società che lascia a

ciascuno il compito di definire la propria vita. In un contesto in cui

l’individuo si ritrova schiacciato dalla necessità di mostrarsi sempre

all’altezza, la depressione diffusa si rivela come la contropartita che

ciascuno di noi è costretto a spendere per diventare se stesso. L’inibizione,

legata a quest’esperienza soggettiva di scacco nella realizzazione

personale e sociale, si costituisce come una modalità di vivere

incompatibile con l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi.

Il nuovo orientamento verso il privato e l’intimità non ha nulla a che

vedere con quell’individualismo che abbiamo descritto analizzando i

romanzi di formazione dell’ottocento. Quel “privato” aveva perso la sua

identità soggettiva per diventare oggetto condizionato del mercato e delle

istituzioni sociali. Attualmente, l’attenzione al privato si presenta, al

contrario, da un lato nel rifiuto di una socializzazione programmata,

dall’altro come pretesa di essere soggetto. L’impossibilità per il singolo

individuo di contrastare il “macro” sociale, lo costringe a difendersi nel

“micro”, nel tentativo di riconfigurare un nuovo approccio al mondo.

Questo nuovo cammino della “soggettività” si compie in un mondo

segnato da una dimensione di eccessi e di de-simbolizzazione.

La “società ipermoderna”, come la descrive M. Augé,135 caratterizzata da

una sovrabbondanza di eventi reali e virtuali, ci induce a consumare i

molteplici segni, messaggi e oggetti che circolano ogni giorno nel mondo.

Questa stessa sovrabbondanza potrebbe ispirarci nuovi significati,

                                                                                                               134 Cfr. Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999. 135 Cfr. Augé M., Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2005.

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  103

suggerirci associazioni differenti da quelle imposte dal mercato, dalle

mode, dai media. Da questo punto di vista l’”iper” può essere letto come

un dato che segnala un eccesso, ma anche come una prospettiva che va

al di là di norme e quadri di riferimento definiti.

Secondo Beck136 l’individualizzazione è la conseguenza di un processo di

abbandono delle grandi strutture della modernità, di

“detradizionalizzazione”. L’ipermodernità ci presenta un nuovo tipo di

individuo, che è sì più libero e autonomo, ma anche più solo, proprio

perché libero da quei vincoli di appartenenza famigliare, comunitaria, di

classe, tramite i quali declinava le sue scelte, ricavava e incrementava le

proprie risorse, costruiva la sua storia e la sua identità. Una volta sciolto

da tali legami, la sua vita dipende sempre più dalle proprie scelte e

decisioni, in un contesto dove prevedere diventa sempre più difficile. Ma

proprio la grande complessità delle interazioni sociali, della

frammentazione delle responsabilità e delle situazioni, gli impedisce di

essere realmente protagonista della scena sociale, di valutare l’efficacia, il

valore e le conseguenze delle sue azioni.

L’individualizzazione può essere interpretata secondo diversi orientamenti.

Come ci suggeriscono Benasayag e Schmit:

“La questione è sapere se, considerando l’insieme delle persone

che compongono una società, la somma delle loro singole

‘risultanti’ determini, come pretende l’ideologia utilitarista, una

serie di esseri isolati gli uni dagli altri che intrecciano tra loro

relazioni di tipo contrattuale e utilitaristico. O se invece tale

insieme risulti costituito da individui che, come isole nel mare,

sono sicuramente irrimediabilmente isolati, anche se a ben

vedere queste ‘isole’ sono in effetti le pieghe del mare”.137

                                                                                                               136 Cfr. Beck U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2013. 137 Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, op. cit., p. 55.

Page 105: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  104

La separazione tra gli individui consente a ciascuno di avere un’identità e

una storia unica e singolare, ma al tempo stesso si fonda su una base

comune, che costituisce il fondamento di ogni differenza. Secondo gli

autori, le strutture dell’organizzazione sociale sono forme

“sufficientemente buone” in senso winnicottiano, corrispondenti ad una

visione del mondo, ad un insieme di determinanti culturali, geografiche,

storiche, biologiche, che ci portano a vivere e ad organizzarci secondo

determinate forme e strutture. Nello stesso tempo tale ordine è vissuto da

ciascun individuo come qualcosa di molto intimo e segreto. In questo

senso, il mondo non comincia sulla soglia di casa, ma al suo interno; il

privato e l’intimo hanno una corrispondenza con l’ordine storico sociale di

quel determinato momento del divenire umano di una civiltà.

“Di conseguenza, credere troppo alla ‘separatezza’ del privato

significa confondere la griglia di lettura con ciò che consente di

leggere o, ancora, la mappa con il territorio”.138

Per Benasayag e Schmit l’identità e l’autentica autonomia della persona si

realizzano con la consapevolezza della propria molteplicità e si alimentano

attraverso la costruzione di legami significativi con gli altri, al di là di ogni

utilitarismo e lotta per il dominio. Similmente per Serres,139 la questione

dell’identità non va confusa con le molteplici “appartenenze” dei soggetti.

Le scienze logiche e razionali hanno per lungo tempo identificato l’identità

come “stato in luogo”, separando l’unità personale dalle particolarità

funzionali dell’esistenza come la professione, il genere, la razza. La loro

separatezza era funzionale al controllo e al dominio economico, sociale e

istituzionale. L’identità personale è in realtà un processo evolutivo aperto,

una “ominescenza”, come la definisce il filosofo. Ciò che ci caratterizza è

proprio la pluralità e la complessità di appartenenze simultanee e

successive, che possono essere più o meno integrate o dissonanti. Tale                                                                                                                138  Ivi, p. 56  139 Cfr. Serres M., Non è un mondo per vecchi. Come i giovani rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

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  105

identità plurale, nutrendosi di diverse confluenze e di diversi rapporti, ci

permette di condividere esperienze, di partecipare a differenti gruppi e

culture. Il rischio è di ripiegarsi su di un’unica appartenenza, di costringere

la propria identità ad una sola dimensione personale, sociale, etnica.

3.11 Per un apprendimento trasformativo

Di fronte a quella che alcuni definiscono una mutazione antropologica,

appare urgente comprendere le direzioni di senso dell’individuo nella

società contemporanea, e riflettere sulla necessità di reinterpretare il

rapporto tra microcosmo individuale e macrocosmo sociale. Dal punto di

vista di questa tesi si tratta di ricercare modalità efficaci per produrre

“altre narrazioni”, tramite le quali analizzare, leggere e comprendere le

dinamiche sociali attuali, a patto che si ricerchino “nuovi narratori” e

diverse “forme narrative”.

Ciò è tanto più urgente per chi opera negli ambiti dell’educazione,

dell’aiuto alla crescita, della prevenzione, dell’assistenza sociale. Per

costoro è importante chiedersi se le narrazioni sulle quali si è costituita la

propria formazione, e con le quali si costruiscono le proprie prassi

professionali sono tuttora “sufficientemente buone” per aiutare altri nella

formazione della propria identità plurale e molteplice, ed efficaci per

leggere, comprendere e intervenire nelle svariate forme e modi in cui si

presenta il disagio, la frammentazione dell’identità nella società del rischio

e dell’incertezza.

L’illusione che si possa diventare più intensamente se stessi al di fuori

della relazione con gli altri è l’inganno di un esasperato individualismo. È,

altresì, più attendibile l’idea che la formazione della persona implichi lo

sviluppo della coscienza civile e della partecipazione alla vita sociale e

politica in una dimensione più ampia di qualsiasi sbandierato localismo.

Ciò comporta l’assunzione di forme di responsabilità riguardo le

conseguenze derivanti dalle nostre azioni e dalle nostre scelte, anche al di

là di quanto sia possibile verificare direttamente. L’azione formativa

rivendica, quindi, una dimensione ecologica e progettuale, lontana dal

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  106

proposito di un mero consumo culturale, verso cui il carattere

prevalentemente consumistico dei nostri sistemi sociali rischia di

orientarla. Infatti, più o meno esplicitamente, gli individui vengono formati

o riformati per svolgere il ruolo di consumatori. Ciò determina, come

afferma Bauman,140 una pericolosa conseguenza antropologica, in quanto,

come le merci, anche gli individui devono rendersi attraenti e desiderabili

per potersi sentire parte della società in cui vivono. Sempre secondo il

sociologo, assumere lo statuto delle merci significa per gli individui

assumere anche quell'irreversibile tendenza verso l'obsolescenza che

caratterizza le merci stesse. Così, gli individui sono costretti a essere

sempre flessibili e disponibili come consumatori ma anche come merci.

Pensare a se stessi come a merci implica il percepire come simili alle merci

anche gli altri, i quali, se non corrispondono a ciò che si desidera, se

smettono di essere soddisfacenti sono passibili di essere rapidamente

sostituiti, esattamente come avviene per un prodotto difettoso oppure

obsoleto.

In questo quadro sociale, l’azione formativa da dispiegare si configura

come una vera e propria decostruzione dei modelli dominanti; e si

caratterizza per la dimensione partecipativa e la valorizzazione della

persona intesa nella sua molteplicità e nella sua capacità di costruire

legami, alternativa all’idea di individuo frammentato e separato dagli

altri.141

In una prospettiva di autoformazione occorrerà, allora, riesaminare i propri

“quadri di riferimento”, in quanto spesso non è sufficiente interpretare le

situazioni e gli eventi osservandoli da prospettive diverse e riflettendo su

di essi; occorre modificare gli stessi paradigmi che modellano le nostre

visioni della realtà.

A questo proposito, Mezirow 142 pone l’accento sull’individuazione,

attraverso l’analisi dell’apprendimento pregresso, dei cosiddetti “schemi di

significato”. Questi, il più delle volte taciti e inconsapevoli, vengono

                                                                                                               140 Cfr.: Bauman Z., Consumo, dunque sono, Laterza Bari 2008. 141 vedi nota n 28 di p. 142 Cfr. Mezirow J., Apprendimento e trasformazione, Raffaello Cortina, Milano 2003.

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  107

interiorizzati nel tempo e sostengono l'intelaiatura della conoscenza, così

come l’abbiamo organizzata, agendo, potremmo dire, come degli

impensati. È necessario che tali schemi siano scoperti e disambiguati per

innestare una trasformazione intenzionale di quelle “prospettive di

significato” connesse agli schemi stessi, per poter realizzare

un apprendimento di tipo trasformativo.

Ciò che interessa Mezirow è proprio approfondire la dimensione del

“significato dell’apprendimento” degli adulti; sviscerare il modo in cui tale

significato viene costruito, validato e riformulato; individuare le condizioni

sociali che influenzano i processi di elaborazione critica delle esperienze.

Essendo prigionieri della nostra storia personale, per quanto possiamo

essere abili a dare un significato alle nostre esperienze, tutti noi operiamo

entro gli orizzonti fissati dal modo di vedere e di capire, che abbiamo

acquisito attraverso il nostro “apprendimento pregresso”.

Il significato che diamo a ciò che apprendiamo è sempre il frutto di

un’interpretazione dell’esperienza, e ne ricerchiamo la coerenza tramite la

relazione e la comunicazione con gli altri. Rendiamo, così, accettabili le

nostre interpretazioni utilizzando quegli schemi impliciti di significato che

hanno funzionato fino ad allora. Il problema si pone nel momento in cui

nuovi apprendimenti richiedono l’elaborazione di nuovi schemi, in quanto

quelli che usiamo automaticamente per leggere le nuove conoscenze non

sono consapevoli. Quindi, non riusciamo a decidere di cambiarli per

adattarli al nuovo apprendimento, perché questi schemi sono funzionali

alle nostre prospettive di significato.

Gli “schemi di significato” sono costituiti, secondo l’autore, dalle

conoscenze, dalle credenze, dai giudizi di valore e dai sentimenti che si

rivelano nell’interpretazione e consistono nelle manifestazioni concrete dei

nostri orientamenti abituali. Essi sono alla base delle nostre attese, che

costituiscono la molla su cui poggiano le “prospettive di significato”.143

                                                                                                               143 Le prospettive di significato sono paragonabili ai paradigmi o schemi di riferimento personale, con le quali Thomas Kuhn descrive le trasformazioni paradigmatiche che intervengono nelle conoscenze scientifiche.  

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  108

La focalizzazione delle nostre aspettative ordina selettivamente ciò che

apprendiamo e il modo in cui apprendiamo.

Per trasformare le proprie prospettive di significato in vista di nuovi

apprendimenti, occorre attivare una riflessività intenzionale, sistematica e

aperta al cambiamento, che non eluda l’incertezza che ci coglie di fronte a

nuove esperienze conoscitive. Più spesso, purtroppo, siamo portati ad

evitare la fatica di pensare, soprattutto quando la riflessione implica la

necessità di affrontare la concezione che abbiamo di noi stessi; allora, per

evitare di mettere in crisi la nostra identità preferiamo ricorrere

all’autoinganno.

Le prospettive sono condizionate, limitate o distorte da diversi tipi di

fattori. L’autore identifica tre tipi di prospettive di significato al cui interno

formiamo l’esperienza:

- la “prospettiva epistemica” riguarda quelle immagini, teorie e

rappresentazioni che ogni soggetto ha costruito sulla conoscenza e

sul proprio processo conoscitivo. All’interno di tale prospettiva si

costruiscono esperienze di attribuzione di senso e significato di tipo

epistemico, cioè quell’insieme di schemi di significato e di presupposti

che vincolano l’attività del soggetto nel conoscere e produrre

conoscenza e nella rappresentazione del processo conoscitivo;

- La “prospettiva psicologica” determina quegli schemi di significato

per mezzo dei quali percepiamo noi stessi all’interno di un contesto o

in riferimento ad un compito. È interessante notare che secondo

Mezirow questa prospettiva origina dalle proibizioni e vincoli imposti

durante l’infanzia dai genitori. Per questo motivo può generare stati

emotivamente rilevanti ogni qual volta la persona sperimenta

l’incapacità di uscire dagli schemi di significato posseduti, e si trova

nella condizione di accettare un’incongruenza di senso o tentare di

risolverla;

- la “prospettiva sociolinguistica” concerne quelle premesse

sociolinguistiche, che condizionano i modi di interpretare

l’esperienza. Tali premesse si sviluppano nel corso del processo di

Page 110: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  109

socializzazione in cui siamo immersi fin dalla nascita. In questa

prospettiva, ritroviamo i segni dell’interiorizzazione di tutta una serie

di schemi linguistici-interpretativi definiti sul piano sociale e culturale.

La loro rielaborazione implica la possibilità di tramutarli in oggetto di

conoscenza e di riflessione-critica.

Sono queste le variabili che influenzano buona parte delle persone poste

di fronte al mutamento di paradigma culturale che caratterizza la nostra

epoca. Le reazioni al passaggio dalla cultura della “linearità” alla cultura

della “complessità” sono spesso improntate a meccanismi di difesa, quali

la negazione, o l’evitamento delle nuove problematicità, oppure la loro

rapida assimilazione ai vecchi schemi di significato, in modo che tutto

rimanga immutato e non divenga minaccioso per il sé personale e

professionale.

Secondo Mezirow, un apprendimento di tipo trasformativo è il solo in

grado di consentire l’evoluzione dell’adulto verso una dinamica di

cambiamento; ma non tutto l’apprendimento è trasformativo. Solitamente

impariamo semplicemente aggiungendo altre conoscenze ai nostri schemi

di significato, attraverso i quali interpretiamo le nostre esperienze.

L’autore individua quattro forme di apprendimento adulto:

- la prima forma riguarda l’apprendere attraverso gli schemi

interpretativi già in nostro possesso, che possono essere rielaborati per

adattarsi alla nuova situazione, oppure impiegati subito senza bisogno

di alcun adattamento. In tal caso, a cambiare è solo la particolare

risposta;

- la seconda forma d’apprendimento comporta la formazione di un

nuovo schema interpretativo, cioè la creazione di nuovi significati, che

siano sufficientemente compatibili con le prospettive di senso già

possedute, per integrarle e in questo modo ampliarne le finalità;

- la terza forma d’apprendimento avviene attraverso la trasformazione di

schemi di significato. Questo tipo d’apprendimento implica una

riflessione attenta circa la qualità delle assunzioni, sulle quali essi si

basano. Avviene quando i nostri particolari punti di vista e convinzioni

Page 111: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  110

si rivelano poco funzionali o del tutto inadeguati di fronte a una nuova

situazione. Di conseguenza avvertiamo un crescente senso

d’inadeguatezza delle nostre vecchie abitudini di vedere e di

comprendere;

- la quarta forma si ha quando la trasformazione riguarda la stessa

prospettiva di significato. In tali contesti, si diventa consapevoli,

attraverso la riflessione, della falsa natura dei presupposti sui quali si

basava una distorta o parziale prospettiva di significato. È a partire da

questa cognizione che è possibile impegnarsi per trasformare tale

prospettiva per mezzo di una riorganizzazione dei significati.

Tutte le forme di apprendimento prevedono un’attività particolare di

“problem solving”. L’Autore utilizza la distinzione di Habermas tra

razionalità e interesse tecnico, o strumentale, e razionalità e interesse

pratico, o comunicativo.

Nel caso dell’”apprendimento strumentale”, il procedimento risolutivo si

basa su processi di pensiero di natura ipotetico-deduttiva: formulazione

d’ipotetici percorsi d’azione, anticipazione degli effetti, messa in atto di

quelli più plausibili e, infine, verifica dei risultati raggiunti. Nel caso

dell’”apprendimento comunicativo”, sono coinvolti processi che si fondano

in prevalenza sul consenso: giudizi provvisori aperti a nuove

argomentazioni e a nuovi paradigmi di comprensione. La finalità

dell’apprendimento comunicativo consiste nell’imparare a comprendere gli

altri e a farci capire da loro quando cerchiamo di condividere le nostre

idee attraverso il discorso, la parola scritta, l’arte, e il racconto. Riguarda,

quindi, la comprensione, la descrizione e il chiarimento delle intenzioni, dei

valori, degli ideali, così come delle concezioni sociali, politiche, filosofiche,

educative, nonché dei sentimenti e delle ragioni.

Come le “ipotesi” sono gli strumenti di ragionamento dell’apprendimento

strumentale, le “metafore” sono gli strumenti dell’apprendimento

comunicativo.

L’”apprendimento trasformativo” implica tutte le condizioni previste per un

efficace e significativo apprendimento comunicativo. Vi associa

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  111

specificamente un importante focus sulla critica delle premesse. Sono

queste che richiedono un riesame per correggere quelle

concezioni inadeguatamente sviluppate o distorte, di natura

epistemologica, sociolinguistica o psicologica.

Possiamo considerare come uno dei fondamentali scopi e orientamenti

dell’autoformazione aiutare a individuare e rendere più consapevoli le

prospettive di significato, i sistemi di aspettative, come anche gli schemi di

azione, che vincolano il nostro modo di apprendere e di affrontare le

esperienze personali e professionali.

In tale prospettiva, si ritengono assai utili le narrazioni delle proprie

esperienze, in quanto attraverso il racconto è possibile oggettivare i

modelli impliciti dei nostri modi di affrontare le situazioni problematiche e

decodificare le teorie tacite che stanno alla base delle proprie modalità di

conoscenza. Ma se s’intende avviare un autentico processo di

trasformazione di tali paradigmi è necessario che la narrazione si

accompagni ad una continua riflessione critica, così da allenare la mente

ad un pensiero razionale ed interpretativo non separato

dall’immaginazione, aperto al dubbio e all’incertezza; un pensiero in grado

di aprirsi anche al conflitto con se stessi, per rinnovarsi e rinnovare

costantemente la ricerca del significato della propria molteplice identità.

Numerose sono, in tal senso, le ricerche e le metodologie che utilizzano un

approccio di tipo narrativo. Nell’ultimo capitolo di questa tesi ne

descriveremo alcune che si ritengono più significative e funzionali;

tenteremo anche di elaborare alcuni nuclei progettuali, all’interno dei quali

individuare una serie di strumenti, tecniche e attività coerenti con quanto

finora esposto.

Page 113: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  112

4 Formazione Narrativa e Narrazione Formativa

“Innanzi tutto, consideriamo la penna con cui

scriviamo. Dovrebbe essere una penna capace di

scrivere in fretta, perché i pensieri vanno sempre

molto più in fretta della mano”

(Natalie Goldberg, Scrivere Zen)

4.1 Verso una Formazione Narrativa

Con il gioco di parole che dà il titolo al capitolo, si intende rilevare come

ricorrere alla pratica della narrazione consente un doppio livello educativo:

la conoscenza del soggetto e l’educabilità, anzi, per meglio dire, la sua

auto-educabilità.

Ogni individuo, ogni evento, ma anche ogni fenomeno sociale, è portatore

di una propria storia, i cui elementi sono connessi tra loro in base ad un

criterio di pertinenza e di relazione.

Secondo Bateson, 144 anche una conchiglia è né più né meno che una

raccolta di storie diverse, il prodotto di milioni di passi, di un numero

sconosciuto di modulazioni successive. La conchiglia è e al tempo stesso

ha una storia, perché la sua formazione è un’evoluzione attraverso una

serie di passi, di riformulazioni nel tempo.

Possiamo affermare, come ci indica l’autore, che tutti gli organismi e i

fenomeni sono soggettività, e in quanto tali “menti”, cioè sistemi formati

da parti interagenti, che partecipano all’organizzazione del mondo, a cui

portano il proprio contributo attraverso la trama delle proprie storie.

È, allora, auspicabile progettare dei dispositivi, tramite i quali riuscire a

prestare ascolto, all'interno dei più diversi contesti, ai milioni di passi e di

connessioni che caratterizzano le esperienze degli individui; soprattutto, in

una società come quella attuale, che molto spesso tende a soffocare le

voci che cercano di farsi largo all’interno della storia di ogni persona, di

                                                                                                               144 Cfr. Bateson G., Bateson M.C., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, op. cit..  

Page 114: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  113

ogni soggettività, di ogni mente.

Perché la formazione riguarda, tra l’altro, proprio la possibilità di leggere le

forme della mente dei soggetti. Abbiamo già in precedenza rilevato come il

contesto, in quanto “ambiente” vivente, esistenziale, in cui si situano i

processi reali e personali delle relazioni, sia un elemento dinamico che

muove, smuove, svela spazi e tempi, relazioni, vissuti, immaginari,

competenze, interpretazioni di situazioni e di fenomeni.

Se l’azione pedagogica si assume il compito di concepire nell’ambiente la

struttura nella quale si situa l’agire degli individui, “pensare in termini di

storie” significa riconoscere nelle azioni le relazioni tra le forme interne e

le forme esterne dei soggetti.

La comprensione delle forme interne è resa possibile dall’osservazione

dell’agire, del verbale e del non verbale attraverso le azioni e i progetti

personali dei soggetti. La cognizione delle forme esterne avviene

prevalentemente nel rapporto con l’azione organizzata e razionale

dell’azione educativa e formativa.

Le storie generative di percorsi, trame, incontri e complessità,

perturbazione e conflitti sono un fondamentale strumento formativo ed

educativo capace di dare consapevolezza al processo mentale, in quanto

partecipe e “creatore di contesti”, secondo quel modello costruttivista e

relazionale, che più volte abbiamo intercettato nel corso di questo lavoro.

Le conoscenze, le teorie esplicite e implicite, le prassi di ciascun soggetto,

inteso come contesto unico e irripetibile, sono abitate da una forte

soggettività individuale e collettiva. Esse rappresentano le forme

dell’esistenza esperite attraverso il discorso, l’espressione corporea,

l’azione e il comportamento.

Il più delle volte si rivelano e vengono rilevate nelle situazioni emotive e

affettive. Per questo motivo è importante non sottovalutare, bensì tenere

in considerazione tutte quelle relazioni dalle quali è possibile ricavare

elementi del disegno mentale dei soggetti: l’agire quotidiano, l’agire

progettuale, l’agire a specchio. In particolare, riguardo quest’ultimo recenti

studi hanno confermato l’incidenza dei fattori socio-relazionali

Page 115: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  114

dell’apprendimento, superando la storica dicotomia tra pensiero e azione,

secondo la quale le funzioni sensoriali, percettive e motorie sarebbero

prerogativa di aree cerebrali distinte e separate tra loro. La scoperta dei

“neuroni specchio”, infatti, ha rivoluzionato il modo di intendere il cervello

e i rapporti sociali. Si tratta di una particolare tipologia di neuroni con la

funzione di attivare nel cervello di un soggetto, che osserva una

determinata azione compiuta da un altro, una serie di reazioni speculari a

quelle che si attivano nel cervello del soggetto che sta compiendo l'azione

stessa.

Ciò comporta che a neuroni definiti motori sono attribuite proprietà

connesse a dimensioni cognitive, come la previsione o l'anticipazione di un

intento, considerate da sempre superiori rispetto a quelle motorie. Si è

così cominciata a consolidare l'idea che il sistema motorio possieda

molteplici funzioni, non meramente esecutive e strettamente connesse in

modo non gerarchico ma simultaneo con i sistemi sensoriali. Come

affermano il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti e il filosofo Corrado

Sinigaglia, 145 “il cervello che agisce è innanzitutto un cervello che

comprende”. Infatti, probabilmente noi comprendiamo un'azione ed il suo

fine, proprio perché nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni che si

attiverebbero se stessimo compiendo noi stessi quell'azione. Non c'è

nessuna partecipazione cosciente del soggetto in questo meccanismo, è

qualcosa che ci precede e ci permette di comprendere e di conoscere

immediatamente, in una dimensione prelinguistica, le intenzioni degli altri

individui, rendendo così possibile una previsione del loro comportamento

futuro. Uno degli aspetti più affascinanti di tale scoperta è la conferma

della strettissima relazione tra azione e linguaggio: la famosa “Area di

Broca”, da sempre definita sede anatomica del linguaggio, sarebbe in

realtà un’area composta in prevalenza da cellule motorie. Inoltre, i neuroni

specchio, in particolare quelli della corteccia pre-motoria, entrano in gioco

nella comprensione delle emozioni degli altri.

                                                                                                               145 Cfr. Rizzolati G., Sinigaglia C., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006.

Page 116: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  115

Un’altra conferma, quindi, del fatto che l’empatia è lo sfondo della nostra

intelligenza, perché l’imitazione degli stati d’animo altrui ci consente di

dedurre l’ordine delle relazioni affettive e sociali, i complessi di valori che

le organizzano, gli schemi di comportamento individuali e collettivi, l’agio e

il disagio delle persone che incontriamo, le possibili alternative al mondo in

cui viviamo, così come i simboli che mediano il nostro rapporto con le

culture di appartenenza. D’altra parte, però, l’empatia è anche la base

delle nostre nevrosi, perché l’imitazione implica l’interiorizzazione, il

portare, cioè, dentro di sé identità, valori e schemi che possono essere

disfunzionali, produrre sentimenti di delusione e rabbia, fino a condurci

contro sé stessi, proprio a causa di quei sistemi di valori che fin

dall’infanzia abbiamo dedotto per identificazione. Un motivo in più, quindi,

per affidare alla narrazione la possibilità di modificare gli eventi delle

nostre storie personali. È quanto, implicitamente, ci suggerisce Peter

Brook, noto regista teatrale, citato nella premessa al testo dei due autori.

“con la scoperta dei neuroni specchio le neuroscienze avevano cominciato

a capire quello che il teatro sapeva da sempre. [...] Il lavoro dell'attore

sarebbe vano se egli non potesse condividere, [...] i suoni e i movimenti

del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro

stessi debbono contribuire a creare”.146

Possiamo, quindi, affermare che proprio l’attivazione dei neuroni specchio

ci consente di creare un mondo possibile e di possibilità, evocando su di

noi il richiamo della condizione umana nel linguaggio della

rappresentazione metaforizzata, come nel teatro di Peter Brook. Si realizza

così un doppio sentire, un “doppio pàtos”: quello del personaggio sulla

scena, o in altro luogo, in un'altra storia e quello del proprio vissuto. Il

personaggio nel quale ci identifichiamo, sul quale proiettiamo emozioni e

sentimenti, può anche coincidere con il sé, o meglio, con la molteplicità

dei nostri sé, come nel caso dell’autobiografia.

                                                                                                               146 Ivi, p. 7.

Page 117: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  116

In tal senso, la formazione si declina come una cura del sé, che favorisce

da una parte una lettura dell’identità soggettiva e intersoggettiva, dall’altra

e parallelamente il recupero delle dimensioni di tipo processuale

caratteristiche dei percorsi di evoluzione e crescita, di interpretazione e

cambiamento. L’esplorazione di metodologie, tecniche e strumenti utili alla

realizzazione di tali processi, è lo scopo di quest’ultimo capitolo di tesi.

4.2 La Narrazione Formativa come “cura sui”

L’intento di rivolgere l’attenzione a coloro che operano in campo educativo

e sociale ci porta a far propria la prospettiva formativa di Franco Cambi.147

Secondo quest’autore il processo formativo si declina intorno alla nozione

di “cura”, che si presenta come il “volto tecnico” di tutte le scienze umane,

dalla psicologia alla sociologia, dalla medicina all’economia,

dall’antropologia culturale alla politologia, dalla filosofia alla pedagogia,

che ne rappresenta l’ambito privilegiato.

“In pedagogia, da Socrate in poi, seguendo il profilo dei grandi educatori

(da Comenio a Pestalozzi, a Makarenko) e poi anche dei teorici della

‘relazione educativa’ (da Seneca a Montaigne, a Rousseau, a Ferrière,

etc.), la cura si è imposta come dispositivo chiave”.148

Riprendendo le tesi di Vanna Boffo,149 Cambi distingue due piani sui quali

si articola la cura in pedagogia:

- un piano di metariflessione incentrato sul paradigma foucaultiano

della “cura sui”, intesa come arte dell’esistenza. Per Foucault, 150

l’occuparsi di se stessi è un antichissimo tema che origina nella

cultura greca dal Socrate educatore e formatore dei giovani ateniesi.

Prosegue con Platone e continua la tradizione con gli stoici e gli

epicurei. Per il filosofo francese la dimensione autentica della cura sui                                                                                                                147 Cfr. Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, Editori Laterza, Bari, 2010. 148 Ivi, p. 7. 149 Cfr. Boffo V. (a cura di), La cura in pedagogia, Clueb, Bologna 2006. 150 Cfr. Foucault M., La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano 2004.

Page 118: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  117

non è quella interiore e individuale, bensì quella sociale, che si

realizza nelle scuole, in comunità, in famiglia, e riguarda anche

l’esercizio professionale; in questo senso, non elude la relazione, al

contrario si manifesta come un’intensificazione dei rapporti sociali. Si

tratta di un occuparsi di sé per occuparsi dell’altro, per occuparsi del

mondo;

- un piano di “forme della cura”, che si declinano come “cura della

mente”, “cura del cuore”, “cura di sé”. Da una parte, quindi, orienta

verso un percorso comunicativo interpersonale, che va dalla famiglia

alla comunità, alle stesse istituzioni; dall’altra parte prevede un vero

e proprio “progetto esistenziale” da parte della persona.

Per Cambi, la “cura sui”, intesa come dispositivo-chiave della formazione,

include molteplici prospettive e campi d’esperienza. È senz’altro affine

all’”ecologia della mente” di Bateson,151 e alla sua visione integrata del

soggetto tra natura e cultura. La ritroviamo nella visione di Bettelheim152

della genitorialità come affiancamento vigile, guida non direttiva e

sostegno mediato all’esperienza autonoma dei figli. In Morin,153 inoltre, la

cura sui si fa principio regolativo di una formazione aperta, critica e

flessibile, che si colloca tra cognizione e metacognizione con un costante

riferimento all’etica sociale.

Un settore particolarmente interessante nell’ambito di questa tesi, è quello

connesso alla prevenzione del disagio e alla cura dei soggetti a rischio,

laddove la cura consiste nel sostenere soggetti e gruppi in vista del

raggiungimento dell’integrazione sociale. Riguarda, cioè, interventi di

“risveglio del sé”, intesi a rafforzare l’identità dei soggetti e a promuoverne

la capacità di costruire propri progetti esistenziali.

La cura in pedagogia si presenta per Cambi come “aver cura della

formazione”, attraverso un processo socratico che si sviluppa, nel suo

insieme, come “risveglio”, come “dialettica”, come “ascesa” e come

“maieutica”. In questa prospettiva entra in gioco l’autoformazione come

                                                                                                               151 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit. 152 Cfr. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano, 1987. 153 Cfr. Morin E., La testa ben fatta, Cortina, Milano, 2001.

Page 119: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  118

“cura sui”, in quanto è il soggetto che guida e sostiene se stesso tramite la

mediazione di una serie di pratiche riflessive, interpretative, riorientative,

ma anche de-costruttive e ricostruttive. Sono pratiche che s’ispirano a

quelle “tecnologie del sé”, a quegli esercizi spirituali proposti da Foucault

in una delle sue ultime opere.154

Tali pratiche, per attivare un dialogo costante tra coscienza e

autocoscienza e disporsi come esercizio che accompagni tutta la vita,

necessitano di formalizzarsi, nel senso di darsi delle forme operative.

“Leggere, scriversi, meditare, sono vie per coltivare la propria

interiorità; che è poi proprio questo sguardo duplicante attivato

su se stessi, colti nella complessità aggrovigliata del proprio

vivere. Per dipanarsi, sottoporsi a scandaglio, operare radiografie

mentali, fissare ‘itinera’ di trasformazione [...]”.155

Per Cambi, una delle vie maestre della cura sui è senz’altro la narrazione.

L’autore la considera un’”attività primaria, fondamentale e permanente” da

presidiare e coltivare come un paradigma formativo della mente e collante

culturale in tutte le civiltà di ieri e di oggi.

La narrazione, quale prima forma di spiegazione introduce e avvia il

processo razionale; nutre l’attività simbolica della mente, fissando simboli,

miti e figure, che agiscono come depositi e orientatori di senso. Così il

possibile attraverso il virtuale, l’immaginario, entra a far parte della mente

e della cultura, delineandosi come frontiera interiore dell’esperienza, in

potenza. Ci immette, infine, in un tessuto connettivo storico-sociale,

contribuendo così, attraverso il linguaggio, a determinare la nostra identità

culturale.

Cambi dà particolare rilievo all’istanza etica, a cui la narrazione da voce e

corpo orientando la formazione personale. Tale percorso di tipo etico si

realizza tramite la letteratura e l’immaginazione.

                                                                                                               154 Cfr. Focault M.,Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. 155 Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 39.  

Page 120: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  119

I diversi generi del narrativo declinano la formazione verso differenti

contenuti e temi, tutti fondamentali nella costruzione del sé. L’epica, che

attraverso le gesta degli eroi tesse paradigmi di vita e modelli di

comportamento. Il romanzo moderno, con la sua centratura nel nesso

io/società. La commedia, che tramite la descrizione dei “mores” induce a

riflettere criticamente, a “castigare” o a irridere, suscitando, appunto, il

riso che ha una funzione decostruttiva e al tempo stesso catartica.

Il narrativo, inoltre, sviluppando l’immaginazione evoca esperienze virtuali

che si legano a bisogni e attese che emergono dall’inconscio della

persona. La narrazione proiettandoli nell’immaginario definisce e colloca

nel pensiero come “possibili” e nella coscienza come “degni” altri mondi e

forme di vita, producendo due effetti etici:

- l’esperienza del possibile, imponendosi al pensare a e all’agire,

induce il reale a perdere il connotato di dura e invalicabile necessità,

aprendolo all’”ulteriorità”, al cambiamento;

- il legame tra narrazione e utopia, implica il dissenso e spinge a

prender distanza in modo critico e a guardare oltre la necessità del

reale. Si impara, così, a porsi in una dimensione di libertà e di

proiezione nel futuro del proprio bisogno di liberazione.

L’invito pedagogico di Cambi è di guardare alla narrazione come a una

risorsa e a un principio, custodendone gli effetti formativi, significativi e

nutrienti, lungo il corso dell’esistenza, in tutto quel processo di “lifelong

learning”, che è sempre più il paradigma costitutivo di ogni persona.

La lettura per formarsi e conoscere il mondo, la scrittura per il piacere

formativo e per pensare i propri pensieri, e l’autobiografia come cura di sé

sono le tre “tecniche di vita”, che Cambi descrive introducendoci ad un

metodo narrativo incentrato sull’autoformazione come processo continuo,

il cui sviluppo richiede anche rigore e disciplina da parte del soggetto che

guida se stesso tramite quelli che l’autore definisce dei veri e propri

“esercizi spirituali”.

Page 121: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  120

4.3 La lettura per formarsi: una questione di metodi

Riguardo la prima tecnica di vita, alla luce delle numerose analisi, ma

anche riflettendo sulla nostra esperienza di lettori l’autore definisce la

lettura come:

- un “atto di spaesamento”, che crea una condizione diversa, sospesa

e raccolta in se stessa;

- un “atto di apertura al virtuale”, perché leggere ci introduce in un

mondo che sta oltre, che ci affascina per la sua diversità e dilata il

nostro io disponendolo in direzione di un sé più ricco, dinamico e

dialettico;

- un “atto di potenziamento dell’immaginario”, attivato dalla potenza

evocatrice della parola, che si sottrae al mero ruolo

comunicativo/informativo per porsi come scoperta, costruzione e

ricostruzione del mondo;

- un “atto di crescita/sviluppo”, nel momento in cui si entra in una

storia che rispecchiandoci, ci amplia, ci sfida nel nostro vissuto

inducendoci a ripensarlo e a ripensarci.

In tal senso leggere si rivela un’avventura formativa, una via aurea della

cura di sé.

“Solo (o prevalentemente) la lettura ci porta nel presente il

passato, l’altrove, il virtuale. Dilatando così i confini del nostro io

e del suo mondo-di-esperienze che dal presente va verso il

passato e verso il futuro, per rileggere il presente più

criticamente (attraverso i condizionamenti dell’ieri e le possibilità

del domani). E tutto ciò allarga l’esperienza stessa che stiamo

facendo. Si dà come patrimonio di sviluppo dell’io/sé”.156

Tre sono secondo Cambi le strategie da attivare per rendere la lettura

un’esperienza efficace di coltivazione dell’io etico, cognitivo ed estetico:

- “isolarsi”, operando una sospensione tra il sé e il quotidiano, una

                                                                                                               156  Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 58.  

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  121

concentrazione che predispone all’intensità della lettura;

- “leggere secondo libertà”, in sequenza, a salti, a ritroso, cambiando

libro, etc., secondo l’invito di Pennac;157

- “darsi la lettura come pratica consolidata”, come via di riscatto e di

formazione non più rinunciabile anche nel tempo ossessivo dei Media

che tendono a incasellare il nostro tempo libero per gestirlo al posto

nostro.

La lettura, che Foucault annovera tra le “tecnologie del sé”, è quindi un

mezzo potente di “vita interiore”, proprio perché, implicando

raccoglimento e sospensione del vivere immediato e pragmatico, attiva

quella “coscienza di sé”, che è la dimensione più intima dell’individuo, il

suo luogo più segreto e lo specchio diffrattivo della realtà. La lettura,

alimentando la vita interiore, struttura e articola la coscienza,

connettendola e incrociandola con le pulsioni e le tensioni dell’inconscio.

La proiezione in altre esperienze di vita, verso cui la narrazione conduce,

permette alla nostra interiorità di dilatarsi e crescere in modo intenso e

dinamico, evitando di rattrappirsi nel quotidiano. L’identità può così

svilupparsi sia in senso emotivo, affinando e allargando la gamma dei

propri sentimenti, sia in senso razionale, potenziano le forme del pensiero

e affinandone il rigore, sia infine nell’intreccio dialettico di entrambi,

ragione e sentimento.

Cambi individua principalmente nella scuola, uno dei luoghi dove

l’iniziativa personale del leggere può essere sollecitata e potenziata

secondo pratiche esemplari orientate a quella formazione centrata sulla

“cura sui”, attraverso pratiche di lettura animata, gare, ludi letterari etc..

Ma per far sì che il libro assuma un ruolo di sostegno e di guida dell’io che

ci accompagni per tutta la vita, è necessario organizzare cicli, conferenze,

gare di lettura, etc., anche nelle biblioteche, e realizzare altre e diverse

occasioni di formazione per un risveglio della lettura come pratica

personale, che rischia di essere insidiata dalle tecnologie informatiche e

dai loro approcci metacognitivi sempre più formali, oggettivi e astratti.

                                                                                                               157 Cfr. Pennac D., Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1993.

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  122

A questo proposito, per passare dalle riflessioni sul metodo alle proposte

di metodo sono descritti di seguito due laboratori, che partono dalla

lettura per ritornare ad essa e su di essa tramite vissuti condivisi e

partecipati in gruppo. La valenza formativa di tali esperienze sta proprio

nella rielaborazione di una pratica personale e intima in un’attività di

relazione e di scambio che implica un dirsi all’altro e per l’altro, un ascolto

reciproco ed una restituzione, intesa sia come impressione personale sia

come espressione di reciprocità, per giungere in uno dei casi anche ad una

vera e propria produzione espressiva e creativa.

Le due pratiche proposte si differenziano, oltre che per le tecniche e le

attività, anche per le situazioni: la prima è caratterizzata da aspetti non

formali e informali; nella seconda invece prevale l’aspetto formale, in

quanto è stata realizzata all’interno dell’Università. Ciò non preclude la loro

realizzazione in contesti differenti, istituzionali nel caso della prima

proposta, più informali per la seconda. In un certo senso, trattarne

nell’ambito di questa tesi è un’opportunità per definirle in chiave di

riproducibilità all’interno di pratiche formative consolidate.

4.4 “Dimmi cosa leggi...” : la lettura come comunità di pratica

Il primo dispositivo, che denomineremo “Dimmi cosa leggi...”, trae spunto

da incontri serali organizzati nel corso di soggiorni estivi dall’Associazione

“Amici Bagni Froy”,158 nell’omonima residenza situata in Val di Funes, nelle

vicinanze di Chiusa in provincia di Bolzano.

Si ritiene importante soffermarsi sulla descrizione del contesto e sulle

finalità che l’Associazione persegue con le sue iniziative, perché le stesse

richiamano molto da vicino l’idea di “tempo libero” proposta da

Dumazedier. 159 Il valore formativo della sua concezione invita ad una

digressione necessaria nell’ambito di questa tesi. Il sociologo francese

sintetizza gli obiettivi del tempo libero in tre termini:

- “délassement”, cioè distensione o riposo dopo la fatica psicofisica del

                                                                                                               158 Informazioni sull’Associazione e sulle loro iniziative sono reperibili sul sito dedicato <www.bagnifroy.it>. 159 Cfr. J. Dumazedier J., Sociologia del tempo libero, F. Angeli, Milano 1978.

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  123

tempo di lavoro;

- “divertissement”, inteso come distrazione dalle normali attività

quotidiane;

- “développement”, vale a dire opportunità di sviluppo personale

attraverso iniziative culturali, artistiche, sociali, sportive, ricreative di

proprio gradimento.

Secondo Dumazedier, il tempo libero non deve essere solo una

“liberazione” dai tempi sociali e istituzionali, ma soprattutto una possibilità

di sviluppo delle qualità umane più autentiche,

“contro le aggressioni della società industriale ed urbana, sempre meno

naturale e sempre più organizzata e dominata dall'assillo del tempo”.160

Per questi motivi, egli auspica l’avvento di una società in cui il tempo

libero ispiri e diffonda uno stile culturale e personale che anteponga il

“loisir” al lavoro, in funzione di una civiltà opposta al mondo arido,

conflittuale ed alienante della produzione e del mercato. Un mondo nuovo

in cui predomini la libera espressione della personalità, le relazioni

affettive con gli altri, il gioco, la contemplazione, il godimento, e un

atteggiamento critico-estetico, per cui l'”homo ludens” e l'”homo socius”

prevalgano sull'”homo sapiens” e sull'”homo faber”.

Ritroviamo tali valori nelle finalità che l’Associazione “Amici Bagni Froy”

persegue nel corso dei soggiorni estivi aperti a gruppi, famiglie e

singoli:161

- educare al rispetto e all’accettazione degli altri sia come persone che

come portatori di idee, esperienze, conoscenze;

- privilegiare il servizio con l’autogestione dei lavori per realizzare

un’atmosfera di collaborazione e bene reciproco;

- promuovere attività culturali, creative ed espressive, di educazione

ambientale e che favoriscano il benessere della persona e la sua

                                                                                                               160 Ivi, p. 103. 161 Associazione Amici Bagni Froy, in <www.bagnifroy.it>.

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  124

crescita psicofisica.

Proprio nell’ambito di queste ultime attività, si inseriscono gli incontri serali

“Dimmi cosa leggi...”, ideati e condotti da Mario Bertasa.162 I partecipanti,

senza distinzione d’età, sono invitati a portare con sé un libro scelto tra

quelli che stanno leggendo, di qualsiasi genere si tratti. A turno, ciascuno

lo presenta al gruppo, attraverso una propria sintetica recensione. Ciò che

viene richiesto, in particolare, è di esprimere le ragioni o raccontare le

eventuali circostanze che lo hanno condotto a leggere quel libro, e

indicare le motivazioni per le quali se ne raccomanderebbe la lettura agli

altri. È anche possibile e auspicabile la lettura di qualche brano ad alta

voce. Il gruppo, a sua volta, può porre domande, esprimere pareri,

comunicare suggestioni, riferire riflessioni, sospendendo, però, qualsiasi

giudizio sulla scelta. Indirettamente, chi presenta e descrive il libro agli

altri, presenta e descrive se stesso, o almeno un’immagine di sé che lo

rappresenta. Parafrasando Foerster,163 si può dire che ogni recensione

dice più cose della persona che recensisce che del libro recensito. Siccome

non si tratta di un compito, non c’è alcun obbligo a intervenire, non ci

sono riferimenti, né indicatori, né parametri da rispettare, tranne il limite

di tempo (max 10/15 minuti). Ogni partecipante nel presentare il suo libro

si basa sulle proprie conoscenze, e soprattutto sulle emozioni che la

lettura gli ha suscitato, entrambe influenzate dal vissuto del momento, da

scopi personali, da ricordi, cultura d’appartenenza, grado d’istruzione,

visioni del mondo più o meno esplicite, e dalla propria storia personale. In

questo senso, ogni presentazione si rivela anche come una ricognizione

del sé, in quanto prodotto dell’esplorazione di un atto intimo e privato,

qual è la lettura personale. Per quanto possa essere possibile, soprattutto

in situazioni non formali come quella qui descritta, si può chiedere di

evitare nelle presentazioni e nei commenti espressioni del tipo “mi

piace/non mi piace” o “bello/brutto”, cercando di sostituire tali dicotomie o

                                                                                                               162 Mario Bertasa è un attore e regista, promotore dell’Associazione “ArtEventualeTeatro”, i cui interventi si ispirano alla ricerca sul teatro degli affetti di Giulio Nava. Vedi <www.arteventualeteatro.it>. 163 Cfr. Foerster H. V., Sistemi che osservano, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1987.

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  125

banali giudizi estetici con descrizioni più accurate delle proprie percezioni,

sensazioni, emozioni, sorprese, pensieri fino a dare un nome ai sentimenti,

alle conoscenze e alle idee che la lettura ha ispirato, attraverso il racconto

di particolari episodi, la descrizione dei personaggi, ma anche,

l’esposizione di concetti e teorie nel caso di testi di genere saggistico.

Anche chi ascolta è indotto a identificare il libro con il suo recensore. Lo

rivelano le domande rivolte più all’interlocutore che al testo; le impressioni

e le suggestioni espresse dal gruppo sono spesso stimolate da letture e

autori condivisi, così come le diverse interpretazioni che scaturiscono

dall’insieme delle proposte presentate.

Un fattore interessante, anche se non sempre riproducibile in contesti

istituzionali con gruppi omogenei, è quello dell’intergenerazionalità, data

dalla partecipazione dei diversi componenti famigliari all’esperienza. Da

questo punto di vista “Dimmi cosa leggi...” è uno stimolo alla ricostruzione

di una nuova etica nei rapporti tra le generazioni, in quanto individua

obiettivi comuni a bambini, adulti, giovani e anziani, che possono

supportarsi a vicenda con i loro diversi bagagli d’esperienza. È una

concreta occasione di verifica dell’infondatezza degli stereotipi che

connotano le diverse immagini dei cicli di vita, in particolare quelli della

“gioventù” e della “vecchiaia”. Ispira il confronto generazionale al criterio

di reciprocità, giacché è bisogno vitale di tutte le generazioni creare

legami e condividere esperienze con persone di età diverse, anche per una

più ricca conoscenza dei cicli di vita.

Il valore formativo del laboratorio non sta solo nella riflessione su quanto

si esperisce tramite il libro, anche se il rendere esplicita quella dialettica

interiore di idee e sentimenti, che la lettura personale implica, consente di

rivelare a se stessi ciò che l’immaginazione può aver creato: un io più

profondo e sofisticato, più aperto al possibile, più ricco di aspettative e

intraprese. La disponibilità ad attivare realmente le proprie potenzialità, a

sperimentare le nuove competenze cognitive ed affettive che la lettura del

libro ha fatto emergere viene, in qualche modo, esplicitata e compresa per

se stessi nella propria “recensione” e verificata attraverso i rimandi del

Page 127: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  126

gruppo, eludendo il rischio che rimanga solo in-potenza.

Il confronto che avviene in laboratorio tramite la mediazione del libro ha la

natura del dono in senso maussiano come triplice vincolo di dare, ricevere

e ricambiare.164 Spesso i libri recensiti vengono prestati tra i partecipanti e

le “conversazioni” proseguono anche fuori del laboratorio. È, quindi, un

confronto formativo, che favorisce la costruzione di legami, al cui interno

le dinamiche di tipo relazionale sono privilegiate, rispetto ad esigenze di

tipo utilitaristico. Ciò che l’esperienza realizza è una sorta di comunità

letteraria che, però, a differenza di quella descritta nel libro di Bradbury

“Fahrehneit 451”,165 non è formata da libri trasformati in uomini, quanto

da persone che sono state trasformate dalla lettura di libri e che, non

hanno la necessità di conservare la memoria letteraria dell’umanità,

quanto di contribuire all’arricchimento della propria e altrui umanità, anche

attraverso la letteratura.

A chi conduce il laboratorio è richiesto di operare nel senso di una regia

educativa, diversa per ogni contesto e gruppo, al quale l’attività è rivolta.

Si tratta di organizzare un setting accogliente ed aperto, una sorta di

“caffè letterario”, in cui ciascuno possa sentirsi sufficientemente a proprio

agio e disponibile a presentare agli altri la sua particolare recensione,

senza timore di essere giudicato o valutato. Al conduttore spetta il compito

di avviare la conversazione, delineare la cornice dell’incontro, rammentare

le regole e i vincoli di tempo per consentire a tutti di intervenire. Se è

necessario definire lo scopo per dare un senso all’iniziativa, gli obiettivi

possono rimanere impliciti, in modo da privilegiare l’attività rispetto ad

essi, per evitare che i partecipanti si sentano vincolati a compiti specifici.

Gli obiettivi saranno esposti in un’eventuale discussione finale, nel corso

della quale potranno essere segnalati dagli stessi componenti del gruppo,

                                                                                                               164 Cfr. Mauss M., Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 2002, ed. or. 1925. 165 Ci si riferisce alla trama del famoso libro di Bradbury “Fahrehneit 451, nel cui finale il protagonista Montag incontra un gruppo di uomini fuggiti dalla società che, insieme ad altri loro compagni, costituiscono la memoria letteraria dell'umanità, perché conoscono a memoria, e in questo modo custodiscono, numerosi testi letterari andati ormai perduti. Vedi Bradbury R., Fahrehneit 451, Mondadori, Milano, 1999, ed. or. 1953.  

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  127

che ne potrebbero indicare anche di non previsti. Può essere importante

costruire una memoria dell’esperienza, annotando su un cartellone, nel

corso delle presentazioni, il titolo dei libri, l’autore, il recensore, e

disponendo altri spazi per eventuali annotazioni del conduttore e/o dei

partecipanti. Al termine si rende, così, disponibile una “bibliografia

comune” per ulteriori riflessioni e possibili interpretazioni sull’identità

molteplice del gruppo.

4.5 Un laboratorio di lettura performativa

La seconda proposta operativa si riferisce specificamente ai seminari

condotti dal prof. Paolo Puppa nell’ambito del “Master in Comunicazione e

Linguaggi Non Verbali: Psicomotricità, Musicoterapia e Performance”,

presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Siamo nel contesto della

“performance”, che Puppa pratica come regista, drammaturgo e

performer, appunto, ma anche come autore di testi destinati alla scena, e

come studioso, in quanto docente di Storia del Teatro. La partecipazione

ai suoi seminari, in qualità di tutor dei gruppi di allievi del Master, mi

consente di descrivere la metodologia di Puppa, e di presentarla nella tesi,

in quanto connessa ad un interessante modello di narrazione formativa,

nel quale la lettura è stimolo iniziale, sfondo tematico ed espressione

corporea attraverso la voce.

Prima di descrivere il quadro delle tecniche utilizzate nel seminario, è

necessario delineare la cornice entro la quale si realizza l’attività. Si tratta

di un laboratorio di performance, che si presenta come luogo dell’extra

ordinario, dove si ha a che fare con l’interiorità, l’energia, le potenzialità, la

creatività e l’immaginario.

Nel laboratorio, si lavora su ciò che accade qui ed ora a contatto con uno

spazio e un tempo al tempo stesso personali e condivisi nella relazione. È

composto da un gruppo di persone variabili, nel caso in questione si tratta

di allievi ed allieve che frequentano un Master post-lauream. Non importa

che si abbia a che fare con attori o con non professionisti, ciò che si

richiede è la disponibilità a “mettersi in gioco” per sperimentare

Page 129: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  128

l’espressività corporea attraverso il movimento creativo, il gesto, la voce.

È, quindi, un luogo di condivisione con l’altro e per l’altro, di ricerca che va

oltre il vivere quotidiano, di apertura all’immaginazione e al simbolico, di

riconoscimento del valore della propria esistenza, e dei propri atti. Da

questo punto di vista, è un’occasione per liberare il corpo dalle sue

abitudini quotidiane e acquisire una più mirata efficacia espressiva, per

sviluppare l’intelligenza emotiva, la conoscenza e il controllo delle proprie

emozioni, il riconoscimento di quelle altrui, per sperimentare nuove

dinamiche relazionali e conseguire una consapevolezza del vissuto che nel

corpo s’incarna.

Si realizza, così, un percorso che inizia con la conoscenza, l’accettazione di

sé e l’incontro con gli altri, per sviluppare attraverso l’improvvisazione un

processo trasformativo, condurre una rielaborazione creativa di quel

processo per giungere ad una sua restituzione sotto forma artistica, la

“performance”, appunto. L’improvvisazione si declina su una ricerca di

naturalezza e di autenticità attraverso un training intenso, che guida

l’allievo a scegliere dal proprio repertorio personale ed affinarlo per

costruire una composizione che ne rilevi i momenti e i passaggi più

significativi. Nella costruzione della performance ogni allievo è orientato a

diventare autore, regista, attore e primo spettatore di ciò che fa; ma ciò

che fa non è la semplice esecuzione di una volontà, bensì

un’improvvisazione in “condizioni preparate”, che mobilita tutta la persona

e la cui partitura, dunque, non ha nulla a che vedere con l’immagine che

se ne può fissare a posteriori. È piuttosto un percorso di dislocazione degli

stimoli, anche tematici e di continua decisione circa i ritmi con cui

rispondere.

Puppa tende a privilegiare da una parte la dimensione performativa della

narrazione, dall’altra la funzione narrativa della performance. In base a ciò

il suo performer è anche, come lui stesso si definisce, “dramaturg”. Infatti,

molti dei suoi testi teatrali sono dei “copioni”, frutto di rielaborazioni di

una “scrittura orale” che non attende di essere recitata ma rivissuta e ogni

volta reinterpretata.

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  129

"[...] la scrittura oralizzante e la resa performativa svincolata dal modello

recitativo accademico sono talmente connaturati che l’assolo di narrazione

si colloca sia nell’emancipazione estrema dell’attore, rispetto ai freni di una

drammaturgia vincolante e di una regia costrittiva, tipica della scena

istituzionale, sia nella polemica e gioiosa deprofessionalizzazione

dell’interprete”.166

Una delle sue più recenti performance, ad esempio, tratta dalla sua

raccolta di monologhi,167 presenta casi clinici che rimandano a miti antichi,

calati nel Nord Est di oggi, tra disagio, disperazione e paura di vivere.

Personaggi appartenenti a mondi classici lontani, tra Omero e la tragedia

greca o la Bibbia, rivivono, così, in una veste laicizzata e prosaica.

Per il “dramaturg” Puppa, legato com’è al “qui e ora” della performance

narrativa, diventa più complicato introdurre personaggi in un testo

contemporaneo, perché occorre trovare un sistema per raccontare il loro

passato, la loro situazione. Al contrario prendere dei personaggi celebri,

evita tutto un lavoro di “flashback”, in quanto c’è una condivisione di

conoscenza con lo spettatore. Ciò valeva anche per il teatro antico, dove

la tragedia rappresentava sempre dei personaggi che erano già conosciuti.

Inoltre, l’autore segue l’intuizione junghiana, secondo cui i miti muoiono

nel moderno per rinascere sotto forma di patologie: nevrosi, depressione,

solitudine etc.

In questa prospettiva, Puppa inizia il suo seminario invitando ogni allievo

alla lettura personale di uno dei suoi testi, per lo più monologhi, appunto,

o “scritture dialogiche”, nelle quali ogni personaggio racconta dal suo

punto di vista la trama degli eventi, come in una singolare autobiografia

letteraria.

                                                                                                               166 Cfr. Puppa P., La voce solitaria, Bulzoni Editore, Roma, 2010. 167 Cfr. Puppa P., Cronache venete, Titivillus, Pisa, 2012.

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  130

Ogni seminario è legato ad un tema, ad una particolare visione della

condizione umana. Ad esempio, nell’affrontare il tema del carcere e del

disagio Puppa ha proposto la lettura del suo monologo “Minotauro”.168

Per indagare il tema del viaggio e dell’esilio è stata proposta al gruppo la

lettura del “Centauro”, 169 un monologo ispirato dal secondo Canto

dell’Eneide, rivisitando alcuni motivi dell’epos classico: la fuga di Enea da

Troia in fiamme, l’incontro con la madre Venere, l’odio di Giunone, fino al

celebre episodio del racconto sulla fine della città fatto a Didone. Gli

eventi sono interpretati come vissuti da tre diversi personaggi: un

adolescente, un mafioso siciliano, un esule palestinese.

Mentre “Parole di Giuda”170 è un copione teatrale che traduce sulla scena

le nuove verità emerse intorno ad una creatura tanto vilipesa ed è

incentrato sul tema del tradimento.

La lettura personale e intima dell’opera scelta è una “precondizione” del

seminario, utile a creare un background comune, una “predisposizione” al

training laboratoriale, il cui inizio vero e proprio consiste in una lettura

collettiva, nella quale gli allievi si alternano al leggio per recitare ad alta

voce l’intero copione.

La lettura individuale del testo stimola una dimensione di concentrazione e

di silenzio individuale, un pensiero interno che assorbe e colloquia

incessantemente con i contenuti del testo. Essa stimola soprattutto la

vista, crea un atteggiamento di valutazione soggettiva, implica un

processo di identificazione nei personaggi e di proiezione in essi delle

proprie emozioni e dei propri sentimenti, facilitato dal carattere

monologante della scrittura di Puppa. Tale valenza autoformativa della

lettura s’arricchisce e si trasforma nel contempo attraverso la lettura ad

alta voce che, rievocando quella collettiva dell’antichità, stimola

soprattutto l’udito e crea un forte senso di gruppo e di affidamento alle

suggestioni di colui che legge. Puppa orienta ogni allievo verso la

                                                                                                               168 Cfr. Puppa P., Il Minotauro, in Famiglie di notte, Sellerio, Palermo 2000. 169 Cfr. Puppa P., Il Centauro. Dal canto II dell’Eneide, in Culture Teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo, n. 9, 2003. 170 Cfr. Puppa P., Parole di Giuda, Metauro Edizioni, Pesaro 2007.

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  131

drammaticità del testo, tramite la ricerca di un uso attento e sofisticato

della voce: le pause, i silenzi, le interruzioni del flusso verbale, la

sillabazione frantumata, l’alterazione dei toni, etc.. Parafrasando la

metafora biblica, possiamo dire che la lettura ad alta voce trasforma il

verbo in carne, la parola in corpo, consentendo a ciascuno di esplorare

quel “comportamento ritrovato”, che agisce all'interno di frammentazioni

comportamentali, e di entrare non soltanto in un'altra personalità, ma di

agire a metà tra le due identità: quella del sé e quella del personaggio.171

Tale rito collettivo introduce l’intervento di codici diversi, che annunciano

l’apporto di tradizioni e traduzioni in un incessante gioco di fedeltà e

tradimenti del testo tra campi semantici e linguaggi espressivi.

Infatti, la seconda fase del laboratorio prevede una reinterpretazione

scenica della vicenda attraverso improvvisazioni verbali e fisico-ritmiche

adeguate alle capacità e alle motivazioni degli allievi, alle loro storie

personali e professionali. Costoro, da soli, a coppie o in piccoli gruppi,

sono chiamati a costruire “performance” sulle “topiche” del copione.

Questa ricerca-azione corporea, psichica ed espressiva richiede un training

rigoroso che Puppa conduce come mediatore della relazione intra e

interpersonale, come “Teacher of Performer” in senso grotowskiano,172

che “impedisce d’impedire”, per favorire lo sviluppo di emozioni e la presa

in carico di responsabilità del sé e della scelta dei propri atti, e come

regista assumendosi il compito di connettere i diversi prodotti delle

improvvisazioni in un “ensamble di gruppo”. Per realizzare quest’ultima

fase del laboratorio, quella che Puppa definisce la “performance

collettiva”, occorre una continua messa a punto e ripetizione di atti, gesti,

suoni e voci, non per memorizzarli in vista della ripresa scenica, ma per

apprenderli e interiorizzarli automaticamente come sequenze di un rito.

L’aspetto rituale, infatti, riveste una straordinaria importanza nel percorso

del training formativo.

                                                                                                               171 Cfr. Schechner R., La teoria della performance: 1970-1983, Bulzoni, Roma 1984. 172 Cfr. Richards T., Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano, 1993.

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  132

Il rito in questo caso, come per Turner, 173 ha una funzione di

riconferma e di cambiamento, serve a codificare e celebrare. Nel rituale il

gruppo può individuare e sentire un rinnovato senso di appartenenza.

Assume, così, un valore contenitivo molto forte e una notevole pregnanza

emotiva. Non è una sovrastruttura di forme rigide, ma un insieme

connesso di strutture in co-evoluzione per mantenere quei legami che

permettono al flusso narrativo di essere riconoscibile all’interno e

comprensibile all’esterno, pur nei suoi diversi significati e differenti

interpretazioni.

Come si può ben comprendere, si tratta di un’intrapresa complessa che

parte dal testo, non tanto come “pre-testo” da tradurre o reinterpretare,

quanto piuttosto come “con-testo”, in cui esperire la problematicità

dell’esistenza umana nei suoi aspetti tragici e drammatici, ma anche ironici

e caricaturali. Ci troviamo, così, nuovamente in presenza di uno sfondo

narrativo che, più che raccontare, evoca vissuti fantasmatici, nel tentativo

di esorcizzare i piccoli mostri che s’annidano nei nostri mondi interiori, e di

riconciliare la molteplicità dell’individuo attraverso i personaggi creati, tra

l’umano di volti e corpi e il “superumano” delle maschere interpretate.

Forse sono attribuzioni eccessive, o forse no, se si considera come questa

metodologia d’intervento recupera una dimensione autoformativa, che si

gioca in una dinamica di de-costruzione dell’identità e assume una valenza

che va oltre l’educativo verso la terapia, intesa come come “cura sui”.

4.6 Le scritture-di-sé: verso una definizione di metodi

La seconda tecnica di vita che Cambi individua per la cura sui è la

scrittura, 174 il cui mondo, a detta dell’autore, si è specializzato e

frantumato, sottoponendosi a un processo di disseminazione. In

particolare, il macro-ambito delle “scritture-di-sé” presenta una

molteplicità di forme espressivo-comunicative che vanno dall’epistola al

blog, e un pluralismo delle regole sintattiche e semantiche nel passaggio

                                                                                                               173 Cfr. Turner V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986. 174 Cfr. Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit..

Page 134: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  133

dalla scrittura tradizionale alla multimedialità.

Con riferimento alle scritture dell’io più tradizionali, nel solco di quella

cultura greco-ellenistica da cui proveniamo, possiamo considerare scrittura

di sé la “poesia lirica”, in quanto espressione del sentire del soggetto, della

sua sensibilità e creatività personale, del suo linguaggio. Anche il

“romanzo”, come abbiamo analizzato nel primo capitolo di questa tesi, è

scrittura di sé, in quanto per molti aspetti, gli altri io che vi compaiono

sono una proiezione dell’autore. Inoltre, sono scritture di sé, in modo più

diretto, tutte quelle forme espressive che vanno dal diario alle memorie e,

in modo particolare, l’autobiografia.

“Alle scritture-di-sé il soggetto affida il ruolo di farsi eco, vettore e forcipe

del proprio vissuto, sia come esperienze fatte sia come stile di far-

esperienza, come modo di disporsi rispetto agli eventi del vissuto, e

privato e pubblico, e intimo e storico a un tempo. Tali scritture sono

sempre, ‘specchio’ e ‘amplificazione’ dell’io-vissuto/vivente, momenti di

‘filtro’, di ‘deposito’, di ‘analisi’ e di ‘decifrazione’ più pacata, più riflessiva,

ormai fatta ‘ex post’”.175

L’autobiografia è, secondo Cambi, un “cammino per” un’identità, un “gioco

di interpretazione”, una “conquista di senso”, ma anche di non-senso, in

quanto predispone ad un conflitto in se stessi e con se stessi in vista di un

rimodellamento dell’io nel sé e un ricollocamento del sé nell’io. È in questa

prospettiva che la scrittura è “prendersi in cura” e “prendersi cura”, per

proteggersi dalla frammentarietà dell’esperienza, salvarsi dalla dispersione

e dalla perdita del vissuto.

L’autore individua nella Recherche di Marcel Proust176 l’esempio più alto e

complesso di scrittura autobiografica. Proprio attraversando quella sua

“cattedrale gotica” possiamo ritrovare i nuclei fondanti della scrittura di sé:

la “ricerca” come ricerca del passato e via d’accesso ai ricordi (la

                                                                                                               175 Ivi, pp. 69 – 70. 176 Cfr. Proust M., Alla ricerca del tempo perduto, 4 voll., Mondadori, Milano, 1983-1993.

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  134

madeleine); il “percorso di eventi”, segni da interpretare per dare senso e

ordine alla propria identità (gli affetti famigliari, la vita di società, l’amore,

la stessa omosessualità dello scrittore); il “conflitto con se stessi” che si

gioca nella problematicità dei molti “io” presenti nel romanzo (Proust

insieme narratore, attore del vissuto e protagonista della Recherche).

Il modello proustiano ci presenta la scrittura autobiografica come la

realizzazione di un processo mentale articolato, complesso e asimmetrico,

rivolto al tempo stesso a riprodurre l’idea del sé e a tratteggiare un

ulteriore e possibile destino. In questa prospettiva, l’autobiografia è un

paradigma esemplare della cura di sé, in quanto attiva un percorso di

cambiamento del soggetto. Ciò che cambia tramite l’autobiografia non è

solo l’identità, che disvelandosi con la riflessione si dispone in un nuovo

ordine di senso; ma lo stesso prendersi cura di sé, in uno spazio interiore

dilatato e privilegiato, nel quale è possibile assumere un diverso

atteggiamento di comprensione e di tutela.

“Essa dà all’io identità e interiorità e riflessività a un tempo. E in questo

triangolo c’è il senso e il cammino del processo formativo”.177

La scrittura autobiografica, connettendo l’atto complesso di ideazione di sé

e del proprio mondo a quello costruttivo della composizione di un testo,

traccia “confini” e “strutture” del “progetto di sé”. Confini di tempo e di

luogo, come anche di età e di esperienze, fissando il processo stesso che

ha prodotto quell’io che oggi è la persona. Ripensare e comprendere i

propri confini è prender cura di sé, nel senso di farsi carico. È Il gioco

complesso dei confini a far emergere le strutture storiche e sociali,

psicologiche e ideologiche che consentono al soggetto di assumere

identità e senso, quel suo “habitus”, che una volta acquisito non può

essere dismesso, che permane come una risorsa e una potenzialità, fino

ad un ulteriore svolta della propria esistenza.

Questa è l’autobiografia contemporanea, che ha abbandonato l’intento

                                                                                                               177  Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 72.  

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  135

celebrativo e giustificatorio, per assumerne uno problematico di

ripensamento dell’io e di ricerca di sé. Un esempio a noi vicino di tale

mutazione è “La coscienza di Zeno” di Svevo,178 che, nonostante l’uso

della terza persona, che tende a separare soggetto e scrittura, è la

proiezione dell’autore stesso, il riconoscimento della sua stessa indecisione

di vivere, della sua problematicità, che viene assunta alla fine come

destino. In questo senso, l’acquisire consapevolezza di sé attraverso la

scrittura produce identità, e al tempo stesso ci trasforma e ci induce ad

impegnarsi nel mondo.

La scrittura di sé implica un’attenzione al testo e alle sue tecniche di

costruzione. A questo proposito Cambi si chiede cosa accade alla scrittura

nel tempo della comunicazione informatica. C’è il timore che venga

sottratta a quell’atto privato che sta dentro l’esperienza di coscienza

interiorizzata per affermarsi come tecnica di tecniche per un uso

immediato e totale. Per dirla con Benjamin,179 c’è il rischio che la scrittura

perda l’”aura”, si desublimi per farsi mezzo, e come tale merce. “Blog” e

“forum”, insieme alle altre forme di multimedialità, pur con le loro evidenti

potenzialità creative e articolazioni comunicative, si consumano

nell’immediatezza della loro funzionalità, mettendo a repentaglio il ruolo

cognitivo-espressivo, problematico e interpretativo, che sta alla base della

testualità complessa della nostra cultura occidentale. Quella di Cambi può

sembrare una preoccupazione eccessiva, soprattutto per le prime

generazioni di “nativi digitali”, ormai giovani adulti; ma possiamo dire che

tutti, liberando la mano dall'impegno del segno grafico, abbiamo

potenziato e reso più dinamico e immediato il rapporto tra elaborazione

mentale e testo scritto. In questo senso la scrittura digitale è un

prolungamento dei nostri pensieri, che possono scorrere direttamente

sullo schermo senza bisogno di essere pre-costruiti col loro pieno senso.

Anzi, lo schermo del computer fungendo da specchio della nostra mente in

modo più rapido e diretto rispetto al foglio di carta, ci invita a pensare e

                                                                                                               178 Cfr. Svevo I., La coscienza di Zeno, Garzanti, Milano 2007. 179 Cfr. Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.

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  136

ripensare continuamente i propri pensieri, senza dover per forza rispettare

una sequenzialità lineare. Di contro, la possibilità che ci viene offerta di

poter stare contemporaneamente nell’intimità dei nostri pensieri e nella

rete pubblica dei pensieri e delle informazioni che arrivano dall’esterno, e

di poter ottenere rapidamente un riscontro delle nostre scritture private

con quelle degli altri, rischia di compromettere e frammentare quel

delicato processo di riflessività, interpretazione ed espressività che

caratterizza il testo scritto.

S’impone, allora, una riflessione critica sulla comunicazione informatica nel

tempo della “post-scrittura”, che non demonizzi le nuove tecnologie, ma le

collochi nel solco di un rinnovato impegno a riconoscere la complessità

strutturale del testo e il suo prezioso valore semantico e comunicativo.

Cambi a riguardo, riattualizzando le tesi di Barthes,180 pone in risalto il

“piacere della scrittura”, da coltivare proprio nella sua qualità di testo,

come esperimento sempre “in fieri”, interpretazione di significato e di

senso, dialogo con la corrente libidica del proprio inconscio, ed

espressione di forme estetiche.

La scrittura di sé va, quindi coltivata, sia per la sua funzione di piacere, sia

per quella di resistenza rispetto a quelle forme immediate, che riducono il

testo a comunicazione/informazione, eludendone la costruzione e le sue

complesse articolazioni.

In questa prospettiva, l’autobiografia si presenta come uno degli “esercizi

spirituali” privilegiati per la costruzione della propria identità, per la cura di

sé. Il riferimento al mondo classico-ellenistico, in cui la scrittura di sé

rivestiva un ruolo fondamentale, è utile a Cambi per sottolineare che

autocontrollo e umanità, come afferma la Nussbaum,181 e un’educazione

alla libertà del soggetto orientano una nuova educazione liberale, che

rinvia al tempo stesso all’antica lezione di Seneca, da cui discendono le

prime opere del genere, come il “Manuale” di Epitteto, i “Ricordi” di Marco

Aurelio, etc.. Ciò significa, quindi, che esiste una tradizione con cui

                                                                                                               180 Cfr. Barthes R., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1999. 181 Cfr. Nussbaum M., Coltivare l’umanità, Carocci, Roma, 1999.

Page 138: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  137

confrontarsi e a cui ispirarsi. Nella Modernità, il modello è senz’altro

sant’Agostino, con il quale l’autobiografia diventa un dialogo tra se stessi,

la coscienza e Dio, un iter pedagogico che attraverso l’esercizio della

memoria, condurrà alla Redenzione. Anche Rousseau, sulle orme di

Agostino, si sdoppia, ma in forma laica, tra l’io e la coscienza; il terzo non

è più Dio, ma la società, che non salva, ma al contrario fa degenerare. È

proprio contro di essa che Rousseau scrive le Confessiones, per andare

alla ricerca del vero sé. Per entrambi, come del resto anche per Proust,

seppur in modo più complesso, la memoria seleziona i segni delle

esperienze, e l’interpretazione orienta nella ricerca di sé e nella

costruzione del senso dell’esistenza.

Secondo Cambi, quindi, è lungo la traiettoria di tale tradizione di cultura

che possiamo articolare un metodo autobiografico come via di cura, intesa

come diagnosi, terapia e farmaco. L’autobiografia è infatti, per lo studioso

tutte e tre le cose insieme. È “diagnosi”, in quanto disseziona il vissuto del

soggetto, osservandolo dal punto di vista della coscienza. È “terapia”,

perché attraverso la produzione di senso salva la persona restituendogli

un’identità nuova. Ed è un “farmaco” che dalla malattia dell’io produce i

suoi stessi anticorpi e antidoti.

Inoltre, l’autobiografia racchiude in sé anche un significato più pedagogico

di cura che sta nel “prendersi-in-cura”. Qui sta la sua attualità, ed il

motivo della proposta formativa che si cerca di articolare in questa tesi.

Nella nostra società del disincanto l’individuo necessita di strumenti e modi

per rivelarsi a se stesso, collocarsi nei suoi molteplici ruoli e decidere di sé

riunificando ragione e sentimento. Per tali scopi il paradigma del

“prendersi-in-cura” va assunto all’interno delle istituzioni formative e delle

agenzie educative, così come dei servizi sociali per formare la coscienza

professionale di coloro che vi operano, e applicarlo alle esperienze

educative e alle relazioni di aiuto.

“L’autobiografia come pratica formativa anche professionale ha questa

precisa valenza: di abituare il soggetto ad ascoltare se stesso (e da lì

Page 139: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  138

l’altro), di delineare attraverso gli eventi un senso, di gestire quel senso in

modo consapevole, critico, aperto e responsabile, di dare al processo

formativo un traguardo personale e vissuto intenzionale. Ma, pertanto,

sempre problematico e aperto (= libero)”.182

L’autobiografia in ambito educativo e sociale è stata utilizzata da diversi

autori e da loro descritta in modelli, che hanno assunto in tempi recenti e

contemporanei una particolare efficacia e valenza autoformativa.

Nell’ambito di questa tesi ne presentiamo alcuni ritenuti più pertinenti con

quanto finora esposto, e tra i più significativi per le indicazioni di metodo

che se ne possono ricavare nelle prassi professionali e nei relativi

dispositivi d’intervento.

4.7 Le scritture-di-sé: l’approccio esistenzialista di Pineau

Nel panorama dei modelli e delle pratiche dell’autoformazione, Ivana

Padoan183 individua Pineau come erede di un approccio esistenzialista, in

quanto centrato sull’individuo, sul suo sviluppo personale, come presa in

carico dell'esistenza concreta, in tutte le dimensioni dell'essere: dal

conoscere, al fare, all'agire, all'esistere. Per quest’autore l'autoformazione

implica una doppia appropriazione: assumere su di sé il potere di

autoformazione, diventando, così, oggetto di formazione di se stessi per

se stessi.

Per Pineau il processo autoformativo si sviluppa in ritardo sia per la

nozione di incompiutezza dell'essere umano, sia per le forme

deterministiche ed evolutive di inculcamento nel corso della vita, e la

conseguente dipendenza educativa che ne deriva. La concezione

occidentale pedagogico-positivistica dell'educazione, e la concezione

psicologica, secondo la quale tutto accade nell'infanzia e nell'adolescenza,

hanno portato a privilegiare l’eteroformazione, ponendo l'accento quasi

esclusivamente sugli apprendimenti realizzati nel periodo della crescita                                                                                                                182 Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 91.  183  Cfr. Padoan I., Modelli e pratiche dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit..  

Page 140: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  139

biologica. Ciò ha creato un effetto alone di misconoscimento del potere

dell’individuo su di sé.

Solo gli “esploratori di eccezione”, come sono definiti da Pineau,

cominciano a scoprire l'importanza dell'autoformazione, quando realizzano

lo scarto tra gli apprendimenti scolastici e quelli richiesti dalla pratica

professionale, e il valore e i vincoli della formazione sul lavoro.

È tramite le “biografie di vita” dei propri allievi che Pineau intuisce il valore

e l'importanza del sistema relazionale del contesto nella costruzione del

sé. La coscienza auto formativa e la necessità di rimettersi in discussione

con un'altra forma, implicano una rottura dello spazio vissuto e una

ricostruzione del senso e del significato delle relazioni personali e sociali.

Un primo indicatore di metodo, quindi, riguarda l’analisi delle “transazioni”

che avvengono negli spazi di vita dei soggetti. Si tratta di porre attenzione

ai significati di senso, che condensano sistemi interni con sistemi esterni e

alle forme trasversali transduttive, che operano nelle relazioni, occupando

tempi e spazi differenti. In questo senso autoformarsi consiste

nell’acquisire la capacità di gestire i rapporti transazionali dagli spazi di vita

quotidiana ai più estesi contesti sociali; il lavoro sulle transazioni permette,

così, alla persona di cogliere il proprio itinerario di vita, diventando

soggetto di formazione a se stesso.

Per Pineau, l’”autoformazione” si trova al vertice di un triangolo, alla cui

base si collocano l’”eteroformazione” fornita dall’istruzione e

l’”ecoformazione”, che si matura con l’esperienza. Si descrive, in tal modo,

un processo interattivo tra organismo e ambiente, che richiama il pensiero

sistemico di Bateson.184 L’autoriflessione, quale strategia autoformativa

che garantisce tale processo, si interiorizza e si personalizza come

emergente dal sociale attraverso la tecnica dell’”autobiografia”.

“Attraverso l'autobiografia il soggetto può ricostruire i frammenti

della sua vita e cercare di dare senso alle transazioni che gli

hanno permesso di modificare e di cambiare. Frammenti che

                                                                                                               184 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit..

Page 141: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  140

possono essere stati vincoli o risorse, ma che comunque lo

hanno indirizzato verso un senso o verso l'altro. La

riappropriazione dei frammenti prelude al costituirsi di alcune

comprensioni, di alcune padronanze di azione, ovvero di azione

di sé”.185

Pineau riprende, così, la lezione della “bildung” goethiana, di cui abbiamo

ampiamente trattato nel primo capito di questa tesi. Infatti,

l’autoformazione, attraverso le storie di vita, privilegia il paradigma

dell’esperienza vissuta a quello dell’apprendimento formalizzato. È

l’autobiografia ad innescare e favorire la riflessività della persona alla

ricerca del senso della propria esistenza, verso un diverso e nuovo livello

d’integrazione delle sue molteplici identità. Le storie di vita, in tal senso,

possono provocare quella che Mezirow indica come la trasformazione delle

proprie premesse, di cui s’è trattato nel precedente capitolo della tesi,

inducendo una trasformazione del soggetto, della sua storia e del suo

rapporto col mondo.

Per concludere la descrizione del modello autoformativo di Pineau, basato

sull’autobiografia, si riporta di seguito uno schema che illustra i campi

dialettici dell’uso delle storie di vita.

3 linguaggio

5 disapprovazione

4 distanziazione

2 passato

interlocutore 1

locutore 2

futuro

4 implicazione 5

approvazione

3 vita

                                                                                                               185  Padoan I., Modelli e pratiche dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit., p. 142.    

Page 142: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  141

- “l'asse uno mette in relazione il soggetto e il gruppo dei pari come

partecipanti del percorso, la presenza di feedback o di counselor è

assicurata solo su richiesta;

- l'asse due riguarda la dimensione storica che prende radici nel passato

ma si proietta sull'avvenire, la ricostruzione svela piste per le azioni

future;

- l'asse tre si situa al cuore dell'azione. Consiste nel trovare le parole per

raccontare la propria storia, parole che, come dice Pineau, possono

fare violenza alla vita;

- l'asse quattro è il lavoro sull'implicazione e la distanziazione. La

distanza di sé verso il testo, anche attraverso lo sguardo dell'altro

verso il proprio testo, innescano l'emergere dello sfondo epistemico

della propria storia. La dinamica della tensione è la dinamica tra il

diurno e il notturno della propria esistenza;

- l'asse cinque riguarda l'appropriazione o la disappropriazione

complementare al lavoro intrapreso. In questa tensione emergono gli

obiettivi, nuovi interessi che prendono spunto sull'esperienza, ma

parlano già dell'avvenire.”186

Come si vede, il processo di transazione messo in risalto dalla doppia

valenza degli assi è il principio che orienta l’autobiografia verso uno

scambio reciproco. La riformulazione da parte del gruppo di ascolto

permette di svelare la trama sottostante (il tacito e l’impensato) alla

comprensione del soggetto, in quanto troppo implicato nel proprio

racconto. Il lavoro autobiografico coinvolge un gruppo di pari, in cui le

regole e i vincoli valgono per tutti:

- ciascun partecipante comunica in quali condizioni desidera socializzare

la sua autobiografia;

                                                                                                               186Ivi, p. 145.  

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  142

- vale la regola del segreto, per cui nessuna allusione può esser espressa

al di fuori dell’attività;

- si ha diritto a non rispondere a domande che possono apparire

inopportune;

- la narrazione condivisa è preparata precedentemente all’attività di

gruppo.

Scrivere e raccontare la propria storia è, quindi, un modo per rielaborare

la propria esistenza e, nel contempo, aiutare altri adulti a comprendere se

stessi. Realizzarlo nel gruppo consente di raggiungere un ventaglio di

obiettivi significativi:

- “metacognitivi”: pensare come pensiamo, ed esplicitare le cause che ci

hanno portato a pensare in tal modo;

- “formativi”: decostruire/costruire la propria identità e una progettualità

che la guidi;

- “motivazionali”: cogliere e apprezzare il potere che si acquisisce su di

sé;

- “euristici”: dare un senso alla propria vita passata per comprendere il

presente attraverso il ricorso a teorie esplicative, così da progettare un

futuro in modo sempre più consapevole.

4.8 Le scritture-di-sé: l’approccio fenomenologico di Demetrio

Un altro autore-chiave, che può aprirci le porte verso l’acquisizione di un

metodo autobiografico è senz’altro Duccio Demetrio. Secondo la lettura

che ne propone Ivana Padoan, Demetrio contestualizza la forma auto-

educativa in una rilettura “originale/originaria” della condizione

fenomenologico esistenziale del soggetto, includendo in essa l’insieme dei

paradigmi della vita e della morte, del lavoro e del gioco. Viene, così, a

configurarsi una concezione unitaria della complessità vitale della persona.

Vita personale, professionale, simbolica e immaginaria non sono da

considerarsi ambiti separati dell’esistenza, bensì interagenti. Perché ciò si

realizzi, la formazione è chiamata a includere le logiche del formale, non

Page 144: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  143

formale e informale, in una prospettiva trasformativa e non gerarchica,

connessa alle necessità e possibilità del soggetto, dando qualità e valore

alle diverse forme della propria realizzazione esistenziale.

In questa complessità esistenziale, le pratiche di formazione che ogni

soggetto utilizza autonomamente nel corso della sua vita sono altrettanto

varie e complesse. Come per Cambi, sono pratiche di cura del sé,

finalizzate alla costruzione di quella forma comunicativa e conoscitiva di

cambiamento dell'esistenza. Più che di tecniche, si tratta di vere e proprie

pratiche tecnologiche dotate di una loro scienza, storia ed epistemologia.

L'autore le suddivide in “tecnologie rappresentazionali”, “conversazionali”

e “autoistruttive”. Vedi lo schema della pagina seguente.187

                                                                                                               187 Demetrio D., Manuale di educazione degli adulti, Laterza, Bari-Roma 2000, p. 184.

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  144

Forme della scienza Tipologia Linguaggi e simboli Tecnologie rappresentazionali

drammaturgica e spettacolare

Teatro, danza, riti collettivi, pellegrinaggio, musica, festa, circo, psicodramma, melodramma.

iconica Scultura, ceramica, pittura, grafica, mosaico, miniatura, affresco, ex voto.

Tecnologie conversazionali e discorsive

narrativa Scrittura parietale, manoscritti, lettere, storie cantate, mimate, illustrate, fiabe, fumetti.

predicatoria Orazioni, comizi, sermoni, letture esegetiche, proclami, catechismi, esorcismi

Interattiva Dai dialoghi interpersonali e di gruppo, alle teleconferenze e alle reti informatizzate, per giungere alla realtà virtuale.

Tecnologie autoistruttive

Veicolare Libri, giornali cartacei e murali, almanacchi, enciclopedie, dissertazioni, dispense, manuali, raccolte iconografiche, floppy disk, chiave usb-audiovideo, cassette, dispense di autoistruzione.

meditativa Preghiere, esercizi spirituali mandala, mantra, koan.

L’insieme di queste tecnologie riguarda quelle che Demetrio considera le

due forme dell’autoformazione: quella esterna e indipendente dalle nostre

volontà, e l’altra che ciascuno costruisce consapevolmente per il desiderio

di inseguire nella più totale libertà e indipendenza i suoi richiami. Quanto

più la prima sa dare risposte individualizzate, ma non per questo meno

condivise a livello relazionale, più essa è in grado di alimentare la seconda.

È attraverso l’autoformazione che il soggetto si riconosce tale, con una

vita propria e indipendente, seppur connessa con quelle altrui. Per lo

studioso, l’autoformazione si estende oltre la scuola o la professione, verso

Page 146: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  145

la costruzione di una “formae mentis” che metta la persona in grado di

attingere in autonomia per rielaborare il patrimonio acquisito. È un

progetto personale, un percorso di apprendimento e di perfezionamento

che va al di là delle conoscenze funzionali.

Tale educazione interiore che privilegia il dubbio alle certezze, ricerca le

domande e tollera l’incompletezza del conoscere, si svolge sia in luoghi

pedagogici in cui vi sia un programma che tende ad indurre eventi

riflessivi, ma anche e soprattutto in situazioni di esperienze umane: l'a-

more, la morte, il lavoro, il tempo libero, la conquista di uno spazio

sociale.

La cura dell’interiorità richiede un lavoro di “autopedagogia”, capace di

rinforzare l’io autoriflessivo, intorno ad una serie di intenzionalità

profonde, che Demetrio definisce “meditazioni”. Lo schema seguente ne

riporta la configurazione:

auto esclusione

auto prospezione auto

retrospezione

auto agnizione Ego

narrativo auto patia

auto cura auto

ispezione

auto esclusione

Secondo la Padoan i concetti evidenziati pongono alcune problematiche e

interrogazioni all'auto-pedagogia:

- “la problematica dell'autoesclusione: l'assunzione di una

consapevolezza, di una ricerca di un isolamento volontario, cercato e

senza voler esser disturbato;

- la problematica dell'autoretrospezione come ricerca di ciò che si pensa

di essere stati nel passato, un'attenzione traducibile con pratiche

autobiografiche;

- la problematica dell'autopatia, l'emozione di sentirsi vivo, come

capacità di un dialogo positivo con la propria interiorità;

Page 147: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  146

- la problematica dell'autoispezione pone l'esercizio di analisi applicato al

proprio agire e pensare: pensiero costante volto al dominio del proprio

agire;

- la problematica dell’autoinclusione, la consapevolezza di appartenere a

un gruppo, capacità di distinzione di disponibilità nei limiti della

relazione;

- la problematica dell'autocura, volontà di occuparsi di sé, all'insegna

dell'autonomia e dell'indipendenza nel pensiero e negli affetti;

- la problematica dell'autocognizione come scoperta di chi si pensa di

essere nel presente. Una tensione continua nel decifrare sé stessi nel

vissuto, nelle circostanze diverse e nelle attività di prova della propria

capacità;

- la problematica dell'autoprospezione, capacità di immaginarsi in una

proiezione di sé nel futuro, in un continuum del passato.”188

È interessante rilevare come Demetrio si ponga in antitesi ad una

pedagogia del dover essere e del dover fare, e come, nel riconoscere il

diritto all’autopedagogia, nel proporre un progetto di educarsi in prima

persona, la narrazione sia da lui ritenuta una via d’accesso privilegiata

verso, appunto, l’autoformazione. L’autobiografia,189 in particolare, suscita

in chi la esercita una sorta di riaffezione a se stessi e al proprio passato, e

al tempo stesso un’attività di carattere metacognitivo – autoriflessiva,

coscienziale, introspettiva – sempre più raffinata ed educabile. Da una

parte si tratta di raccontare quei passaggi esistenziali che hanno

contrassegnato la propria formazione, dall’altra, porre attenzione al lavoro

mentale che si compie per raccontarsi, spiegare chi siamo, che cosa ci

aspettiamo dalla vita. Occorre allora acquisire una “competenza

autobiografica”, alla quale si è tenuti a corrispondere se si vuole

padroneggiare un metodo spendibile anche socialmente. Tale prospettiva,

                                                                                                               188 Padoan I., Modelli e pratiche dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit., p. 160. 189 Cfr. Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, R. Cortina, Milano, 1996.

Page 148: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  147

che riflette quella di questa tesi, intende l’autobiografia non come un

genere narrativo solipsistico, bensì come metodo di testimonianza civile e

sociale per sé e per gli altri. Possiamo pensare la stessa storia come

all’intreccio di una moltitudine di storie individuali.

Secondo l’autore, per acquisire una competenza autobiografica occorre

mettere a fuoco due questioni fondamentali:

- l’importanza di considerare la vita come fonte conoscitiva privilegiata

riguardo l’apprendere dall’esperienza, l’incontro con i maestri, quegli

eventi apicali amorosi o dolorosi che ci rendono adulti, etc.;

- l’attività mentale indispensabile alla sua rappresentazione giorno dopo

giorno, in quei momenti di bilancio esistenziale, che stimolano la

narrazione di sé.

Perché entrambi questi momenti possano essere espressi e rielaborati, dal

punto di vista metodologico, che è quello che più ci interessa, si rendono

necessarie due prassi:

- sperimentare diverse strategie cognitive, creative e introspettive per

lasciare testimonianze e tracce esistenziali della propria storia

individuale, e anche per “dire di sé”, per presentarsi agli altri;

- circoscrivere durante o al termine delle attività di scrittura quei temi

individuati come possibili generatori di cambiamento, dedicando ad

essi una riflessione sempre più approfondita riguardo origine, ruolo e

ricorsività nella propria vita privata e pubblica.

In tal modo la memoria rivisitata dalla scrittura dà luogo a qualcosa che

l’oltrepassa. Ritrovare i propri ricordi, ritrascriverli suscita emozioni, altri

racconti e riflessioni, per il cui tramite è possibile prefigurarsi ciò che si

intende essere e fare.

In ciò consiste l’aiuto che educatori, assistenti sociali, docenti e formatori

possono offrire il più precocemente possibile a coloro di cui si occupano.

L’autobiografia come cura di sé risponde, perciò, da un lato alla conquista

di una sempre maggior consapevolezza del proprio stato esistenziale;

dall’altro alla scoperta, sempre più evidente, che scrivendo, si pensa di

più, in altro modo, si cresce in intelligenza. Potremmo affermare che la

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  148

scrittura di sé, in particolare, consente, su un piano metacognitivo, di

pensare i propri pensieri.

4.9 Le scritture-di-sé: l’approccio costruttivo-relazionale di Le

Bohec

Nel tentativo di esplorare in modo più mirato l’ambito delle tecniche

relative alle “scritture-di-sé”, ci affidiamo a un particolare autore, Paul Le

Bohec, allievo e seguace di Celestine Freinet ed esponente di rilievo della

F.I.N.E.M. (Fédération Internationale des Mouvements d’Ecole

Moderne).190 Il movimento degli insegnanti Freinet è rappresentato anche

in Italia,191 dove fra l’altro Paul Le Boech ha condotto numerosi seminari,

ad alcuni dei quali ho avuto l’opportunità di partecipare, traendone un

significativo bagaglio di abilità e competenze sul piano personale e

professionale.

Paul Le Bohec sviluppa e arricchisce la sperimentazione delle tecniche

freinetiane, definendo “ricerche-invenzioni” le proposte di attività che

elabora. A partire dall’interesse per le motivazioni che sostengono il suo

forte investimento in ambito pedagogico, si trova ad analizzare la propria

traiettoria di vita e quella degli allievi alla Facoltà di Scienze della

Formazione di Rennes.

Avverte allora come alcuni di questi studenti, che aveva ritenuto carenti,

fossero in realtà bloccati nel loro apprendimento, perché “ingombri” dai

propri condizionamenti.

                                                                                                               190 “La Federazione è stata fondata dal pedagogista e Maestro francese Celestin Freinet nel 1957. Il suo scopo, ora come allora, è di realizzare nei diversi paesi del mondo le condizioni per il diritto di tutti all’istruizione secondo i principi dell’educazione attiva, e di dotare le istituzioni scolastiche di risorse tali da consentire un’educazione dinamica e una reale alfabetizziazione culturale.” Vedi <www.fimem-freinet.org> 191 “Il Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) è nato in Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet. All’indomani della guerra, nel momento di pensare alla ricostruzione, alcuni maestri quali G. Tamagnini, A. Fantini, A. Pettini, E. Codignola e più tardi B. Ciari, M. Lodi e tanti altri, si unirono attorno all’idea di una cooperazione solidale che diviene crescita e integrazione sociale. Non si è trattato solo della introduzione e utilizzazione di alcune tecniche di base, ma di dare vita a un movimento di ricerca che ponga al centro del processo educativo i soggetti, per costruire le condizioni di un’educazione popolare, in quanto garanzia di rinnovamento civile e democratico.” Vedi: <http://www.mce-fimem.it>  

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  149

Trova nella pedagogia freinetiana dell’”espressione-creazione” un modo

per aiutarli a fare “pulizia interiore”, così da renderli più disponibili

all’apprendimento e capaci di acquisire nuove conoscenze.

Citando Pierre Boulez, Le Bohec afferma che “l’espressione presuppone un

detonatore. Occorrono un esplosivo e una miccia, e un detonatore per

accenderla”;192 L’esplosivo, afferma l’autore, esiste in ognuno di noi fin

dalla nascita e si costituisce attraverso gli eventi della nostra esistenza. In

tal senso, ogni creazione di una nuova tecnica pedagogica costituisce

un’ulteriore possibile miccia.

In questa prospettiva Le Bohec sviluppa il metodo delle “co-biografie

professionali” nella formazione:193 l’elaborazione, la raccolta e il confronto

in gruppo di biografie personali, attraverso le quali si cerca di individuare i

debiti familiari e il progetto di vita di ognuno quale fonte della propria e

dell’altrui formazione.

Descrivere il metodo delle co-biografie di Le Bohec significa avventurarsi

nel racconto di un racconto, anzi di molteplici racconti, che il maestro

stimola a narrare attraverso spunti di riflessione che inducono ciascun

“biografo” ad uno scavo profondo della propria storia e della propria

“psico-storia”. La condivisione dell’esperienza che si svolge nel gruppo

consente di eludere la dimensione solipsistica della scrittura, ma è proprio

lo specchio degli atteggiamenti e dei comportamenti degli altri ad aiutare

ciascuno a concentrarsi sul proprio racconto. Il formatore legge le

dinamiche del gruppo, sopporta i silenzi e tollera le pagine bianche degli

allievi, li invita discretamente a superare i timori, le ritrosie, le ansie che si

addensano intorno al compito di indagare se stessi a partire dalle proprie

origini. Orienta e chiarisce le dimensioni emotive ed affettive, che la

scrittura di sé implica; fino a comunicare concretamente i propri pensieri a

margine dei testi e, come risultato delle reazioni dell’allievo biografo,

proporre nuove vie di ricerca. In seguito, quando il gruppo si è attivato,

                                                                                                               192 Le Bohec P., L’école, réparatrice de destins? Sur le pas de la méthode Freinet, Ed. L’Harmattan, Paris, 2007. 193 Cfr. Le Bohec P., Les co-biografies dans la formation, in Documents de l’Educateur P.E.M.F., Cannes, 1985. Vedi <  http://www.icem-pedagogie-freinet.org/node/20976>.

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  150

stimola l’espressione di sé per se stessi e per gli altri, salvaguardando

l’intimità, ma anche esponendo ciascuno agli altri attraverso forme di

protagonismo protetto. In tal modo favorisce le intese e la creazione di

coppie o sottogruppi ristretti in vista del lavoro sulle corrispondenze

biografiche. Si tratta di passare da un pensiero lineare centrato sul sé e

sulla propria visione del mondo e degli altri, ad un pensiero più complesso

e aperto alla problematicità del reale e delle relazioni; da un pensiero

dicotomico in base al quale ci identifichiamo sempre e solo con una parte

del sé, ad un pensiero complementare che ingloba le parti, anche quelle

che di solito restano nell’ombra o che tendiamo a proiettare al di fuori di

noi, negli altri e che invece, tramite il confronto e lo scambio possiamo

ritrovare e riconoscere in noi stessi, per tollerarle e rielaborarle in vista di

futuri cambiamenti. Così, il lavoro sulle co-biografie realizza un

movimento, un trascorrere dal riflettere come identità singolare ad un

riflettere come identità plurale. Lo schema nella pagina seguente delinea

in sintesi gli indicatori di questo passaggio che è continuo e reciproco.194

                                                                                                               194 Liberamente tratto da: Movimento di Cooperazione Educativa in <http://www.mce-fimem.it/archivio/down/2003/scuola/down/aiutarsi.rtf>.

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IDENTITÀ SINGOLARE IDENTITÀ PLURALE

Rapporti caratterizzati dalla logica lineare, del tutto o niente (o ci capiamo o non ci capiamo)

Rapporti caratterizzati dalla logica costruttiva, in cui diversi elementi possono rapportarsi in una molteplicità di modi (non ci capiamo molto nella discussione, ma ci capiamo bene nel cercare di divertirci, nel cibo,...)

L'individuo viene considerato in assoluto; ogni informazione, evento, conoscenza è in rapporto con l'individuo soltanto.

Importanza dei contesti. Ogni evento può collocarsi in diversi contesti.

Il soggetto, in rapporto alla conoscenza, è egocentrico: ritiene esista un solo modo di conoscere, il proprio.

Il soggetto, in rapporto alla conoscenza, è epistemico e sociocentrico: è capace di una pluralità di modi possibili di conoscere e tiene conto dei modi altrui.

Il linguaggio è impiegato per trasmettere un sapere con caratteristiche statiche e con un'organizzazione di tipo gerarchico, con un registro formale

II linguaggio è strumento regolatore del rapporto tra individuo e individuo, individuo e contesto, ed è flessibile e connettivo

L'identità in rapporto all'apprendimento procede attraverso l'omogeneità dei soggetti che apprendono: ogni elemento che determina una diminuzione dell'omogeneità è considerato ostacolo all'apprendimento

L'identità in rapporto all'apprendimento procede attraverso la comparazione delle pluralità di richieste e di modalità e stili. L'eterogeneità del gruppo di soggetti (diversità) è un dato di realtà e determina la stessa possibilità di conoscere.

Sarebbe riduttivo parlare di un metodo delle co-biografie. Dalle

considerazioni che Le Bohec trae dai suoi resoconti, emerge piuttosto

l’intenzione di favorire la ricerca da parte di ciascun allievo di un proprio

metodo auto-biografico, che si traduce nel rigore di una “tecnica di vita”

personale attraverso la scrittura-di sé.

“Chi segue le tracce di Freinet si sforza sempre di partire

dall’esperienza reale, dalla vita stessa. E’ a partire dai fatti, dagli

avvenimenti e dagli interrogativi che essi suscitano negli individui

- e dalle ipotesi che non mancano di scaturire nei gruppi di

Page 153: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  152

ricerca di cui essi fanno parte - che possono realizzarsi le

acquisizioni più solide, le migliori integrazioni di un sapere”.195

Punto di partenza è una vera e propria anamnesi familiare, una raccolta di

fonti, di dati personali e dei propri famigliari (genitori, fratelli, sorelle,

nonni, zii...), di tutte quelle informazioni, notizie, sensazioni, eventi apicali,

aneddoti, etc., che orientano ciascuno a delineare una sorta di diagnosi

personale, in base alla quale esplorare le proprie traiettorie di vita; fare un

bilancio esistenziale, attraverso il quale riconsiderare i debiti e i crediti

dovuti o ricevuti dal proprio ambiente famigliare, dai vissuti infantili, dai

primi inserimenti nella vita sociale: la scuola, le amicizie, gli amori, gli

adulti di riferimento, etc. Si tratta, in qualche modo, di riconciliarsi con il

proprio passato, con i conflitti, le fughe, i rifiuti, le rinunce per

comprendere quanto sia dovuto alle proprie scelte e non sempre

imputabile a un destino giudicato avverso. Al tempo stesso dal proprio

bilancio emerge quanto ciascuno ha acquisito nel corso del proprio

sviluppo in termini di conoscenze, di abilità (cosa ho imparato e da chi),

come anche in termini di intelligenza emotiva, di capacità relazionali e

sociali, i propri sogni, le proprie aspettative, etc.. Ciascun allievo nello

scambio biografico acquista da una parte la capacità di far testimonianza

di sé, dall’altra di proporsi quale ascoltatore attento, interessato e mai

giudicante della testimonianza altrui.

“È a partire da se stessi e dagli elementi della propria vita che si

può consolidare la propria comprensione del mondo. La vita degli

altri può costituire un utile specchio per riflettercisi. Bisogna che

esploriamo i contesti del nostro passato per situarci meglio nel

nostro presente. Ci occorre uno sguardo approfondito per

discernere meglio elementi che non sono immediatamente

coglibili. In molte professioni, l’adulto è uno ‘strumento’ di

fondamentale importanza. Bisogna quindi perfezionare tale

                                                                                                               195 Le Bohec P., Les co-biografies dans la formation, in Documents de l’Educateur, op. cit.

Page 154: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  153

strumento cercando di chiarire il massimo possibile su di noi.

Saremo, così, molto più disponibili”.196

Per comprendere come iniziare un’autobiografia che implica la propria

genealogia, riportiamo di seguito una griglia che serve, appunto, da

traccia per scrivere di se stessi.

Racconta un episodio significativo personale......................................................

Scolastico........................................................................................................

Familiare.........................................................................................................

Un ricordo del contesto ambientale....................................................................

Come si trascorreva una festività.......................................................................

Vacanze durante l’infanzia.................................................................................

Quali richieste facevano i genitori rispetto al successo scolastico?........................

Che previsioni venivano fatte (o vengono fatte) rispetto all’investimento nella vita

professionale futura?........................................................................................

Una persona che ha lasciato una traccia in te o nella tua famiglia........................

Un cambiamento nel regime di vita familiare che ha inciso significativamente.......

Momenti “ascendenti” o “discendenti” sul piano economico, sociale,................

del regime di vita familiare...............................................................................

Qual è stato o è il tuo posto in famiglia nella ‘serie’ familiare (genealogia

genitori/figli; rapporti con fratelli/sorelle e collocazione nella ‘fratria’:

maggiore/minore, mediano,...; altri eventuali parenti;...)....................................

Come avrebbe potuto essere la tua vita se... (ad es.: se avessi avuto o non

avessi avuto fratelli/sorelle,...)...........................................................................

Cosa attribuisco ai miei genitori rispetto alla mia evoluzione successiva alla vita in

famiglia (‘debiti’ o ‘crediti’)

- in positivo...............................................................................................

- in negativo..............................................................................................

A coppie. Tentate un’analisi comparata di ‘casi’ familiari......................................

È qui implicito un presupposto etico che comporta un principio di

assertività della propria testimonianza, per cui, rivolgendosi a se stesso e

                                                                                                               196 Ivi

Page 155: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  154

agli altri, ciascuno dovrebbe poter affermare: “So solo ciò che tu mi dici”.

In tal senso, la funzione di chi conduce tale percorso auto-formativo,

tramite la scrittura-di sé, è anche quella di indurre l’allievo-biografo a

mettersi veramente in gioco, eludendo il compiacimento narcisistico e/o

superando la paura del giudizio. Per questo motivo, potremmo dire,

parafrasando Foucault,197 che la ricerca della propria “parresia”, nel senso

della verità più intima, significa indagare i modi di parlare a un individuo,

all’anima di un individuo: un atto che riguarda la maniera in cui

quest’anima verrà formata.

                                                                                                               197 Cfr. Foucault M., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009.  

Page 156: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  155

Conclusioni

Giunto al termine di questo lavoro, sento l’urgenza di scrivere in prima

persona e di esporre le mie conclusioni in quella forma narrativa che ho

tentato di analizzare nel corso della tesi. I motivi di tale scelta sono diversi

e proverò a raccontarli in questa riflessione finale.

Prima di tutto, una volta sgravato dal compito di elaborare un testo

congruente con il tema trattato e coerente con le finalità che avevo

prefigurato, avverto un senso di maggior consapevolezza su quanto sono

andato acquisendo nel corso del lavoro di tesi, e un sentimento di libertà

che mi invoglia a sciogliere i pensieri dai vincoli della ricerca teorica per

approcciarmi ad un’euristica più affine alla mia professionalità.

Durante la ricerca delle fonti, che ha preceduto e accompagnato il lavoro

di tesi, mi sono reso conto che nell’universo della formazione la

dimensione narrativa occupa una galassia assai ampia. Da qui la scelta di

iniziare la mia esplorazione da quei pianeti che ho ritenuto più ospitabili. E

da lì partire per scoprirne altri meno noti o del tutto sconosciuti. Per

indugiare ancora un po’ nella metafora spaziale, è mia intenzione nel

prossimo futuro rientrare a bordo della navicella per proseguire il mio

viaggio, perché gli autori studiati hanno lasciato in me suggestioni

profonde: le loro concezioni e i loro modelli mi suggeriscono di

sperimentare nuovi approcci empirici nel mio lavoro d’insegnante e di

formatore.

Ad esempio, l’analisi del romanzo di formazione di Moretti, che spazia dalla

critica letteraria, alla psicologia, alla psicanalisi, alla sociologia, alla

antropologia, etc., implica, secondo me, la formazione di un nuovo lettore

postmoderno, che non si lasci attrarre dalle lusinghe di una lettura

immediata, rapida, discontinua e frammentaria, tipica della nostra società

della conoscenza, in cui la disponibilità di testi e scritture varie è

decuplicata dalla virtualità dell’online; dovrebbe, altresì, essere aiutato a

riflettere sulle implicazioni delle sue scelte letterarie, sulle preferenze di

autori e di genere, su come le stesse hanno influito sulle proprie visioni del

Page 157: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  156

mondo e possono orientare in un senso o nell’altro le esperienze della

quotidianità, fino a modificare la propria identità.

Quella che per Bruner è una attitudine o predisposizione a organizzare

l’esperienza in forma narrativa, 198 ci permette, al tempo stesso, di

ricostruire la realtà dandogli un significato specifico, definendoci come

soggettività, e di negoziare significati comuni, di veicolarli e scambiarli,

definendoci anche come relazionalità. È, secondo me, su questa

reciprocità che devono iscriversi le pratiche narrative che ho cercato di

delineare nella tesi: auto-formative sul piano personale e formative su

quello sociale. In questa prospettiva la cura di sé è anche e soprattutto

cura delle relazioni. La lettura può trovare, quindi, anche modalità di

condivisione, l’auto-biografia può declinarsi in co-biografie. Insieme ad

altre forme narrative, alle quali ho solo accennato, come il teatro, la

performance e le arti plastiche, costituiscono mediatori d’eccellenza che

favoriscono la coesione di un gruppo e l’integrazione delle differenti

identità.

Seguendo l’archetipologia di Gilbert Durand è possibile ritrovare i regimi

diurno e notturno dell’immaginario nelle scritture di sé: 199 coglierli e

rielaborarli per se stessi, interpretarli agli altri e per gli altri, è un percorso

attraverso il quale strutturare processi di auto-analisi, di

decostruzione/costruzione del sé, di quelle dimensioni della propria

identità che ci appaiono più conflittuali e, a volte, persecutorie; ma anche

di quelle dimensioni più ideali e utopistiche, eludendo le quali spesso

bruciamo molti dei nostri sogni.

La riflessività è, quindi, il perno che permette alla narrazione di sé un

continuo dialogo con i propri contesti di vita e di lavoro, perché non si

limita a ripensare ex-post l’azione, ma al suo interno ne esplora le diverse

opportunità e potenzialità. Solo così è possibile modificare quelle risposte

routinarie ai problemi, per le quali, in modo spesso irriflesso, riproponiamo

                                                                                                               198   Cfr. Bruner J. La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, ed. or. 1990. 199  Cfr.  G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, op. cit..  

Page 158: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  157

soluzioni già sperimentate anche se insoddisfacenti. Sviluppare la propria

capacità riflessiva significa estendere la riflessione includendovi anche il

soggetto. Significa, come ci avverte, Schön,200 interrogarsi non solo su ciò

che si presenta nel nostro campo operativo, ma anche su se stessi, sul

grado di apertura con cui riusciamo ad osservare la realtà e ad affrontarla.

In questa tesi ho cercato di affermare che la riflessività non è solo

un’azione meditata, di quelle che inneschiamo quando identifichiamo una

relazione, riconosciamo una teoria o diamo un giudizio. È, piuttosto un

processo complesso, attraverso il quale valutare criticamente sia il

contenuto sia il processo delle nostre azioni.

Diventa allora utile, se non necessario dedicarsi a una narrazione declinata

attraverso una scrittura-di-sé, che implica quel rigore della testualità, cui

fa riferimento Cambi. 201 Mi riferisco, in particolare, all’atto

dell’interpretazione, che coinvolge la propria personalità globalmente e, in

tal senso, può favorire la rielaborazione e il cambiamento delle

premesse202 con le quali interpretiamo le nostre esperienze, dando alle

stesse un significato nuovo, rendendole, cioè più comprensibili, e al

contempo modificando noi stessi. In ciò, probabilmente sta quel piacere

del testo, di cui ci parla Barthes,203 e cioè nel produrre un soggetto nuovo,

attraverso il testo, ma già potenzialmente altro nella sua traiettoria di vita.

Queste sono alcune delle suggestioni, che condizioneranno l’analisi, la

progettazione e l’azione futura riguardo le mie prassi professionali.

Dall’altra parte, penso di aver compiuto anche un viaggio nel passato, utile

a riconoscere le mie attuali competenze, a calcolare e valutare debiti e

crediti formativi personali. Un viaggio a ritroso che mi ha dato

l’opportunità di chiarire meglio i rapporti tra la dimensione operativa del

mio lavoro e i modelli di riferimento, i cui apporti, mi auguro, arricchiranno

l’esperienza. Da questo punto di vista mi riconosco in un processo di

longlife learning, non solo mirato all’acquisizione di competenze, quanto                                                                                                                200 Cfr. Schön D., Il Professionista Riflessivo. Per una epistemologia della Pratica Professionale, op. cit.. 201 Cfr. Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit.. 202 Cfr. Mezirow J., Apprendimento e trasformazione, op. cit.. 203 Cfr. Barthes R., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, op. cit..

Page 159: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  158

piuttosto a coniugare in modo aperto e flessibile un insieme articolato di

saperi, con la complessità di un percorso, che si sviluppa in una spirale,

attraverso fasi di apprezzamento – azione - nuovo apprezzamento. In tale

percorso convergono anche dinamiche incerte, rapporti ambigui, modelli

compositi e pratiche multiformi.

Allora, questa tesi può essere letta a margine come una specie di

autobiografia professionale, tappa fondamentale di un cammino, compiuto

in compagnia di alunni, studenti e colleghi, guidato da maestri e mentori,

in un rete di relazioni, che hanno contribuito a dare senso e significato alla

mia formazione.

Proprio in segno di riconoscenza e di riconoscimento reciproco, ho inserito

in appendice il resoconto redatto da un gruppo di studenti tirocinanti

dell’Università di Padova – Facoltà di Scienze della Formazione, i quali,

accompagnati dal prof. Senofonte Nicolli, hanno partecipato a una

giornata di formazione condotta dal sottoscritto e da Nerina Vretenar. In

questo pur breve seminario, occasione per gli studenti di incontro con i

maestri del Movimento di Cooperazione Educativa, sono rintracciabili

alcune delle proposte sul metodo narrativo nell’ambito della formazione,

esposte nella tesi. La dimensione narrativa è rilevabile a più livelli. Dal

gioco iniziale all’invito a raccontare di sé; dall’uso di una storia di vita

come esempio educativo di integrazione scolastica alla sua rielaborazione;

e poi, la presentazione del documentario nel quale Mario Lodi racconta le

tecniche didattiche della scuola attiva. Infine, è da notare la precisione e

la cura con la quale gli studenti tirocinanti hanno documentato

l’esperienza, restituendo, così, a se stessi e ad altri indicatori utili per la

progettazione di dispositivi in ambito educativo e formativo. Ciò è il

prodotto di un intenso lavoro di osservazione, studio e riflessività, durante

il quale gli allievi del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria,

guidati dal prof. Senofonte, si sono esercitati a lungo con la scrittura nei

loro Diari di Bordo e nella documentazione delle esperienze formative

realizzate.

Page 160: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  159

Appendice

A PARTIRE DAI BAMBINI E DALLE BAMBINE204

Nerina Vretenar, insegnante scuola primaria, MCE Venezia-Mestre205

Tiziano Battaggia, insegnante scuola primaria, MCE Venezia-Mestre206

L'ACCOGLIENZA

Nerina Vretenar. Una delle pubblicazioni più significative del Movimento di

Cooperazione Educativa è un piccolo libro (purtroppo quasi introvabile ma

speriamo di ripubblicarlo presto, aggiornato, perché è molto richiesto) che

ha un titolo che è quasi uno slogan: "A scuola con il corpo".207 Contiene

esperienze e riflessioni di insegnanti, animatori, ricercatori e artisti attorno

a un tema fondamentale: la necessità di partire dal corpo come strumento

di relazione, di conoscenza, di espressione; l'importanza di acquisire

consapevolezza, come insegnanti, del fatto che l'apprendimento e la

costruzione dell'identità passano necessariamente attraverso la

conoscenza e la messa in gioco del sé corporeo.

Tutto ciò non era affatto scontato nel 1974, quando, generalmente, del

bambino a scuola si prendeva in considerazione solo la mente.

                                                                                                               204 Il 14 maggio 2012 Nerina Vretenar e Tiziano Battaggia, maestri del Movimento di Cooperazione Educativa, hanno suggerito un approccio all'insegnare e all'apprendere proponendo, con una metodologia laboratoriale, alcune esperienze formative a un gruppo di studenti tirocinanti del terzo anno di Scienze della Formazione Primaria dell'Università di Padova. Ne documentiamo attività e pensieri. 2 Quaderno di Cooperazione Educativa n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1974 205 Nerina Vretenar. Insegnante di scuola primaria a tempo pieno. In MCE ha partecipato ai gruppi di ricerca sulla Formazione Linguistica e sull'educazione alla Cooperazione e ha fatto parte della Redazione della rivista Cooperazione Educativa. Si occupa delle iniziative di formazione del gruppo MCE di Venezia-Mestre. Fa parte della Redazione dei "Quaderni MCE". 206  Tiziano Battaggia. Insegnante di scuola primaria. In MCE ha partecipato al Gruppo Nazionale Informatica. Svolge attività di formazione alla relazione educativa e conduce seminari di animazione e laboratori di attività espressive per insegnanti, genitori e educatori. È tutor organizzativo e didattico all'Università Ca' Foscari di Venezia nell'ambito del Master in Comunicazione e Linguaggi Non Verbali (Psicomotricità, Musicoterapia e Performance) presso il Dipartimento di Filosofia e Beni culturali.  207 Quaderno di Cooprazione Educativa n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1974

Page 161: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  160

Per questo questa mattina abbiamo iniziato il nostro incontro con alcune

attività motorie "giocose" di rilassamento, di saluto, di conoscenza

reciproca proposte da Tiziano. Il gioco è un'attività importantissima

proprio perché coinvolge tutto il corpo: facilita quindi la conoscenza di sé e

degli altri e la comunicazione, consente un uso creativo e cooperativo

dello spazio, crea un clima positivo di benessere e fiducia reciproca

favorevole alla concentrazione e all'apprendimento. Ho colto molti sorrisi

di benessere nel corso dei giochi e mi sono molto compiaciuta perché nei

percorsi di formazione con adulti queste esperienze riescono

bene soprattutto con i giovani che mostrano di avere una marcia in più nel

riuscire al mettersi in sintonia con molti linguaggi e diversi modi di

comunicare.

SCRITTURE AUTOBIOGRAFICHE

Nella prossima attività che vi proponiamo useremo invece la parola e la

scrittura. Vi sarà proposto di scrivere un breve testo su un'esperienza

personale, un'esperienza vissuta in ambito scolastico, cioè il territorio

su cui vi giocherete nella vostra professione futura.

Ricordiamo per inciso che ci sono esperienze interessanti di formazione di

operatori nell'ambito di professioni che implicano la relazione

(l'insegnamento è tra queste) basate sul confronto e la riflessione

sull'esperienza personale, soprattutto sulle emozioni vissute come

operatori o come utenti nella relazione. Si tratta di una pratica conosciuta

come autobiografia professionale, che parte dall'idea che ogni volta che

noi svolgiamo un'attività che implica una relazione, vi siamo coinvolti con

le nostre emozioni ed è importante che ne siamo consapevoli per

costruire relazioni più rispettose e positive.

Vi chiediamo, allora, una scrittura, breve e veloce. Il contenuto è questo:

raccontare un'esperienza positiva vissuta a scuola, come scolari e scolare,

studenti e studentesse nella scuola primaria o anche nella scuola

secondaria o superiore; qualcosa che vi è rimasto nella memoria e che

ricordate con piacere.

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  161

LETTURA DELLE SCRITTURE E RIFLESSIONI

Vi ho chiesto di scrivere perché la scrittura aiuta a selezionare, da spazio e

tempo al pensiero e permette a chi scrive di rivederlo e migliorarlo prima

di offrirlo agli altri. La scrittura può essere conservata e raggiungere

altre persone anche lontane nello spazio e nel tempo.

La scrittura (come la parola) va curata e valorizzata anche a scuola come

momento importante di comunicazione e di condivisione, ma non ci può

essere motivazione (e quindi miglioramento della competenza) se

le scritture vengono lette solo dall'insegnante e solo per essere

valutate. La scrittura può essere importante anche per gli altri: per questo

ora che avete scritto i vostri ricordi, vi chiedo di leggerli e di dare un titolo

ad ogni storia.

Giovanna. Una dolce infanzia

Alla scuola dell'infanzia mi piaceva molto preparare la merenda per i miei

compagni. Era un momento in cui mi sentivo già grande ed era un grande

privilegio poter aiutare le maestre in questo lavoro.

Lo ricordo ancora adesso con piacere perché per me non era un lavoro,

ma un gioco divertentissimo durante il quale, quando chiacchieravo

troppo, la maestra mi infilava in bocca un pezzetta di mela per farmi

tacere.

Che dolce punizione!

Ilenia. Un amore di maestra

Alla "vecchia" scuola media ho passato dei momenti positivi grazie ad

un'insegnante di lettere. Questa persona è sempre stata fiduciosa nelle

mie capacità e nelle mie possibilità di migliorarmi sempre. Ancora oggi, a

distanza di un po' di anni da quando ero sua allieva, si preoccupa di come

vado a scuola. E sempre per me un piacere incontrarla per caso per

strada.

Giulia. Il mio primo riassunto

Page 163: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  162

Ricordo con piacere (e un pizzico di orgoglio) quel momento in cui la

maestra di italiano ci assegnò un compito ben preciso: fare il riassunto di

un racconto del sussidiario. Era la prima volta, non avevamo mai fatto un

riassunto prima di allora!

Io, munita di penna e buona volontà, mi misi subito all'opera. Sapevo di

aver fatto un buon lavoro, ma dovevo aspettare la conferma della

maestra. Con un po' di timore le porsi il mio quaderno e dopo che ebbe

finito di leggere il mio lavoro, mi guardò con faccia stupita: "Ottimo

lavoro! Ti metto un bel Bravissima!". Che soddisfazione!!

Elisa Sartori. Curiosità

Ricordo con piacere le lezioni di italiano alle scuole medie perché la

professoressa sapeva stimolare la mia curiosità anche se la materia non mi

è mai piaciuta molto.

Roberto Biasin. L'asceso

Durante la scuola media, dopo aver preso alcuni brutti voti in matematica,

finalmente capisco dove sbagliavo. Da quel momento il mio approccio alla

materia cambia radicalmente e inizio a fare gli esercizi, che prima non

comprendevo, con piacere e i brutti voti si trasformano in bei voti. Quel

periodo scolastico mi rimarrà sempre impresso, perché ha segnato una

svolta positiva nella mia carriera scolastica e nella considerazione di me

stessa.

Luca. Io filosofo

Ricordo in quarta superiore, quando l'insegnante di storia e filosofia mi

interrogò in filosofia, materia che amavo. Stavamo studiando Hegel, e

venni interrogato per mezz'ora sulla sua filosofia. Avevo studiato

parecchio, perché volevo entrare dentro alla filosofia, alla sua filosofia.

Ricordo i primi giorni di studio: sconsolato. Sconsolato perché non trovavo

il senso, il mio senso, non vi ero dentro. Poi mi sono sbloccato

mentalmente e l'ho capito [Hegel]. E mi ero appassionato. Fu

Page 164: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  163

un'interrogazione "epica", probabilmente la migliore della mia camera

scolastica. Ricordo che non risposi a domanda, ma costruii un discorso. E,

alla fine, la prof. mi chiese un parere personale, mi chiese cosa pensavo

della filosofia di Hegel, la mia idea e le mie riflessioni al riguardo.

Sembrerà una stupidaggine, ma l'ho vissuta., "con onore". Mi sono sentito

considerato adulto, chiamato a confrontare i miei pensieri con quelli di un

"alto filosofo". E la mia idea interessava a qualcuno.

Gloria: Che fatica la fisica

In quarta superiore abbiamo studiato Fisica con un'insegnante molto

rigida che pretendeva tanto da noi studenti. In questa materia, però, non

ero brava e per quanto mi impegnassi arrivavo a malapena alla

sufficienza. Quanti pianti quell'anno!

Ricordo con piacere che alla fine dell'anno in pagella non avevo cinque,

come mi aspettavo, ma sei. Per me è ancora un ricordo positivo perché il

mio impegno era stato premiato.

Quella volta mi sono sentita bene.

Il lavoro

Federica. di gruppo

Mi ricordo di quando alle scuole superiori lavoravamo in gruppi per

tradurre le versioni di latino. C'era sempre chi lavorava di più e chi meno,

ma tutti erano disponibili a suggerire interpretazioni e significati.

Succedeva sempre che venissero fuori frasi strane o senza senso, motivo

per noi di grandi risate e ironia nei confronti di quei grandi vecchi autori.

Elisa Santolin. Soddisfazione

Ripensando ai momenti positivi vissuti a scuola, la prima cosa che mi

viene in mente riguarda la consegna di una verifica di matematica corretta

alla scuola primaria. L'insegnante prima di farcela vedere ha chiesto

chi, secondo noi, avesse preso "ottimo", e tutti abbiamo esclamato in

coro: "Francesco", la più brava della classe. Invece no, non era lei quella

volta. Ero io!

Page 165: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  164

Penso di essere diventata bordeaux in volto, ma ero felice! Per la prima

volta mi era andata bene la verifica di matematica e da quel giorno è

diventata la mia materia preferita.

Sara. Lezione all'aperto

Mi ricordo che, con l'inizio della primavera, alla nostra maestra di Scienze

(la maestra! Michela) piaceva portarci a fare lezione in giardino. Era bello,

ci piaceva fare lezione] stando seduti con il quaderno sull'erba. Ricordo

che ci mandava in "esplorazione" ini giardino, ci faceva cercare quello di

cui parlava, rendeva le lezioni quasi come un] gioco. Era bello che la

maestra ci lasciasse "giocare".

Angela. I segni della scrittura

Quando ero in quinta superiore, il mio Professore di pedagogia ha invitato

un'esperta che ha interpretato i segni della nostra scrittura (grafologia).

Questo ha fatto nascere in me un grande interesse per l'argomento. Il

fatto che il mio Professore fosse una persona culturalmente attiva è // mio

bel ricordo della scuola.

Giulia. La vita

Ricordo con piacere un'esperienza fatta alla scuola elementare con il mio

maestro di Scienze. Abbiamo piantato tante piantine di fagiolo dentro dei

vasetti e le abbiamo messe una alla luce e una al buio, una al caldo e una

al freddo, una all'aria ed una coperta da un sacchetto di nylon, una

l'abbiamo innaffiata ed una no. In piccoli gruppi abbiamo osservato cosa

succedeva dopo qualche giorno ad ogni piantina. Così abbiamo scoperto

quali sono le condizioni affinché si sviluppi e cresca la vita. Ho vissuto

questa esperienza con entusiasmo e stupore.

Stefania. Un rapporto speciale. (Orgogliosa di averti conosciuto prof.)

Il ricordo che conservo con piò affetto della scuola risale a qualche anno

fa, di preciso al 2008, cioè al quinto anno del liceo. Si riferisce ad un

Page 166: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  165

professore in particolare, con il quale avevo instaurato un rapporto

speciale di fiducia e confidenza. Con questa persona riuscivo a farmi

capire al volo e mi sentivo apprezzata. Avevamo interessi molto simili: ad

entrambi piacevano il teatro e la musica, in particolare quella classica, ma

soprattutto condividevamo il piacere per la conoscenza, quella

incondizionata voglia di sapere senza un fine preciso, per il semplice gusto

di comprendere il mondo.

Proprio per queste affinità è stata una delle figure maggiormente

significative nella mia vita e per questo tenevo particolarmente al suo

parere. Ricordo con enorme piacere il modo in cui mi sono sentita quando,

consegnandomi un compito poco prima dei tanto temuti esami di maturità,

mi ha detto sottovoce: "Brava! Sono fiero di te".

Roberto Zen. La mia piccola pagnotta di pane

L'esperienza scolastica che ricordo con più piacere è stata in prima

elementare, quando la maestra di italiano ci portò in aula di Immagine e ci

fece fare il pane. Ricordo, come se fosse ieri, la grandissima soddisfazione

che provai portando a casa la mia piccola pagnotta. Prima della

realizzazione del pane avevamo fatto visita al panificio del paese, mentre

dopo l'esperienza realizzammo un libro con le nostre foto mentre

impastavamo che ancora conservo e riguardo con piacere di tanto in

tanto.

Claudio. // sorriso di Vienna

II primo ricordo che mi è tornato alla mente di un'esperienza positiva

vissuta come studentessa è legato all'ultima gita scolastica di piò giorni.

Era la quinta superiore e siamo andati per una settimana a Vienna.

Mi sono tanto divertita in quei giorni con le mie compagne e amiche,

mi sono innamorata di quella città e ho trascorso momenti piacevoli e

divertenti. Quando ci ripenso, mi toma sempre il sorriso sulla bocca.

Sicuramente è uno dei momenti che ricordo più piacevolmente della mia

esperienza scolastica.

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  166

Nerina Vretenar. Trovo che ci sia una grande ricchezza in quello che avete

scritto. Vi chiedo ora di rilevare se c'è qualcosa di comune che ritorna nelle

esperienze che avete letto e se c'è qualcosa in particolare che possiamo

sottolineare. La domanda potrebbe essere: che cosa rende positivo lo

stare a scuola e favorisce l'apprendimento?

Luca. La gratificazione. Data dall'insegnante.

Nerina Vretenar. Insomma: un riconoscimento positivo al tuo essere o al

tuo fare.

Ilenia. lo dire che quello che conta è la fiducia reciproca fra insegnanti e

alunni.

Gloria. La differenza la fanno degli insegnanti di qualità.

Nerina Vretenar. Che nomi daresti alla parola "qualità"?

Gloria. Saper stimolare interesse e curiosità, saper proporre esperienze

significative.

Nerina Vretenar. Cioè persone che non propongono percorsi banali.

Roberto. A me viene in mente la parola crescita, perché servono

momenti che facciano crescere.

Nerina Vretenar. Potremmo dire, quindi, che a scuola c'è un momento

significativo quando la persona si accorge che ha fatto un passo avanti,

che ha conquistato qualcosa, che ha capito che sa fare una cosa nuova.

Page 168: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  167

Roberto. Penso anche alle opportunità di crescita offerta dal fare

esperienze significative in gruppo.

Giovanna. lo penso che a scuola serva soprattutto entusiasmo. L'ho

ritrovato in tutti i ricordi che ho ascoltato. L'entusiasmo lo vedo legato alla

scoperta, lo porta l'insegnante e i bambini lo sentono, lo raccolgono e lo

aumentano.

Nerina Vretenar. È una cosa importante l'entusiasmo; proviamo ad

esplicitarlo, come lo potremmo chiamare? Lo chiedo perché mi pongo il

problema del significato delle parole da ritrovare a distanza di tempo,

quando non avremo più così preciso il ricordo delle esperienze ascoltate.

Giovanna. Direi coinvolgimento; cognitivo ma anche emotivo.

Nerina Vretenar. Potremmo dire: coinvolgimento emotivo dell'adulto?

Giovanna. Sì, proprio così.

Elisa Sartori, lo metterei responsabilità, perché i momenti positivi a scuola

sono stati certamente occasione di crescita, tutti noi ci siamo sentiti più

responsabili, un po' più adulti. Anche la gratificazione è collegata al

sentirsi più autonomi, capaci di prendere in mano la propria vita.

Nerina Vretenar. Ti va bene se diciamo: assunzione di responsabilità da

parte degli alunni?

Elisa Sartori. Sì, certo.

Nerina Vretenar. Mi sembra che in tutti i racconti venga sottolineata la

presenza di una positiva relazione educativa, di un coinvolgimento emotivo

che mette insieme l'adulto e il bambino. Si tratta di ricordare che a scuola

si va anche con le emozioni e che perché le cose funzionino serve un

Page 169: Il Metodo Narrativo - Università Ca' Foscari Venezia

  168

insegnante attento, autenticamente appassionato e costantemente

disponibile a mettersi in gioco anche nella relazione; ovvero che creda

nell'alunno, nella possibilità per tutte le persone di fare dei passi avanti,

nella possibilità di costruire situazioni di benessere e di crescita per tutti.

Allora un altro slogan potrebbe essere: "Stare bene a scuola". In tutte le

situazioni che avete ricordato, innanzitutto, siete stati bene in una

relazione: perché qualcuno aveva fiducia in voi, perché qualcuno vi

confermava, perché potevate rilevare un passo avanti che vi veniva

riconosciuto, perché c'era una situazione di comunicazione efficace.

Perché l'adulto e il bambino, alla pari nella relazione pur con ruoli diversi,

nella scuola si sono ritrovati entrambi coinvolti e parte di uno stesso

progetto.

Tiziano Battaggia. I vostri racconti mi rimandano a Karl Rogers, secondo il

quale l'apprendimento comporta sempre una partecipazione globale della

persona sia sul piano affettivo — emotivo, sia su quello cognitivo.

Esperienze positive, come quelle che avete rievocato, stampandosi nella

memoria corporea, vi hanno reso più disponibili ad apprendere. È come se

noi, attraverso la nostra esperienza scolastica, aggiungessimo dei segni

positivi [+] nella nostra memoria corporea che ci portano ad aver fiducia,

ad essere coinvolti emotivamente.

Naturalmente l'esperienza scolastica non è fatta soltanto di segni positivi

[+], ma anche di segni negativi [-], di resistenze, di rifiuti, di conflitti. Però

la possibilità di crescita è legata al fatto che in questa memoria corporea i

segni positivi [+] siano in maggioranza.

Poi c'è una memoria razionale, che è l'insieme delle conoscenze che si

hanno di sei stessi: riguarda la capacità del soggetto di avere una

consapevolezza del proprio] saper fare, dell'essere autonomo e

responsabile. La memoria razionale ha bisogno di strumenti, che a scuola

non possono essere' soltanto le verifiche o i voti; si costruisce, piuttosto,

attraverso un lavoro sull'identità, sulla consapevolezza di saper fare, sui

processi che sviluppano competenza (il saper fare la differenza tra ciò che

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  169

sapevo fare prima e cosa e come ho imparato a fare dopo). La scuola

dovrebbe essere il luogo preposto a creare questo tipo di consapevolezze.

Nerina Vretenar. In tutte le situazioni positive raccontate è evidenziato un

contesto particolarmente significativo: un contesto di forte relazione con

un'insegnante, fatta di stima e fiducia reciproca, di condivisione di

interessi, di affinità, di ascolto attento da parte dell'adulto, che segue con

partecipazione la crescita dei piccoli, che apprezza gli sforzi e festeggia

"con faccia stupita" e con gioia sincera le loro conquiste; un contesto di

forte relazione tra compagni, in cui c'è il piacere della condivisione e

dell'aiuto reciproco vissuto come "un privilegio" che fa sentire "già grandi";

un contesto in cui vengono proposte attività concrete, significative, un fare

reale (fare il pane o accompagnare la crescita di una pianta o visitare una

città) che costruisce conoscenza.

Perché nella scuola è così importante predisporre e curare i contesti?

Perché sono i contesti che con-tengono la situazione, l'esperienza,

determinandone il valore. Don Lorenzo Milani in Lettera a una

professoressa aveva indicato il problema principale della scuola: "La

scuola ha un solo problema:..." Ma non voglio completare la frase

di don Milani; la scopriremo alla fine della mattinata. Voi oggi ci avete

portato le vostre esperienze; noi vi portiamo il racconto di Hakim, un

bambino di nove anni. È importante nella scuola ascoltare le esperienze di

vita, accoglierle, tenerne conto, partire da queste. E quella che vi

racconterò ora è un'esperienza drammatica.

L'ATTESA E IL SILENZIO: A PARTIRE DA UNA STORIA Dl VITA208

Hakim ha potuto stare con i suoi compagni, sentirsi come loro, sentirsi

parte del suo gruppo, quando ha potuto rientrare in classe portando la

propria storia.

La maestra che l'ha seguito per un anno aveva il compito, non facile, di

aiutare lui e gli altri bambini che arrivavano da lontano, dopo lunghi viaggi

                                                                                                               208 Carnio E., Il racconto di Hakim, in Cooperazione Educativa, n. 3, 2004

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che spesso erano stati tragiche fughe, a "diventare soggetti nella vita

sociale della scuola". D'accordo con i colleghi aveva rifiutato, fin dall'inizio,

la soluzione facile e uguale per tutti di limitarsi a insegnare l'italiano per

mettere i bambini ''stranieri" in grado di comunicare e di seguire il

lavoro della classe. Illusorio. In nessun caso l'accanimento didattico, da

solo, avrebbe dato buoni risultati.

La strada dell'integrazione, invece, secondo la maestra, doveva essere

diversa per ciascuno: poteva essere il lavoro sul gruppo classe

particolarmente competitivo e in difficoltà rispetto all'accoglienza di una

nuova presenza. Poteva essere un percorso sulla cultura di provenienza

del bambino straniero che desse a lui una diversa e più fiduciosa

consapevolezza e agli altri una capacità di decentrarsi non meno utile alla

loro crescita. Poteva essere un percorso sui ricordi di persone e luoghi

amati e lasciati, che accumunava nel rimpianto l'ugandese e l'immigrato

meridionale, il figlio di genitori separati e il figlio di lavoratori trasferiti a

poche centinaia di chilometri. Poteva essere un viaggio nelle storie e nelle

leggende di luoghi lontani nel mondo. Poteva essere, come per Hakim,

l'attesa e il silenzio... Ho scelto di lavorare su due versanti: con tutta la

classe inventando un percorso sull'amicizia, la conoscenza di sé, la

relazione, la cooperazione; con Hakim da solo una volta alla settimana. Ed

è iniziata l'attesa.

A un certo punto, eravamo già verso la fine dell'autunno, Hakim ha

cominciato a raccontare...

Un mese è durato il racconto, tra ricordi offerti generosamente,

trascrizioni mi puntigliose messe a punto di Hakim... Alla fine ha deciso

che il racconto era pronto.

"La mia vita, in Kosovo, trascorreva tranquilla, tra i giochi con i miei

fratelli specialmente con il piò piccolo e l'aiuto che cercavo di dare in

famiglia, aspettando di avere l'età per andare a scuola. In Kossovo la

scuola comincia a sette anni.

La mamma lavorava in campagna, aiutata in questo lavoro dai miei fratelli

maggiori e dai nostri vicini di casa che venivano quando c'era bisogno di

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  171

dare una mano, ad esempio per la vendemmia, per la raccolta delle

pannocchie, per seminare.

Un giorno, mentre la mamma mi stava facendo il bagno e

contemporaneamente stava attenta che il pane messo a cuocere nel forno

non bruciasse, sentimmo bussare forte in maniera agitata alla porta di

casa. Era un nostro vicino, amico di mio papa che ci urlava:

"La guerra! La guerra! Dovete andare via tutti, scappate, perché è

diventato pericoloso rimanere ancora".

Alla mamma dispiaceva lasciare il pane nel forno, ma la vita è più

importante del pane!

Non capivo cosa stava succedendo, però erano giorni che si sentivano

strani scoppi sempre più vicini, vedevo gli aerei e gli elicotteri volare quasi

sopra le nostre case e la mia mamma spaventata ci copriva la testa, si

copriva anche lei le orecchie perché il rumore era troppo forte e tante

volte ci svegliava anche di notte.

Sempre urlando e agitato, il nostro vicino ci diceva di fare presto, di

lasciare tutto, che non c'era più tempo. Allora la mamma ci prese delle

cose da mangiare che aveva in casa, i soldi e, come eravamo, siamo usciti

dalla nostra casa di corsa, con quel signore che ci guidava in un posto

dove c'erano tante altre persone che lo aspettavano.

Dopo aver camminato tanto, siamo arrivati a una grotta, si sentivano delle

voci anche di bambini, era piena di persone. Siamo rimasti lì per un po',

tutti vicini. Alcuni uomini a turno facevano la guardia fuori e noi dentro

cercavamo di non far rumore.

Le mamme e gli uomini discutevano sempre, qualcuno piangeva.

Non mi ricordo bene quando siamo usciti di lì e perché, so che abbiamo

dovuto camminare ancora tanti giorni tutti insieme e in silenzio. Abbiamo

attraversato delle colline: faceva tanto freddo e c'era molta neve. Noi ci

siamo riparati con delle coperte, ma io e anche gli altri avevamo freddo lo

stesso. A un certo punto gli adulti hanno deciso di dare ognuno un po' di

soldi per pagare degli autisti che ci avrebbero portato con le macchine in

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un paese vicino al mare. In questo posto ci siamo divisi, alcune famiglie da

una parte, altre da un'altra.

Noi eravamo ospiti in una casa un po' isolata dalle altre, mia mamma però

conosceva quelle persone, così potevamo rimanere. Dalle finestre si

vedeva il mare, io non l'avevo mai visto, mi sembrava tutto così strano,

non capivo più niente, vedevo i grandi parlare a bassa voce, tristi, con

certe facce strane, non capivo perché.

Un giorno ho visto mia madre dare dei soldi ad un signore che le disse di

tenersi pronta per quella notte.

Siamo partiti di notte, in una barca con altre persone, eravamo tutti vicini

in silenzio. Il signore della barca non era gentile, ci trattava male. A un

certo punto, quando credevamo di essere ormai arrivati, si mise ad urlare

a voce alta, diceva tante parolacce, girò la barca e tornammo indietro.

Era davvero molto cattivo con tutti, ci scaricò a terra e se ne andò.

Restammo in quel posto per altro tempo poi la mamma diede dei soldi ad

un altro signore, più gentile. Con il suo motoscafo veloce ci trasportò in

Italia. Ora sono qui con la mamma, i miei fratelli e la nonna. A volte mi

viene in mente la mia casa nel Kossovo.

lo ho capito bene cos'è la guerra quando ho visto un missile colpire un

autobus pieno di persone (tra loro c'erano anche i miei vicini di casa),

quelle che si sono salvate scappavano da tutte le parti.

Se ci penso, sento qualcosa in gola che non mi fa mandare giù la saliva,

divento triste e mi viene da piangere; ma sento il rumore degli aerei

fortissimi e ho ancora paura. Allora penso che sto meglio qui."

Inutile dire che la lettura del racconto in classe (era stato preannunciato

perché fosse l'attesa, lo spazio era stato preparato con cura, era stato

scelto il momento più opportuno) fu seguita con un'attenzione e

un'emozione straordinarie. Alla fine un applauso aveva sciolto il silenzio,

ma non subito, dopo un momento interminabile in cui il tempo sembrava

sospeso.

Solo da lì è cominciata, per Hakim, una nuova vita in cui ha sentito di fare

parte del suo gruppo.

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Tiziano Battaggia. Dopo avere ascoltato il racconto di Hakim, vi chiederei

di dividervi in piccoli gruppi e di provare a rielaborare questo racconto per

ripresentarlo, insieme alle suggestioni e alle emozioni che ha evocato,

attraverso una performance: un testo scritto, un'azione drammaturgica,

un'azione grafica.

Nerina Vretenar. E importante il contesto in cui un racconto o una scrittura

nascono, insieme e in cui vengono utilizzati. Per far nascere il piacere e il

desiderio di raccontare è necessaria una dimensione "pubblica" in cui sia

prevista la comunicazione.

Così ora il racconto di Hakim può essere lo stimolo per un altro racconto,

da offrire agli altri: il vostro racconto.

PERFORMANCE DI GRUPPO.

Sara. Il mio gruppo ha immaginato le cose assolutamente importanti che

metterebbe in una valigia se dovesse scappare di casa come Hakim:

soldi perché senza non si può vivere;

un album con le foto delle persone care;

il gatto;

un telefono: poter continuare a comunicare, è importante;

un peluche che mi rassicuri;

il computer, archivio e mezzo per restare in contatto con il mondo;

libri: restano un riferimento indispensabile;

la scatola dei ricordi per conservare memoria del mio passato;

un mattone, per "ripartire e ricostruire" una nuova vita.

Tiziano Battaggia. Dal punto di vista della performance educativa, l'evento

che voi avete creato avrebbe necessità di una ulteriore rielaborazione. Ad

esempio nella valigia si potrebbero distinguere i bisogni dai desideri.

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Roberta. Il mio gruppo ha pensato di scegliere, fra i tanti, due colori e di

associarli alla storia di Hakim.

Roberta. Il colore blu lo collego alla traversata sulla barca, il nero

pensando al buio della grotta.

Elisa Santolin. Associo il grigio alla grotta, l'arancio al momento in cui a

scuola Hakim ha detto di sentirsi bene.

Martina. Il rosso lo associo alla guerra; il verde al momento in cui è Hakim

arriva in Italia con la speranza di poter ricominciare una nuova vita.

Claudio Telatin: il colore giallo è per l'inizio della storia, quando Hakim

ancora gioca con i suoi fratelli; il grigio è associato al suo disorientamento

iniziale dopo l'inizio della guerra; il blu rappresenta il momento della fuga,

il rosso la delusione dell'attesa e la rabbia dopo il primo tentativo di fuga

con la barca, il nero riporta alla guerra; il verde, infine, lo utilizzerei per

descrivere l'inizio di una nuova vita in Italia.

Tiziano Battaggia. La possibilità di esprimersi attraverso il colore è sempre

stimolante. Con i bambini possiamo creare una sequenza di colori e

utilizzarla per creare una storia che racconti una situazione di benessere o

di disagio. Il colore, come il suono, agisce sul nostro organismo al di là

della nostra volontà. Ambedue ci determinano sensazioni di benessere o

malessere in rapporto alla nostra storia personale.

Stefania. Il mio gruppo vorrebbe ripresentare, attraverso una breve

scenetta narrata mimata, la storia di Hakim.

Sono Hakim e le giornate scorrevano tranquille nella mia casa.

Ma un giorno qualcuno bussò alla porta.

Dovevamo scappare, di corsa, senza sapere dove, lasciando tutte le nostre

cose.

Faceva freddo.

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Arrivammo al mare e dopo un lungo viaggio quando speravamo di essere

arrivati in Italia quell'uomo cattivo ci riportò a casa, ma il secondo

tentativo andò meglio.

Ora sono qui in Italia e vado a scuola; mi mancano il mio paese e la mia

casa, sono vivo sto bene e sono lontano dalla guerra; ho una nuova vita.

Drinnnnn (suona il campanello di casa).

Akim, forza vieni a giocare!

Sì arrivo!

Per noi la scuola dovrebbe essere un luogo in cui rielaborare le proprie

esperienze personali (prima parte della scenetta) però anche un luogo in

cui crearsi una vita nuova e serena, con l'aiuto dei compagni (seconda

parte della scenetta). Una buona scuola è quella che aiuta a elaborare

quello che si è e quello che si diventerà.

Tiziano Battaggia. È sicuramente complesso rendere espressivo il gesto,

richiede un lavoro sulla nostra espressività psicomotoria, però è stato

interessante osservare in questa performance il tentativo di trasformare la

mimica in un gesto drammatico. C'è un gioco che propongo ai miei

bambini: ognuno pensa a una emozione particolare e poi si dispone

davanti ad un grande foglio bianco attaccato al muro, provando a

rappresentarla con una posizione del corpo; infine si contorna con un

colore la sagoma del corpo e si chiede agli altri bambini di mettersi in

quella stessa posizione e provare ad esprimere quello che sente.

Lavorare sull'espressività dei gesti significa anche entrare nelle emozioni

degli altri e permettere agli altri di sentire le proprie.

Luca. Noi abbiamo provato a fare un brainstorming registrando le nostre

sensazioni suscitate dal brano; poi abbiamo scelto alcune parole-chiave

per comporre una poesia. Le parole uscite dal brainstorming sono:

vertigine, vuoto, fumo, nero, cadere, nausea, paura, bum, allerta, senza

respiro, ansia, fame, calore, sapone, sudore, missile, bomba, angoscia,

silenzio, fuga, grida. Tutte le parole hanno un loro significato; "vuoto" e

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"vita" sono le uniche parole che stanno da sole i.el verso, sono le parole

centrali della poesia che abbiamo composto:

Dal pane caldo,

alla vertigine del

vuoto

angoscia e fuga,

in un silenzio che nemmeno il sapone può lavare

quanto amaro e quanto mare

per una nuova vita.

Nerina Vretenar. Offrire emozioni è sempre un dono; io mi sono

emozionata davanti alle vostre performance e di questo vi ringrazio perché

c'è stato passaggio di comunicazione. Ci tenevamo che passasse il

messaggio che le situazioni (in questo caso una narrazione) possono

essere utilizzate come stimoli e rielaborate, filtrandole attraverso le

esperienze personali e le personali intenzioni di comunicazione. Siamo per

una scuola degli stimoli e non per una scuola dei modelli; non si tratta di

riprodurre ma di rielaborare, utilizzando il filtro delle proprie conoscenze e

sensibilità; trasformando le emozioni in espressione e quindi in

comunicazione. Abbiamo a disposizione linguaggi diversi per comunicare

ed esprimere; se più linguaggi vengono messi a disposizione dei bambini,

maggiori sono le possibilità di un loro coinvolgimento. Nei processi di

apprendimento si intrecciano così un percorso collettivo (cooperativo) e il

percorso particolare di ciascun bambino.

MARIO LODI, UN MAESTRO MCE

Mario Lodi è stato un insegnante elementare del Movimento di

Cooperazione Educativa dagli anni '50 agli anni '80; oggi continua a offrire

il suo contributo! pensiero e di proposte educative nella "Casa delle arti

e del gioco" a Drizzona (Cremona), dove si occupa del potenziale creativo

dei bambini e delle bambine e raccoglie, in collaborazione con le scuole,

le loro produzioni grafiche, pittoriche, scritte (poesie e racconti). Perché lui

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e il suo gruppo restano fedeli all'idea che tutti hanno delle potenzialità e

qualcosa da dire, soprattutto i bambini; e che la creatività infantile è una

grande risorsa che non dobbiamo disperdere. Il Movimento di

Cooperazione Educativa, di cui Mario Lodi è uno dei maestri più noti,

nasce in Italia negli anni '50 sull'onda della ricerca e dell'esperienza di un

maestro francese, Célestin Freinet, che proponeva e soprattutto

"praticava" una scuola basata sulla cooperazione e la condivisione delle

responsabilità, sull'esperienza, sullo studio del proprio ambiente, sulla

libera espressione corporea, in ambito figurativo e linguistico (la pittura, il

teatro, il testo libero), sulla comunicazione (la corrispondenza e il

giornale scolastico), sul "calcolo vivente", su un "metodo naturale” di

apprendimento che sostituisse l'insegnamento autoritario e trasmissivo

allora in voga. Di Mario Lodi abbiamo pensato di farvi vedere uno

spezzone tratto dal documentario "A partire dal bambino". Si tratta di una

selezione da molte ore di ripresa fatte dal regista Vittorio De Seta (il

regista del film per la TV "Diario di un maestro" che negli anni '70 ebbe un

ruolo importante nel far conoscere le pratiche dei maestri MCE). Il

documentario ci mostra "in diretta" molti momenti della vita in classe,

aggiungendo sequenze in cui il maestro commenta e chiarisce il senso

delle attività proposte ai bambini.

Ascoltiamo insieme le sue parole.

La cooperativa scolastica.

Per realizzare un giornale di scuola che riporti le notizie della classe e del

paese e che vada venduto, c'era bisogno di fare i conti e tenere la

contabilità. Così ci siamo costituiti come cooperativa, cioè i bambini hanno

costituito una cooperativa; perciò abbiamo bisogno continuamente di

discutere, di prendere decisioni: cosa fare con i soldi che abbiamo, quali

problemi affrontare, che cosa realizzare. Tutti i giorni abbiamo spese,

entrate da segnare; è chiaro che questo implica una quantità di problemi

matematici e di calcolo di percentuali. Ma non è solo questo; è soprattutto

una visione della vita che continua, che si progetta, che si porta avanti

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insieme, prendendo degli impegni. Questo mettere il bambino in rapporto

con un impegno, con una decisione e soprattutto con il rendere conto

(una cosa che oggi in Italia si dovrebbe imparare fin dai banchi della

scuola) al gruppo-comunità, mi pare una cosa importante, un valore.

Dialogo con i bambini

Maestro. Dopo tre mesi che teniamo una cassa è ora di fare il bilancio,

cioè di vedere tutto quello che abbiamo speso e il valore che abbiamo e le

cose che abbiamo affidato ad altri e che devono essere pagate. Quando

avremo fatto il bilancio sapremo esattamente se noi siamo in attivo o in

passivo, cioè se abbiamo debiti o crediti, se andiamo bene o se andiamo

male. Sapete cos'è un bilancio? Qualcuno l’ha visto fare?

Bambino. Mio zio fa l'ambulante e quando ha finito di vendere guarda

quanti soldi ha preso e quanti soldi ha speso.

Maestro. E tu, come lo sai?

Bambino. Perché quando ero in seconda ci andavo sempre insieme.

Bambino. lo ho visto mio papa fare un bilancio, quello dell'azienda, perché

comprano e vendono e allora prendono soldi.

Il calcolo vivente

Noi studiamo la vita, l'ambiente e non c'è niente che non sia in relazione

con la matematica. Raccogliamo i dati della meteorologia per farne poi la

carta del tempo della nostra zona che rientrerà nello studio del paese e

troviamo anche lì la matematica con le percentuali e le quantificazioni. La

troviamo nella storia dei nostri contadini, come ci ha raccontato la mamma

di Umberto quando ci ha detto che il granoturco veniva ripartito a quarti

(un sacco al contadino, tre socchi a quello che ci mettevo la terra),

scoprendo nella matematica anche le ingiustizie sociali. La troviamo nella

storia dello mongolfiera che stiamo costruendo: calcolo dei venti per potei

spostarsi da una zona all'altra, calcolo delle distanze tra una zona e l'altra,

uso delle carte geografiche. Tutto quello che l'uomo fa, ha in qualche

modo rapporto con matematica.

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L'espressione orale

Dialogo con i bambini

Maestro. Ci sono dei bambini che hanno qualche testo orale da

raccontare?

Bambino. Mio zio quando era venuto fuori dal lavoro, è andato sopra la

macchina e ha visto mio papa seduto lì che era già morto e l'ha visto lì

trasparente e ci è restato due ore. Dopo è spanto e poi è venuto a casa e

me l'ha detto.

Bambino. Un giorno ero andato al cimitero ho visto la foto di un morto

sulla tomba e mi sembrava di avere visto lui; non sapevo se era vero o

immaginazione.

Maestro. Da quando è morto il papa di Gianbattista, avete questi pensieri

piuttosto tristi.

I testi che generalmente si ascoltano al mattino sono scambi di idee e di

esperienze, sono momenti della vita di ognuno; non è che si

programmino. Vengono naturalmente quando si scopre che c'è un

rapporto di amicizia tra di noi e sono importanti per l'educatore per capire

il bambino giorno per giorno nei suoi problemi, nei suoi momenti di

felicità e di tristezza, per andare a fondo nella sua vita: senza la

conoscenza del bombino non possiamo illuderci di educare, di formare, di

intervenire positivamente; non c'è processo educativo che non sia

inserito sulla realtà del bambino.

Oggi abbiamo sentito alcuni di questi testi. C'è chi obietta che sono cose

banali, che sono cose minime, che il bambino a scuola deve imparare cose

importanti. E vero che deve imparare cose importanti e che ci si deve

arrivare, ma la vita del bambino non può essere buttata a mare. A noi

sembra una banalità, per lui è importante: sono importanti i suoi rapporti

famigliari, i rapporti che ha con l'ambiente che lo circonda. Per questo è

importante fare emergere questi momenti, analizzarli in maniera non

troppo scolastica, partire dalle esperienze che colpiscono il bambino,

sviluppare alcuni temi.

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Noi ci troviamo sempre collegati con i problemi generali e con la realtà più

ampia: i testi che possono sembrare banali, invece, hanno incredibili

sviluppi perché sono legati agli interessi veri dei bambini. Ne è un esempio

il testo di una bambina, mentre eravamo a scuola un mattino, che ha

dato origine alla storia della mongolfiera.

Un foglio che era sopra la stufa a tratti si alzava e volava come un

aquilone.

Casetta lo osserva e i bambini che mettono le mani sulla stufa si

accorgono che quando coprono il flusso dell’aria calda il foglio si abbassa,

quando tolgono le mani, il foglio si mette a volare. Nasce così la scoperta

che l'aria calda che esce dalla stufa va verso l'alto, con una forza.

Illuminazione: ma allora nel mondo, oltre la forza di gravità, c'è una forza

che può sollevarci da terra!

"Allora noi potremmo usare questa forza per salire, per volare", dicono i

bambini, lo dico loro che l'uomo l'aveva già fatto con i fratelli Mongolfier

tanto tempo fa. "Allora si può fare", dicono loro.

"Il mio papa", dice Carolina, "può portare i teloni per fare la mongolfiera".

Marta dice: "Mio papa potrebbe portare il legno". Per i bambini sembrava

una cosa molto semplice; io gli dissi che sarebbe stato bello ma molto

difficile costruire una mongolfiera che ci portasse tutti insieme a volare.

Cadde l'idea come possibilità concreta, ma non cadde l'idea come sogno.

Così mi sono buttato con i miei bambini in un'avventura di tipo fantastico,

di evasione.

Poi mi sono accorto che questo non è vero: la fantasia, l'immaginazione

del bambino non è altro che l'utilizzazione dei materiali accumulati

nell'esperienza, non è altro che la realtà che ci portiamo dietro e

utilizziamo per creare delle situazioni nuove; ma siamo sempre noi, noi

con le nostre esperienze, con la nostra cultura, con i nostri difetti, con le

nostre capacità.

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  181

CONCLUSIONI... PROVVISORIE

Stefania. È confortante vedere che i concetti alla base di questo filmato,

sono sta da noi esplorati all'Università: l'attenzione ai linguaggi espressivi

dei bambini; quotidianizzazione della matematica; ho rivisto delle proposte

che spero un po'j volta di riuscire a mettere insieme nella mia pratica.

Federica. Sono stata colpita dalla frasi "Le narrazioni sono importanti per

l'educatore per conoscere il bambino giorno per giorno, perché la sua

vita non può essere ignorata per imparare cose più importanti". Mi sembra

significativa perché a volte si è presi dalla preoccupazione di voler

insegnare tutto. Andrebbe sottolineata, dunque, l'importanza di lasciare ai

bambini il tempo perché si esprimano e raccontino le che per loro sono

importanti.

Nerina Vretenar. Mi sento confortata da queste riflessioni. Vi giro perciò

una domanda: perché le cose che ci siamo dette oggi e che configurano

un modo di scuola che parta dal bambino non sono percentualmente

molto diffuse nella scuola reale?

Stefania. La risposta che mi sono data io è che per un insegnante sia più

semplice e rassicurante svolgere un percorso già fatto da altri. lo stessa mi

chiedo se le tante proposte che mi sono state presentate potrei metterle

in atto seriamente o se sentirei in difficoltà.

Luca. lo penso che negli insegnanti ci sia un'ansia da prestazione nei

confronti di se stessi, degli altri docenti, del dirigente scolastico, delle

famiglie. Il contesto nel quale oggi l'insegnante lavora non lo fa sentire

protetto e questo gli impedisce di avere la serenità necessaria, di essere

più "fluido", di lavorare in maniera diversa con bambini. Penso anche

a Don Lorenzo Milani: non dico che fosse semplice o scontato quello che

ha fatto, però ha potuto fare quella scuola perché poteva contare in un

contesto favorevole e aveva bambini molto motivati; non avendo, inoltre,

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  182

un programma da seguire, poteva soffermarsi con i suoi ragazzi a fare

ragionamenti e scoperte. Oggi nelle Indicazioni nazionali non ci sono più

prescrizioni rigide, ma penso non ci sia ancora la consapevolezza da parte

degli insegnanti di poter lavorare in maniera diversa; restano singoli

maestri che provano a portare avanti con i bambini esperienze nuove e

significative.

Nerina Vretenar. Trovo molto importante la sottolineatura del sentirsi soli,

del non avere intorno un contesto che sostenga dei percorsi significativi.

Questo pensiero ci riporta all'importanza di mettersi insieme, di trovare dei

collegamenti con altri insegnanti; il confronto e lo scambio di esperienze

restano fondamentali.

Tiziano Battaggia. Quando sono andato a visitare a Barbiana la scuola di

Don Milani, quello che mi ha fatto riflettere maggiormente è stata

l'attenzione scrupolosa al contesto fisico, agli strumenti, ai materiali

utilizzati, al fare oltre che al sapere. lo penso che questo valga per

qualsiasi approccio educativo. Parlo di attenzione al contesto, a quello che

Andrea Canevaro definisce lo sfondo istituzionale della relazione educativa.

Nerina Vretenar. Una scuola come quella di don Milani non è riproducibile

in una situazione diversa, ma se anche fosse possibile, sarebbe del tutto

sbagliato farlo. Ognuno deve trovare risposte adeguate alle specifiche

situazioni e ai bisogni dei bambini con i quali vive l'avventura del

conoscere.

Tiziano Battaggia. Il maestro francese Paul Le Bohec, nel libro "Quando la

scuola ti salva”, 209 presenta la sua autobiografia professionale e fa

emergere continuamente l'importanza dell'osservazione delle diverse

                                                                                                               209 Le Bohec P., Quando la scuola ti salva. Sulle tracce della pedagogia Freinet, Junior,

Bergamo 2011

 

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situazioni educative che impongono scelte sempre differenti e

personalizzate; esigenze diverse richiedono risposte diverse. Tenendo

conto che l'adulto che osserva fa parte della situazione: ciò che si osserva

non sono gli altri, ma le relazioni che vi intercorrono. Le proposte

dell'insegnante, frutto di un continuo feed-back con le reazioni del

bambino e del gruppo, possono favorire lo sviluppo dei singoli, solo se

incidono in senso evolutivo nell'insieme del contesto. All'interno del quale

adulto e bambino imparano se possono reciprocamente dirsi: "Qui accade

qualcosa che mi riguarda".

Nerina Vretenar. È arrivato il momento di completare la dichiarazione-

denuncia fatta quarantacinque anni fa da don Lorenzo Milani: "La scuola

ha un solo problema: quello dei ragazzi che perde."

Qual è allora la strada giusta da percorrere nella scuola? Quella che può

essere percorsa da un numero maggiore di bambini e bambine, la strada

per ciascuno/a più adatta ai bisogni e alle capacità. Per questo abbiamo

parlato della necessità di utilizzare linguaggi diversi, di promuovere la

cooperazione, di partire dall'esperienza dei bambini, di costruire un

contesto accogliente che garantisca al bambino il diritto di parola e di

espressione, della necessità di salvaguardare la creatività. Una scuola

trasmissiva e incapace di reinventarsi di continuo per rispondere alle

situazioni riuscirebbe a "tener dentro" ben poche persone, perderebbe

certamente i vari Hakim che sempre più numerosi aspettano di essere

accolti. Il problema posto da don Milani è ancora aperto, ma si configura

in modo diverso in ogni situazione. Per questo le strade da percorrere

vanno cercate via via.210

                                                                                                               210 la documentazione presentata in appendice è tratta da: Senofonte Nicolli (a cura di), A partire dai bambini e dalle bambine. Incontri con i maestri del Movimento di Cooperazione Educativa. Quaderno di Tirocinio, Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata – Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, Padova, 2012, p. 9 – 32.

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