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Documento dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria ASSOCIAZIONE ITALIANA PSICOGERIATRIA Psicogeriatria Direttore Editoriale Marco Trabucchi Comitato Editoriale Diego De Leo Giovanna Ferrandes Nicola Ferrara Alessandro Padovani Umberto Senin Coordinatore Comitato Scientifico Luigi Ferrannini Segreteria di Redazione Angelo Bianchetti Vincenzo Canonico Comitato Scientifico Roberta Annicchiarico Raffaele Antonelli Incalzi Fabrizio Asioli Matteo Balestrieri Giuseppe Barbagallo Luisa Bartorelli Giuseppe Bellelli Carlo Adriano Biagini Enrico Brizioli Amalia Cecilia Bruni Mattia Brunori Carlo Caltagirone Fabio Cembrani Alberto Cester Antonino Cotroneo Pierluigi Dal Santo Laura De Togni Luc Pieter De Vreese Fabio Di Stefano Babette Dijk Andrea Fabbo Bianca Faraci Giuseppe Fichera Marino Formilan Domenico Foti Lodovico Frattola Pietro Gareri Marcello Giordano Guido Gori Antonio Guaita Marco Guidi Ester Latini Cristian Leorin Daniela Leotta Giancarlo Logroscino Elena Lucchi Maria Lia Lunardelli Albert March Niccolò Marchionni Massimiliano Massaia Patrizia Mecocci Fiammetta Monacelli Alessandro Morandi Enrico Mossello Leo Nahon Gianfranco Nuvoli Luigi Pernigotti Elvezio Pirfo Nicola Renato Pizio Giuseppe Provenzano Paolo Francesco Putzu Renzo Rozzini Michaela Santoro Francesco Scapati Osvaldo Scarpino Luca Serchisu Carlo Serrati Sandro Sorbi Anna Laura Spinelli Francesca Tesi Claudio Vampini Flavio Vischia Orazio Zanetti Giovanni Zuliani ANNO XX - SUPPLEMENTO 1 - NUMERO 1 - MAGGIO 2020 COVID-19 E GLI ANZIANI Un’esperienza per il futuro

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Page 1: Psicogeriatria - Panorama della Sanità · Laura De Togni pag. 42 IL COVID-19 IN POLIAMBULANZA. IL QUARTO CAVALIERE. APPUNTI DAL MIO DIARIO Renzo Rozzini pag. 44 LA MIA GIORNATA NON

www.psicogeriatria.it online: ISSN 2611-8920testo stampato: ISSN 2611-9420 Documento dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria

ASSOCIAZIONEITALIANAPSICOGERIATRIA

ASSOCIAZIONEITALIANAPSICOGERIATRIA

PsicogeriatriaDirettore EditorialeMarco Trabucchi

Comitato EditorialeDiego De LeoGiovanna FerrandesNicola FerraraAlessandro PadovaniUmberto Senin

Coordinatore Comitato ScientificoLuigi Ferrannini

Segreteria di RedazioneAngelo BianchettiVincenzo Canonico

Comitato ScientificoRoberta AnnicchiaricoRaffaele Antonelli Incalzi Fabrizio Asioli Matteo BalestrieriGiuseppe Barbagallo Luisa Bartorelli Giuseppe Bellelli Carlo Adriano Biagini Enrico Brizioli Amalia Cecilia Bruni Mattia BrunoriCarlo CaltagironeFabio Cembrani Alberto Cester Antonino Cotroneo Pierluigi Dal SantoLaura De TogniLuc Pieter De Vreese Fabio Di Stefano Babette DijkAndrea Fabbo Bianca FaraciGiuseppe Fichera Marino Formilan Domenico FotiLodovico FrattolaPietro Gareri Marcello Giordano Guido Gori Antonio Guaita Marco GuidiEster LatiniCristian Leorin Daniela Leotta Giancarlo Logroscino Elena LucchiMaria Lia Lunardelli Albert MarchNiccolò MarchionniMassimiliano MassaiaPatrizia Mecocci Fiammetta Monacelli Alessandro MorandiEnrico Mossello Leo Nahon Gianfranco Nuvoli Luigi Pernigotti Elvezio PirfoNicola Renato Pizio Giuseppe Provenzano Paolo Francesco Putzu Renzo Rozzini Michaela Santoro Francesco Scapati Osvaldo ScarpinoLuca Serchisu Carlo Serrati Sandro Sorbi Anna Laura SpinelliFrancesca TesiClaudio Vampini Flavio Vischia Orazio Zanetti Giovanni Zuliani

ANNO XX - SUPPLEMENTO 1 - NUMERO 1 - MAGGIO 2020

COVID-19 E GLI ANZIANIUn’esperienza per il futuro

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 1-4

Indice

PSICOGERIATRIASupplemento 1 – Anno XX - Numero 1 – Maggio 2020

COVID-19 E GLI ANZIANIUn’esperienza per il futuro

a cura dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria

DALL’ANGOSCIA ALLA SPERANZA: LA CLINICA, LA SCIENZA, LE COMUNITÀMarco Trabucchi pag. 5

1. Esperienze cliniche

RIFLESSIONI E PENSIERI, DOPO L’EMERGENZAAlessandro Padovani pag. 11

LA MEDICINA AL TEMPO DEL COVID-19: PICCOLA CRONACA DI UN MEDICO… CHE DIVENTA PAZIENTEGiuseppe Bellelli pag. 14

COVID-19 E GESTIONE DEGLI ANZIANI NELLA EMERGENZA E FUORI DELLA EMERGENZA: VECCHIE E NUOVE PAURE DALLE RSA ALLA SOCIETÀ IN PUGLIA, IN EUROPA E NEL MONDOGiancarlo Logroscino, Francesco Scapati pag. 18

LA GERIATRIA AL TEMPO DEL COVID-19: LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIAAntonino Maria Cotroneo pag. 23

IL NEUROLOGO (E MALATO) AL TEMPO DEL COVID-19Carlo Ferrarese pag. 28

LA RELAZIONE E LA COMUNICAZIONE CON LE PERSONE RICOVERATE IN OSPEDALE CON DISTURBO NEUROCOGNITIVO MAGGIORE E COVID-19Orazio Zanetti, Silvia Spanu, Paola Bettini, Davide V Moretti,

Marialuisa Sorlini, Cristina Geroldi, Stefania Orini pag. 32

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LETTERA DA UN DISTRETTO DELL’APPENNINO PARMENSEGiovanni Gelmini pag. 36

DIARIO COVID DA UN COVID HOSPITAL QUALSIASI…Alberto Cester pag. 40

DI NUOVO IN CORSIALaura De Togni pag. 42

IL COVID-19 IN POLIAMBULANZA. IL QUARTO CAVALIERE. APPUNTI DAL MIO DIARIORenzo Rozzini pag. 44

LA MIA GIORNATA NON È FACILE, MA….Rossella Liperoti pag. 49

INFODEMIA, EVIDENZA E RICERCA SCIENTIFICA AI TEMPI DEL COVID-19Nicola Ferrara pag. 51

2. Le case di riposo: esperienze

VITA ED ESPERIENZE NEI CENTRI DI SERVIZI AL TEMPO DEL COVID-19Maria Mastella pag. 54

RSA E PANDEMIA: CONSIDERAZIONI A TAPPEMauro Colombo pag. 59

NELLE RSA LOMBARDE LE MORTALITÀ EPIDEMICA PER IL VIRUS VIENE DA LONTANOAntonio Guaita pag. 63

UN TENTATIVO DI DIARIO NELLA STAGIONE DEL COVID-19 NELLE RSA DELLA PROVINCIA DI CREMONAWalter Montini pag. 67

L’EMERGENZA CORONAVIRUS E LE RSAMelania Cappuccio pag. 71

UN’ESPERIENZA DIFFICILECorrado Carabellese pag. 84

UN’ESPERIENZA VERONESEMaria Beatrice Gazzola pag. 87

LA FORZA DELLA TENEREZZARenato Bottura pag. 90

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LE CASE DI RIPOSO: ESPERIENZE DI CRISIEttore Muti pag. 93

LE RESIDENZE PER ANZIANI AL TEMPO DEL CORONAVIRUSErmellina Zanetti pag. 95

3. I malati a casa

LA CURA DEI MALATI A CASA: LUCI E OMBRE. LA PROSPETTIVA DI UN MEDICO DI FAMIGLIAGermano Bettoncelli pag. 100

DIARIO DI UN MEDICO DI BASE A CREMONALuisa Guglielmi pag. 103

LA CURA DEI MALATI A CASA: LUCI E OMBREFederica Gottardi pag. 107

IL FUTURO DEI SERVIZI DEL TERRITORIO: DAI CDCD AI CENTRI DIURNI, AI CAFFÈ ALZHEIMERStefano Boffelli pag. 110

LA CURA DEGLI ANZIANI IN TEMPO COVID-19: UN DIARIO DALLA GERIATRIAAndrea Fabbo pag. 118

4. Verso il futuro: le ferite provocate dal virus e la rinascita

TRA CONGIUNTI E AFFETTI STABILI ANDRÀ TUTTO BENEDiego De Leo pag. 129

QUALI LE CONSEGUENZE DELL’EPIDEMIA SUGLI OPERATORI SANITARI? Fabrizio Asioli pag. 133

APPUNTI DI PSICHIATRIA DEL PANDEMONIOLeo Nahon pag. 137

VERSO IL FUTURO: LE FERITE PROVOCATE DAL VIRUS E LA RINASCITAOttavio Di Stefano pag. 144

DAI PENSIERI E DALLE IDENTITÀ FERITE ALLA RECOVERY E ALLA RIPRESALuigi Ferrannini pag. 148

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VERSO IL FUTURO: LE FERITE PROVOCATE DAL VIRUS E LA RINASCITA. CONSEGUENZE SUI CITTADINIElena Lucchi pag. 158

MODERN MAN HEROEleonora Grossi, Simona Gentile pag. 161

SPECIFICITÀ FEMMINILE: OPERATORI E MALATIGiovanna Ferrandes pag. 173

UN PASSO INDIETRO PER RICOMINCIAREFabio Guerini pag. 181

IL CORONAVIRUS ALLA FINE DELLA FASE 1: DUBBI E CERTEZZE (POCHE) PRIMA DELLA FASE 2Enzo Canonico pag. 183

LA SARDEGNA E IL COVID-19Paolo Putzu pag. 189

LA CONDIZIONE DELLA SICILIA TRA REALTÀ E ANSIE, PAURE, DISORGANIZZAZIONEMaria Grazia Arena pag. 191

IL FUTURO DEGLI OSPEDALI AL TEMPO DEL COVID-19Angelo Bianchetti (Brescia) pag. 192

Bibliografia pag. 195

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 5-10

Dall’angoscia alla speranza: la clinica, la scienza, le comunità

MARCO TRABUCCHIPresidente Associazione Italiana di Psicogeriatria

[email protected]

Questo supplemento della rivista Psicogeriatria è stato costruito, su in-dicazione del Consiglio Direttivo AIP, per testimoniare l’impegno della nostra Associazione in questi mesi di dolore e di fatica. Siamo stati guidati dal desiderio di descrivere alcuni aspetti della tra-gedia che abbiamo vissuto attraverso le testimonianze dirette di chi ha lavorato senza pace e senza tregua. Non siamo ancora in grado di elaborare il nostro lutto personale e collettivo; ma, mettendo a dispo-sizione tante narrazioni, che si assommano alla raccolta dei molti dati clinico-epidemiologici che stiamo compiendo, potremo, seppure con fatica, dare qualche idea riguardante il passato e qualche indicazione sul futuro. I soci di AIP hanno pubblicato in questi giorni su riviste in-ternazionali contributi di rilevo; sarà nostro compito raccoglierli e dif-fonderli, anche come testimonianza che l’Italia può contare su studiosi di alto livello, e non solo in ambito…. virologico!I testi sono diversi fra di loro, seguono impostazioni non omogenee, riguardano ambiti di impegno e modalità di cura profondamente diffor-mi; in questa logica, il supplemento è aperto anche ad altri contributi che si vorranno aggiungere nelle prossime settimane. Non abbiamo al-cuna intenzione di offrire uno scenario unitario, che richiederà tempi lunghissimi e metodologie di lavoro innovative per essere tracciato; la complessità impone infatti metodi rispettosi delle differenze biolo-giche, cliniche, psicologiche, sociali, culturali, storiche, organizzative; chi pensasse di semplificare un quadro come quello disegnato dal Co-vid-19 non darà un contributo serio alle analisi del futuro.Il pensiero che precede ogni altro va ai colleghi che si sono ammalati in queste settimane, ma che, tutti, oggi sono vivi. Sì, vivi! Qualcuno avrebbe usato un’espressione più mediata (meno a rischio di essere obiettivo di gesti scaramantici) per esprimere il sentimento profondo che in tanti abbiamo provato quando giungevano notizie positive sul loro stato di salute. La vita contro la morte: gli estremi di un sentire che ci ha pervaso nelle ultime settimane. Alcuni di questi carissimi colleghi hanno accettato di scrivere i brani riportati di seguito: a loro un grazie anche per questo atto di generosità. Un titolo recente del New York Times recitava così: “Physicians are perfectionists who suffer in silen-ce”… una frase che dice moltissimo e non ha bisogno di commenti.Fortunatamente oggi i medici impegnati negli ospedali covid non si

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6 MARCO TRABUCCHI

ammalano più, perché la qualità delle prote-zioni è migliorata in maniera radicale.Ovviamente il ringraziamento di AIP si estende a tutti gli operatori che hanno lavo-rato con intelligenza e senza alcun risparmio in questi mesi (chi ha seguito le newsletter settimanali e i post su Facebook conosce i nostri sentimenti di ammirazione e di grati-tudine); permettetemi inoltre di inviare un pensiero di riconoscenza non solo ai Paesi forti che sono intervenuti in nostro aiuto, ma anche a quelli più deboli, che colpevolmen-te abbiamo sempre giudicato con sufficien-za. Penso, tra gli altri, all’Albania, a Cuba, alla Tunisia…. Un ringraziamento anche all’e-sercito della Federazione Russa , il cui inter-vento è stato criticato da qualcuno come rischioso; quando ho visto che i loro soldati sono intervenuti a Brescia per sanificare l’i-stituto Nikolajewka, ho pensato davvero che la pace deve e può vincere sulle guerre.Una considerazione di contesto riguarda i numeri dell’epidemia. I dati Istat e ISS han-no evidenziato che la mortalità direttamen-te attribuibile a Covid-19 è stata nel primo trimestre 2020 di circa 13.700 decessi. Esi-ste però una quota ulteriore di circa altri 11.600 per i quali sono ipotizzabili tre cause di morte: un’ulteriore mortalità da Covid-19 in persone sulle quali non è stato eseguito il tampone, una mortalità indiretta causa-ta da Covid-19 in persone affette da gravi patologie, infine una mortalità attribuibile a difficoltà del sistema ospedaliero o al ti-more di recarsi in ospedale (la narrativa dei momenti più drammatici riporta che questa evenienza è stata molto frequente). Le di-scussioni sull’epidemiologia indicano quan-ta incertezza vi sia ancora intorno a dati che dovrebbero essere indiscutibili; allo stesso tempo, però, indicano che i tentativi di smi-nuire le dimensioni degli eventi sono privi di fondamento.

Alcuni spunti di discussione

Non è lo spazio per una revisione della let-

teratura, ma solo per alcuni accenni sulla realtà.Un primo riguarda la vicenda del Remdesi-vir e la sua contrastata storia di fallimenti e di successi, inquinata da interferenze politi-che e da interessi di parte. Sempre in ambito terapeutico è ancora molto aperta la discus-sione sull’efficacia terapeutica del plasma di persone ammalate e che hanno conservato un alto tasso anticorpale. Il dibattito coin-volge anche la tematica dell’identificazione degli anticorpi come documentazione di un avvenuta infezione; infatti non è chiaro se l’alto tasso di IGG e di IGM indichi una pos-sibile protezione da ulteriori infezioni, dato molto rilevante nella prospettiva di allenta-re le attuali restrizioni.L’enorme quantità di finanziamenti dedi-cati alla ricerca in questo campo rischia di provocare nel prossimo futuro inutili spre-chi. La concorrenza spietata tra i colossi mondiali della farmaceutica ha indotto in-vestimenti mostruosi; in questo momento, quindi, una guida, purché non oppressiva, da parte dei sistemi pubblici di ricerca po-trebbe essere utile. Bill Gates prevede che si arriverà al vaccino in 12 mesi; sarebbe un risultato bellissimo, purché poi sia messo a disposizione di tutti i paesi e non solo di chi ha lo inventato (vedi gli USA). Un secondo aspetto che ritengo di parti-colare delicatezza all’inizio della fase due riguarda la trasmissione asintomatica del virus, definita da un editoriale del NEJM del 26 aprile “il tallone d’Achille delle attuali strategie per controllare il Covid-19”. Ogni tentativo per allentare le misure di distanzia-mento sociale deve prevedere l’esecuzione di controlli anche in persone asintomatiche che operano in aree delicate. Questa ricerca potrebbe rispondere agli interrogativi, sem-pre più diffusi, sul fatto che il corona virus è “capriccioso” nella sua diffusione. Ad esem-pio, è stato riportato che in Iran ha ucciso moltissime migliaia di persone, mentre nel vicino Iraq i morti sono stati meno di 100.

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7DALL’ANGOSCIA ALLA SPERANZA: LA CLINICA, LA SCIENZA, LE COMUNITÀ

Un altro esempio particolarmente esplica-tivo è quello della Repubblica Dominicana, dove si sono contati più di 7600 morti, men-tre nella contigua Haiti ne sono stati rilevati solo 85. Ovviamente si sono lette molte e svariate interpretazioni di questo fenome-no, ma nessuna è sembrata soddisfacente (perché Londra, New York, Parigi hanno su-bito danni enormi, mente New Delhi, Lagos, Bangkok sono state largamente risparmiate, almeno fino a oggi?). Non abbiamo risposte oggi; però ci auguriamo che si possa arriva-re presto a dare spiegazione ai tanti fenome-ni oscuri che hanno accompagnato l’epide-mia. Non mi riferisco ovviamente a qualche farneticazione di scienziati e politici, ma ad osservazioni seriamente comprovate. Incertezze simili a quelle sulla diffusione dell’epidemia riguardano anche l’effetto differente sviluppato dal virus in situazioni apparentemente simili. La sopravvivenza di ultracentenari (in particolare ultracentena-rie) non è solo una condizione che richia-ma l’attenzione dei media; la ragione è da attribuire alle differenze individuali, che gio-cano un ruolo preponderante? Ma cosa ne sappiamo di queste? All’opposto degli anni, si sa ancora pochissimo di cosa succede a li-vello biologico nelle persone molto giovani.Un ulteriore interrogativo senza una precisa risposta: la ridotta mortalità che si è ottenu-ta in questi ultimi tempi (da metà aprile) è attribuibile alle cure farmacologiche o ad altre condizioni, come la possibile perdita di virulenza da parte del virus. Oggi negli ospedali su tre persone che afferiscono, due vengono rimandati a casa perché si ritiene che vi possano trovare adeguate condizioni di cura, mentre fino a poco tempo fa tutti venivano ricoverati. Non si tratta di una que-stione secondaria, soprattutto nella prospet-tiva del futuro: quali saranno i quadri clinici con i quali verremo in contatto in futuro? La pandemia ha già iniziato la fase discen-dente, come sempre è avvenuto nella storia: perché Covid-19 dovrebbe comportarsi in maniera diversa?

In questa veloce revisione di alcuni spunti non mi sono soffermato sugli aspetti eti-ci sollevati dal coronavirus e dalle terapie adottate. Lascio gli eticisti interrogarsi su cosa sarà più opportuno fare, anche per-ché abbiamo ben chiaro il nostro dovere è di curare sempre, rispettando il bene dei pazienti, anche quando dovessimo operare alcune scelte. Però, siamo dolorosamente sorpresi dalla constatazione di alcuni pen-satori, come Houellebecq: “Mai prima d’ora avevamo espresso con una sfrontatezza così tranquilla il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore; che a partire da una certa età (70, 75, 80 anni), è un po’ come fossero già morti”. Ma, mi domando, noi medici abbia-mo diffuso messaggi così ambigui?Mi permetto di ricordare che in molte circo-stanze la malattia dipende anche dalle situa-zioni generali di vita. Conosciamo, ad esem-pio, il forte rischio che l’allargamento delle povertà all’interno di popolazioni che non avevano problemi prima della crisi attuale possa indurre un aumento della diffusione della malattia; infatti, la recessione economi-ca dei prossimi mesi potrebbe aumentare il rischio di infezione virale. È stato infatti confermato anche per il Covid-19 il rappor-to forte tra condizioni economico-sociali, stato di salute e comparsa di malattia. Ad esempio, durante l’epidemia si sono verifi-cate notevoli differenze nel livello di ospe-dalizzazione e di mortalità tra i 5 quartieri di New York City. Il più povero, e con una popolazione meno scolarizzata, il Bronx, è stato quello più colpito; Manhattan, al con-trario, il quartiere più ricco e prevalente-mente bianco, è stato il meno colpito dalle conseguenze cliniche dell’epidemia.

Le residenze per anziani

Un capitolo specifico dell’impegno AIP per il futuro riguarda le residenze per anziani. Dovremo occuparci seriamente, nel pros-simo futuro, di questo settore importantis-simo dell’assistenza all’anziano: la crisi ha

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indicato con chiarezza l’esigenza di proget-tualità innovative. L’organizzazione attuale dovrà subire notevoli adeguamenti in rispo-sta all’evidente cambiamento avvenuto in questi anni e che il Covid-19 ha messo in luce, provocando un’inedita accelerazione nella richiesta di nuova progettualità. Un aspetto rilevante per il prossimo futu-ro fa riferimento al ruolo delle residenze nell’ambito complessivo dell’assistenza sanitaria. Regione Lombardia ha recente-mente emanato indicazioni sul trattamento farmacologico del covid-19 e anche altre regioni si sono messe sulla stessa strada. Il fatto è di rilievo, perché autorizza le strut-ture residenziali alla prescrizione di farma-ci che richiedono forte impegno sul piano clinico, sia per la selezione degli ospiti da trattare sulla base di dati oggettivi, sia per la gestione di eventuali effetti collaterali. Que-sto è solo un atto dettato dalla pressione del momento o rappresenta il riconoscimento di una funzione clinica esercitata dalle re-sidenze per anziani? Sarà necessario discu-terne seriamente, uscendo dall’ambiguità di funzioni di fatto, che però non sono for-malmente riconosciute. Purtroppo, alcune decisioni pubbliche non sembrano andare nella direzione di un compito esercitato con competenza e sensibilità, ma indicano il perdurare di un’esclusione di fatto; ad esempio l’opportuna decisone della regio-ne Veneto di istituire un fondo integrativo per i lavoratori degli ospedali che hanno affrontato la crisi di questi mesi ha escluso dal provvedimento i dipendenti della rete delle case di riposo. L’atto testimonia che il legislatore considera il settore una realtà a parte, sulla quale non sente il dovere di intervenire. Nel prossimo futuro le residenze dovranno fare i conti con il personale e le sue esigen-ze. I comportamenti eroici non possono durare per tempi lunghissimi e quindi pre-sto sarà importante rifare i conti non solo rispetto agli standard, che nella gran parte

dei casi sono rispettati, ma rispetto alla re-alistica possibilità di proseguire i servizi, dovendo moltiplicare le equipe (covid e non covid), per dare il giusto riposo a chi ha lavorato più di 12 ore al giorno per inte-re settimane, dovendo anche sopperire alla fuga di operatori verso l’ospedale. Un ulte-riore aspetto che potrebbe rivelarsi critico è la salute psichica degli operatori, dopo lo stress prolungato che hanno subito. Ancora non si discute formalmente di “postcovid syndrom”, ma sarà una condizione da sor-vegliare con attenzione per rispetto ver-so i dipendenti e per le possibili ricadute sull’organizzazione del lavoro. Chi si preoc-cupa di questa problematica per analizzarla nella specificità delle residenze, ma anche degli ospedali? Sarebbe necessario costruire su questo problema un’alleanza con i centri clinici più qualificati.Oggi si discute sulla possibilità di riaprire le normali attività con l’ingresso di nuo-vi ospiti. La situazione generale fuori dalle strutture non è chiara; vi è l’esigenza di ri-coveri per cittadini anziani in difficoltà, che non trovano adeguate risposte tecniche al domicilio. Questi però sono sotto una pressione duplice e di senso contrario: da una parte l’assistenza a casa, quella poco o tanta che ricevevano prima della crisi, si è ulteriormente ridotta, per cui aumenta la ri-chiesta di interventi come quelli offerti da una residenza; dall’altra sono ancora mol-to vivi, particolarmente in alcune zone, le paure e i timori collegati alle notizie sulla pericolosità e sui rischi mortali di un rico-vero. Occorre che su questo tema vi sia un chiaro pronunciamento delle autorità; in-fatti ci si deve interrogare su come e dove verranno collocati i nuovi eventuali ospiti. Sarà certamente necessario fare i tamponi, ma la frequente incertezza dei risultati im-porrà la collocazione dei nuovi arrivati in aree separate; come trovare spazi adeguati? Per quanto tempo e come le residenze do-vranno preoccuparsi di organizzare il dupli-

MARCO TRABUCCHI

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ce percorso, per ospiti negativi e positivi al virus? Negli ospedali è in corso una vivace discussione sulla collocazione e la realizza-zione di settori per i malati covid positivi che affluiranno nei prossimi mesi, affetti dalle più diverse patologie acute e croniche: cosa si progetta per le strutture residenziali? E’ necessario studiare le possibili soluzioni, partendo dalla fantasia realizzatrice che ha ripreso a caratterizzare molte strutture.

Gli ospedali

La discussione sull’ospedalocentrismo sarà particolarmente vivace nel prossimo futuro, quando si affronterà il problema principa-le rispetto al futuro dell’assistenza sanitaria in Italia. Il dibattito tra il modello lombar-do e quello veneto sarà molto interessante, anche perché si fonda su una certa omo-geneità politica e quindi scevro di tonalità ideologiche, anche se difendere la centralità del territorio, della casa, di una rinnovata medicina di famiglia è di per sé carico di un’ideologia umana molto forte. Si conti-nuerà a programmare fondandosi sui calcoli di programmatori asettici, senza guardare quale sia, e come si definisce, un risultato di salute?Per l’immediato occorrerà riprendere le normali attività cliniche, recuperando un’e-norme quantità di lavoro rimandato nei momenti più drammatici. Non sarà facile conciliare i nuovi compiti con la stanchez-za del personale, dopo tantissimo lavoro e tensioni.Per il futuro sarà importante definire come e dove collocare gli ospedali Covid, che il ministero della Salute ha stabilità debbano essere uno per ogni milione di abitanti. Non sarà assolutamente una decisione facile, ad esempio, definire come e dove collocare i 10 ospedali previsti per la regione Lombar-dia. Dovranno essere in grado di affrontare le diverse patologie, quando il covid-19 sarà associato alle normali malattie che colpisco-no le persone di ogni età. Con che perso-

nale? Dovrà essere mantenuto un personale dedicato, sottraendolo alle normali attività cliniche negli ospedali non covid? Qua-le sarà il futuro degli ospedali costruiti in tempi velocissimi dall’equipe di Guido Ber-tolaso (quelli di Milano e di Civitanova Mar-che), ma anche quelli più precari costruiti con l’ausilio di organizzazioni straniere (l’o-spedale del Qatar o quello evangelico della Pennsylvania, ad esempio).

La comunità

Infine, un ricordo per la sofferenza dei no-stri concittadini colpiti dalla malattia, per il dolore delle separazioni, per l’angoscia di morti lontane dagli affetti. Sono state scritte pagine poetiche sul trasporto notturno su camion militari delle bare degli anziani di Bergamo. Al di là della metafora della forza dell’esercito al servizio della più profonda debolezza, la visione resterà impressa nella nostra memoria e in quella delle comunità. La malattia ha inaridito le nostre anime? Ha certamente ridotto (o cancellato) gli spazi comuni, le relazioni; saremo in grado di rico-struire con facilità o avremo bisogno di un impegno faticoso, per uscire di nuovo dalle nostre barriere artificiali? Le comunità locali saranno al centro degli interventi nel prossimo futuro, incomin-ciando da un’utilizzazione razionale dei tamponi come strumento preventivo? La telemedicina sarà seriamente implementata per la cura delle malattie croniche, invece di inventare approcci fantasiosi e fallimentari, come è stato fatto in alcune regioni?Pensando al futuro, uno sguardo dovrà an-che essere dato all’evoluzione demografica. Il superamento del confine simbolico dei 400.000 nati anno era previsto dall’Istat per il 2032. Sembra invece che già nel 2021 si ridurrà a 396.000: come se la pandemia ci avesse tolto 12 anni di curva demografica. Sarà un danno enorme per il nostro paese, sia a breve, perché vi sarà una sovrabbon-danza di servizi, sia a lungo termine, tra 25-

DALL’ANGOSCIA ALLA SPERANZA: LA CLINICA, LA SCIENZA, LE COMUNITÀ

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30 anni perché non vi sarà la possibilità di recuperare il tempo perduto. Nei prossimi anni avremo meno di 400.000 nascite e 800.000 morti, dei quali circa 100.000 avve-nuti nelle residenze. La stessa struttura fami-gliare subirà anch’essa una crisi drammatica sotto la pressione di questi numeri. Guardando all’immediato, speriamo che il governo provveda rapidamente alla rego-larizzazione dei lavoratori in agricoltura; la cosa ci interessa come cittadini che rischia-no un forte aumento delle derrate fresche a causa della difficoltà nella raccolta. Ma, ancor più, siamo preoccupati per la rego-larizzazione delle badanti, intervento indi-spensabile per la serenità di molte famiglie che devono curare gli anziani in un tempo di grandi difficoltà, perché i sistemi domici-liari non sono ancora a punto e le residenze per anziani tendono giustamente a opporsi all’ingresso di nuovi ospiti senza avere la certezza di evitare una nuova diffusione del virus.In generale speriamo che i provvedimen-ti delle autorità permettano di ridurre le restrizioni, e quindi la ripresa -seppure progressiva- della vita di relazione. Però, la selezione dell’app per il contact tracing è avvenuta in maniera così incerta da indur-re qualche preoccupazione per il futuro. Nessuno ha colto il significato (di burla o di tragica fiducia nel paranormale?) del te-mine “bending spoons”? Finirà, prima o poi, lo stile di continuare ad affidarsi a dilettanti improvvisati, anche per situazioni dramma-tiche, che incidono pesantemente sulla vita degli individui?

Un grazie, infine

Un vivo ringraziamento da parte di tutta l’AIP agli autori di questo supplemento che hanno permesso di raccogliere voci davve-ro significative in ambiti diversi, tutti impor-tanti nel tempo del Covid-19. Come detto sopra, questo supplemento, che almeno per ora non viene stampato su carta, è aperto a

integrazioni, correzioni, critiche: vorremmo diventasse un forum di AIP, aperto a coloro che in queste settimane si sono oc-cupati, in particolare, della situazione degli anziani fragili.Personalmente aggiungo un ringraziamen-to alle centinaia di colleghi che in questi giorni mi hanno chiamato o inviato mail, sia per chiedermi aiuto e consigli, sia -e per me ancora più importante- per aiutarmi a supe-rare l’angoscia di notizie e di atti davvero difficili da accettare.Un ringraziamento del tutto particolare ad Angelo Bianchetti, direttore della medicina interna dell’Istituto Sant’Anna di Brescia, a Roberto Borin, baby pensionato che ha tenuto in piedi (psicologicamente e opera-tivamente) l’ospedale di San Bonifacio nei giorni della disperazione, e a Massimo Ca-labrò, direttore della geriatria dell’ospedale di Treviso: con le loro telefonate di mattina presto o di sera tardi mi hanno aiutato nella posizione di chi osserva, ricorda, soffre, cer-ca di pensare.La letteratura clinica ha descritto come “pandemic fatigue” oppure “covid fadigue” la condizione che ha accomunato molti operatori sanitari in queste settimane di pesante e doloroso impegno; un lenimento significativo è stata la vicinanza tra di noi, che anche AIP ha contribuito ad alimentare, con modalità diverse, ma con una presenza sempre viva.Infine, un ringraziamento a Papa Francesco (chissà in quanti l’avranno fatto in questi giorni!) per i suoi messaggi che ci hanno ripetutamente ricordato il grandissimo valo-re civile, oltre che religioso, dell’impegno a favore delle persone più deboli e della loro cura. Noi, per scelta culturale ma soprattut-to professionale, non apparteniamo a chi pensa, come il sindaco di Tubinga in una recente dichiarazione: “Lasciatemelo dire brutalmente; stiamo salvando in Germania persone che sarebbero comunque morte nel giro di sei mesi”.

MARCO TRABUCCHI

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 11-13

1. Esperienze cliniche

Riflessioni e pensieri, dopo l’emergenza

ALESSANDRO PADOVANIBrescia

[email protected]

Com’è fragile la vita, se la si abbandona (Jose SARAMAGO)

Ormai sono passati due mesi dall’inizio dell’epidemia e da quanto ascolto e leggo molti affermano che ne stiamo uscendo e che presto potremo tornare liberi. Non ho idea se sarà cosi. Ma guardando indie-tro, sono certo che molti di noi non saranno più impreparati come lo siamo stati a febbraio.Sono stati due mesi pesanti e complicati. Complicati per chi si è trovato travolto dall’imponenza di una moltitudine disordinata di malati che si accalcava all’entrate di “Arche di Noè” sistemate alla bella e meglio. Pe-santi per tutti quelli che non sono riusciti ad entrare e per tutti quei pa-zienti che non ce l’hanno fatta così come per quelli che hanno resistito con quel poco che siamo riusciti a dare. Fuori di retorica e di polemica, abbiamo fatto miracoli con quel poco. Ma, come ho sentito spesso dire da un grande uomo che non c’è più, il tanto poco fa tanto.A Brescia, in questo enorme Ospedale che mi accoglie da quasi trent’an-ni, nessuno poteva immaginare che saremmo arrivati a curare più di tremila malati COVID con disturbi respiratori, con complicanze cardio-logiche e neurologiche, complicanze internistiche e renali. Nessuno poteva credere che non sarebbero bastati i letti delle Malattie Infettive e della Terapia Intensiva. Ma già alla fine di Febbraio, avevamo capito che nessuno sarebbe stato risparmiato; tutti i reparti sono stati segnati da due destini ovvero la chiusura e la trasformazione in area Covid (come è stato in gran parte della Lombardia) oppure la creazione di un’area Covid specialistica integrata nello stesso reparto. Così è stato fin da subito per la Medicina Interna, poi per la Cardiologia e per la Nefrologia, infine, per la Neurochirurgia e per la Neurologia.Erano passate solo tre settimane dal primo caso di Codogno quando abbiamo iniziato ad accogliere pazienti neurologici con COVID e pa-zienti neurologici malati di COVID. Distinzione accademica o no, ad oggi ne abbiamo seguiti tanti con COVID e per COVID. Non solo an-ziani. Su oltre trecento ricoveri, un terzo dei pazienti arrivati in Ospe-dale per una malattia neurologica sono risultati COVID positivi. Molti giunti in pronto soccorso a causa di un ictus, altri per disturbi della

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12 ALESSANDRO PADOVANI

coscienza o confusione, altri per encefaliti, altri con crisi epilettiche, altri ancora con di-sturbi di equilibrio. Molti con febbre e tosse da alcuni giorni, molti insospettabili con di-sturbi comparsi dopo, nei giorni successivi al ricovero. Alcuni con quadri rapidamente ingravescenti ed inaspettatamente fatali nel giro di poche ore. Da un giorno all’altro, con la Direzione de-gli Spedali Civili, abbiamo organizzato una Unità Neurocovid, forse l’unica in Italia, con 16 posti letto coinvolgendo una brigata di medici, infermieri, ausiliari che giorno e not-te si è offerta di prendersi cura di pazienti critici, persone sole e sofferenti. Da un giorno all’altro, abbiamo raddoppia-to turni di guardia, reperibilità e fasce po-meridiane per garantire cura e assistenza a malati neurologici non COVID e a mala-ti neurologici COVID. Abbiamo imparato a usare ventilatori dai nomi più oscuri e a gestire terapie antivirali, antinfiammatorie, anticoagulanti, antibiotiche. Spesso da soli, abbiamo cercato di districarci tra pazienti dubbi o sospetti, incolpevoli protagonisti noi di un macabro “ballo del tampone”, i cui passi erano ignoti ai più. Non è stato facile, così come ancora oggi non è facile, rimane-re in attesa di una risposta e poi capire a cosa credere tra tamponi falsi negativi, del tutto negativi o dubbi. Chi avrebbe mai pen-sato, qualche mese fa, che avremmo atteso l’esito del broncoaspirato come se fosse l’o-racolo di Delfi, oppure che avremmo cerca-to di decifrare enigmatiche TAC polmonari come fossero iscrizioni runiche. In assenza di modelli di riferimento e senza manuali operativi, abbiamo adottato nuove proce-dure, stabilito precise istruzioni operative, applicato nuovi strumenti di valutazione e di monitoraggio clinico, stravolgendo, non senza fatica e resistenze, vecchie abitudini e prassi calcificate. La gestione di un’unità Covid non è facile. Le cura di un paziente con un ictus o un’encefalite al quale l’insuf-

ficienza respiratoria impone altre terapie e altre complicazioni pare senza fine, quasi senza speranza. Guardando indietro, ho tanti ricordi vivi-di, tante emozioni contrastanti, una grande consapevolezza. Non potevamo fare di più e non potevamo fare meglio. Tutti, medici, in-fermieri e ausiliari si sono dati da fare più di quanto si possa immaginare, e hanno scrit-to pagine straordinarie colme di umanità e competenze, di professionalità e condivisio-ne. Non credo che eroi sia l’aggettivo più corretto per tutti quanti si sono adoperati in queste settimane, nei diversi ospedali. Per me sono stati semplicemente uomini veri e vere donne. Profondamente, e unicamente, persone vere. Quanto a me, si confesso che qualche ram-marico rimane. Avrei voluto trovare il modo di avvicinare i familiari a quelli che non ci sono più, ma non ci sono riuscito, a parte qualche ecce-zione. Questo mi ha fatto capire che tablet e altre tecnologie, per quanto utili, non so-stituiscono il calore del contatto fisico e il conforto di uno sguardo, soprattutto in chi è sopraffatto dal dolore e dalla stanchez-za. Ed è proprio come dice la Maraini “lo sguardo alle volte può farsi carne, unire due persone più di un abbraccio”.Avrei voluto non dover contenere i malati inconsapevolmente agitati e incapaci di ca-pire che senza ossigeno e senza ventilazio-ne non ce l’avrebbero fatta. E qualcuno non ce l’ha fatta. Questo mi ha convinto che per questi casi occorre trovare in futuro soluzio-ni diverse e spazi diversi nei quali garantire la presenza di familiari o operatori dedicati. Ancora, avrei voluto trovare il modo di es-sere più vicino a coloro che sono rimasti isolati a casa e che da un momento all’altro non ci hanno più visti e sentiti, come se noi medici fossimo scomparsi nel nulla. Ancora oggi sospesi in un’attesa che ancora non ha fine. Per alcuni siamo riusciti ad attivare li-

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13RIFLESSIONI E PENSIERI, DOPO L’EMERGENZA

nee di ascolto e un servizio di telemedicina e teleconsulto di cui devo ringraziare molti di quanti lavorano con me. Ma sono certo che avremmo dovuto fare di più e che do-vremo presto approfittare delle opportunità che la telemedicina offre.Infine, avrei dovuto trovare il modo di aiu-tare maggiormente coloro che hanno avuto paura, quelli che non se la sono sentita di entrare nelle stanze di chi era isolato, quelli che hanno cercato di nascondersi o di allon-tanarsi. La paura come dice Saul Bellow go-verna il genere umano e in alcuni è più for-te di qualsiasi altra virtù, della intelligenza, della professionalità, della competenza. Ho capito che è sbagliato sorprendersi e che in talune occasioni occorre trovare luoghi

più adatti per chi vede le cose più brutte di quelle che sono.Guardando avanti, onestamente non ho alcu-na idea di cosa ci aspetterà nei prossimi mesi.Non ho idea se tutto cambierà o se tutto tor-nerà come prima. Non so se saremo diversi, oppure se quello che abbiamo vissuto lasce-rà un segno forte dentro di noi o dentro di me. Non ho idea quando questa Unità Neu-rocovid chiuderà e non ci sarà più bisogno di avere un luogo per chi oltre al Covid avrà la sventura di avere una malattia neurologica.Sarà quel che sarà. “Le risposte non vengo-no ogniqualvolta sono necessarie, come del resto succede spesse volte che il rima-nere semplicemente ad aspettarle sia l’u-nica risposta possibile” (Saramago).

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 14-17

La medicina ai tempi del COVID: piccola cronaca di un medico… che diventa paziente

GIUSEPPE BELLELLIMonza

[email protected]

All’inizio è stato come ritrovarsi in un’altra dimensione. Reparti “tradi-zionali” che sparivano dall’oggi al domani per trasformarsi in reparti COVID, sotto la pressione del Pronto Soccorso assediato dall’incessan-te arrivo di pazienti affetti dal virus. La sensazione è stata quella di essersi distratti, un attimo, e ritrovarsi senza più quella che è stata la tua “casa” per tanti anni e senza più le certezze del tuo lavoro. È stato solo un attimo, perché si è reso subito necessario occuparsi dei “nuovi” pazienti. Nuovi perché molto differenti da quelli che ho sempre curato nella mia vita professionale. Età mediana 59 anni, la metà dei ricoverati ha la tua età o addirittura è più giovane. Prevalentemente (si potrebbe dire clamorosamente) di sesso maschile, nella stragrande maggioranza dei casi nel pieno dell’attività lavorativa, sorpresi da questo virus men-tre curavano i propri pazienti (ricordo un dentista), percorrevano in lungo e in largo la Lombardia (ricordo un ingegnere impiegato nella produzione di software) o semplicemente si trovavano a casa con i propri affetti. Leggevi l’incredulità e la paura nei loro sguardi.

Prima riflessione: quali cure? Ricordo notti passate a cercare in lettera-tura articoli che aiutassero a scegliere il da farsi e lunghe chat con colle-ghi e amici per un confronto. In questo scenario, totalmente nuovo ed inatteso, fin da subito hanno incominciato a farsi strada dubbi riguardo all’opportunità di effettuare trattamenti che nei primi giorni tutti noi abbiamo effettuato. Trattamenti spesso supportati da raccomandazioni di società scientifiche che si ritenevano intitolate a prendere posizioni in totale assenza di evidenze, basandosi sulla logica del “secondo noi”. Logica che nella mia vita professionale ho sempre cercato di combat-tere. Ma d’altro canto che fare? E se invece le terapie funzionassero? Ed allora cominciano a balenare nella mente tua e dei colleghi con cui condividi il luogo di lavoro strani pensieri: ho visto un paziente miglio-rare dopo terapia steroidea……idrossiclorochina. Il tocilizumab è effi-cace e non ha effetti collaterali. Prescriviamoli. E l’eparina, ho letto che le trombosi sono una frequente complicanza. Ok, ma a che dosaggi?

Seconda riflessione: tutti i pazienti necessitano di supporto ventilato-rio, nella maggior parte dei casi CPAP. Ma perché la CPAP? In genere

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15LA MEDICINA AI TEMPI DEL COVID: PICCOLA CRONACA DI UN MEDICO… CHE DIVENTA PAZIENTE

la CPAP la usavamo in pazienti in cui i pol-moni, non più elastici, erano provati da anni di malattia. Qui è differente, molti pazienti non percepiscono minimamente la dispnea, sebbene il quadro emogasanalitico sia evo-cativo, e senza CPAP le condizioni cliniche peggiorano nel volgere di poche ore. Che FiO2 devo usare? E la PEEP?. E quando chia-mare il rianimatore per rivalutare il quadro?

Terza riflessione: è tutto da riorganizzare. Quanti medici e quanti infermieri servono per gestire 20-25 CPAP al giorno, fare centi-naia di emogasanalisi, controllare gli esami e visitare tutti i pazienti? Bisogna rivedere i “turni”. E come si visitano i pazienti? A che distanza è più prudente stare quando parli con loro? E ancora, abbiamo bisogno che ogni giorno l’infettivologo e l’anestesi-sta passino a concordare terapie e tetto di cura. Eh si, perché fin dai primi giorni ap-pare chiaro che molti pazienti non ce la fa-ranno e l’anestesista non può portare tutti in terapia intensiva, già straboccante La ra-pidità con cui si triplicano, si quadruplica-no i posti letto in terapia intensiva non è sufficiente per il fabbisogno. Diventa neces-sario concordare strategie, terapie e flow-chart decisionali per selezionare i pazienti. Ne parliamo in unità di crisi ed elaboriamo i primi documenti. Mi riscopro “di nuovo” geriatra quando passa il concetto che non è l’età anagrafica bensì quella “biologica” che deve guidare le scelte. Ma quanta fatica….è un concetto difficile da accettare e quindi servono strumenti facili ed immediati per far comprendere ai colleghi che una perso-na di 77 anni è si “vecchio”, ma se il mese scorso ha scalato il Resegone, probabilmen-te ha margini di recupero e può essere intu-bato, se necessario. La malattia da COVID è destruente sul pia-no fisico ma gli aspetti psicologici non sono meno importanti: ricordo un paziente che già il primo giorno di ricovero appariva gra-

vemente prostrato e non reagiva sul piano psico-emotivo. “Dottore -diceva- che senso ha tutto questo, io so che morirò ed è inu-tile che mi mettiate la CPAP”. Poi i familiari: come facciamo, molti sono in quarantena a casa e non possono nemmeno parlare con i propri cari. Fortunatamente la tecnologia ci viene in aiuto: Facetime, Whattsapp o anche Skype, per i più smart, hanno consentito di mantenere un minimo di contatti. Mi accor-gerò sulla mia pelle di come sia necessario tenere i contatti. Ed ancora, c’è bisogno di supportare sul piano psicologico l’equipe di cura. Noi geriatri siamo abituati al tema della morte: quante volte abbiamo fatto comprendere ai familiari dei nostri pazienti che era giunta l’ora del proprio congiunto e che non aveva senso prolungarne l’agonia. Ma quei pazienti erano per lo più persone logorate da anni di sofferenza e malattie e cure protratte in modo talora anche discuti-bile. Questi pazienti hanno la mia, la nostra età, potrei essere uno di loro…., e muoiono. Dobbiamo organizzare un sostegno psicolo-gico.

Quarta riflessione: di fronte a questo tsu-nami, è nata un’esperienza davvero unica e coinvolgente sul piano umano e profes-sionale. Si trovano insieme e lavorano nello stesso reparto professionisti con competen-ze diverse (geriatri, chirurghi vascolari, ne-frologi, oncologi) e, magicamente, si forma una squadra. Tutti sentono di dover (e voler) dare tutto ciò che hanno, sul piano umano e professionale. Gli specializzandi del primo anno, che prudenzialmente avevo tenuto fuori dal reparto COVID i primi giorni della pandemia, mi chiedono espressamente di entrare nei turni di lavoro perché anch’essi vogliono aiutare e sentirsi utili. Fuori dall’o-spedale gli striscioni inneggiano a medici e infermieri come eroi e così anche i messag-gi che ricevo sul telefono da amici e paren-ti. Nonostante la stanchezza, si percepisce

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16 GIUSEPPE BELLELLI

un diffuso entusiasmo, una motivazione in-tensa e spontanea, che aiuta a dare di più e meglio. C’è collaborazione, forza d’animo, voglia di rimboccarsi le maniche. E persino, talvolta, la voglia di sorridere e scherzare. E soprattutto c’è l’idea che più di così non è possibile fare per aiutare chi soffre e che, tutto sommato, è un privilegio poterlo fare.Poi la malattia. Compare la febbre una do-menica sera, dopo un’unità di crisi termi-nata nel pomeriggio. Sono a casa da solo, il giorno dopo tampone, positivo. Il virus mi ha “beccato”. Dove l’avrò preso? Da qualche paziente o da qualche operatore? Sull’ascen-sore? O forse non mi sono lavato le mani? Certo quel giorno non avevo i guanti…..al-cuni pensieri qua e là lasciano poi il posto a considerazioni di altro tipo. Ok, starò a casa per un po’ e poi riprenderò come prima. E invece no. Sale la febbre ed addirittura un giorno svengo in bagno. Una sincope, forse dovuta alla febbre. Fortunatamente c’è mia moglie, che ha voluto starmi vicino, e che, opportunamente bardata, entra in bagno e mi risolleva da terra, sudato e confuso. Ap-pena sto meglio penso quanto sono fortuna-to, nell’ordine: 1. Ad aver avuto la possibilità di fare il tampone (sappiamo che non tutti lo hanno potuto fare) e poter quindi proteg-gere i miei familiari; 2. Ad avere mia moglie. Il giorno dopo la febbre è ancora più alta. Mi provo la saturazione di ossigeno, 94-95% in aria ambiente. Mi dico, la saturazione non è brillantissima ma nemmeno critica. Però la febbre è ancora alta. Mia moglie mi convin-ce a chiamare in ospedale. E adesso come lo dico ai miei genitori? Entrambi sono anziani e potrebbero restare molto scossi. Mi faccio coraggio e li chiamo, cercando come possi-bile di tranquillizzarli. Ci riesco parzialmen-te… Dopo mezz’ora sono in Pronto Soccor-so: l’emogasanalisi rivela pO2 64 mmHg, ho bisogno di ossigeno e non ne percepisco il bisogno. La stessa riflessione fatta alcuni giorni prima quando i pazienti da curare

erano gli altri. Dopo un’ora ho fatto Rx e TC torace: polmonite con componenti ad-densative Ground Glass Opacity, bilaterale. Tipica. Segue ricovero. Subito percepisco la vicinanza dei colleghi che mi sostengono e mi rincuorano. Ho sempre cercato di so-stenere i pazienti che ho curato, ma perché così mi era stato insegnato. Iniziavo invece a sperimentare sulla mia pelle come una pa-rola di conforto aiuti moltissimo quando sei in difficoltà. Arrivo in reparto, il mio vicino di letto sta facendo la CPAP. In quei giorni la CPAP era la sua compagna di vita per 21-22 ore al giorno. L’infermiera mi chiede: anche lei deve fare CPAP? e, prima ancora che qual-cuno osasse rispondere, rispondo io: “no no, io solo occhialini”. Mi accorgo così che la prima paura è quella: come potrei sopporta-re 20 ore di CPAP di fila, in quello scafandro rumoroso che non ti fa vedere niente e nes-suno e pesa sul collo e sulle spalle? Mia moglie mi saluta in fretta e probabil-mente legge sul mio viso un’iniziale sco-ramento. Mi dice “non mollare, non lo hai mai fatto”. Certo le rispondo quasi mecca-nicamente, ma in cuor mio penso: “io posso mettercela tutta ma se il mio organismo non risponde….” Questo pensiero mi accompa-gna costantemente i primi giorni di ricove-ro. La preoccupazione sale. Poi però ci sono le telefonate, i messaggi continui, anche da persone da cui non te lo saresti mai aspet-tato. E ti accorgi che ti sostengono, ti fanno piacere e ti danno forza. Un mio collega ed amico, tra i tanti che mi hanno visitato in quei giorni mi dice: “questo virus sembra accorgersi di chi non ce la fa a reagire…ed è impietoso, se invece reagisci..”. Parole che in altri giorni avrei liquidato come banali e invece ti danno forza. Ritrovo ancora di più conforto nella preghiera. Tra alti e bas-si, soprattutto nei primi giorni, la situazione migliora. Riprendo a camminare ed a con-centrarmi su ciò che leggo. Migliorano an-che le condizioni cliniche del mio vicino di

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letto. Ne sono felice. È nata infatti un’intesa che può nascere solo in chi ha condiviso un pericolo serio! Mi sento di volergli bene come ad un familiare. Ed anche lui prova gli stessi sentimenti nei miei confronti. Poi l’e-mozione della dimissione (con mia moglie ad aspettarmi fuori dal reparto) e di tornare a casa, accolto trionfalmente dai mei figli. Il cuore in gola. Il resto (la quarantena) è una passeggiata durante la quale capisco di esse-re stato fortunato. Cosa mi ha insegnato questa vicenda? In-nanzitutto che è necessario riconoscersi deboli e vulnerabili, così come eliminare qualsiasi idea antropologica di potenza. Prima di questa vicenda, non avevo mai pensato alla mia morte come un’evenienza così concreta e vicina. Ma come è possibile,

perché proprio me, ho ancora tante cose da concludere, e poi quante persone potrei an-cora aiutare nella mia vita? Non è così. Que-sto virus -come è stato scritto recentemen-te- ha avuto lo stesso effetto della filosofia, distruggere le illusioni, la falsa coscienza. La morte può toccare chiunque ed è necessa-rio prepararsi a quest’evenienza. Parados-salmente, però, la tragedia serve a ritrovare l’umanità e la solidarietà. Quando si è nel pericolo riaffiorano qualità umane come la devozione, il sacrificio, il coraggio. Seconda lezione: lontano dagli affetti e dai propri pa-renti, lontano da un conforto religioso o mo-rale, è disumano. Chissà che questa vicenda non ci insegni a vedere con occhi nuovi la malattia e la sofferenza.

LA MEDICINA AI TEMPI DEL COVID: PICCOLA CRONACA DI UN MEDICO… CHE DIVENTA PAZIENTE

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 18-22

COVID 19 e gestione degli anziani nella emergenza e fuori della emergenza: vecchie e nuove paure dalle RSA alla società in Puglia, in Europa e nel mondo

GIANCARLO LOGROSCINO1,2, FRANCESCO SCAPATI3

1 Centro per le Malattie Neurodegenerative e l’Invecchiamento Cerebrale, Uni-versità degli Studi di Bari “Aldo Moro”- Pia Fond. “Card. G. Panico”.

2 Dipartimento di Scienze Mediche di Base, Neuroscienze ed Organi di Senso. 3 Presidente AIP, Regione Puglia

[email protected]@gmail.com

Nello scenario italiano della pandemia, la Puglia è stata fino ad adesso una regione a bassa espansione della malattia. I dati ad oggi (29 Aprile 2020) per una regione di 4 milioni di persone circa sono i seguenti: 4.029 casi con 410 deceduti, 692 dimessi guariti e circa 60.000 tampo-ni effettuati. Nonostante questi dati, che hanno rappresentato il risultato di un flus-so basso e stabile di casi con picchi registrati probabilmente in occasio-ne della migrazione al Sud di residenti settentrionali, originari del Sud Italia, in occasione del week end del 8 e 9 marzo.Abbiamo concentrato questa nostra riflessione sui dati delle RSA poi-ché secondo la Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) quasi 1 morto su 2 nel mondo è avvenuto in una RSA.Le residenze per gli anziani sono state individuate insieme agli ospedali dell’emergenza come principali siti di veicolo del contagio dalle autori-tà sanitarie. Sono al centro di quella strage silenziosa ed epocale, che si sta portando via un’intera generazione, quella artefice della ricostruzio-ne postbellica e del boom economico. Chiaramente, poi come dimostra la vicenda, soprattutto lombarda ma non solo, le RSA sono state a loro volta fonte di contagio silenziosa per il resto della popolazione o ber-saglio del contagio. Quindi è opportuno centrare la propria attenzione, su quello che è avvenuto nelle RSA in Puglia con confronti con l’Italia e il resto del mondo per una migliore emergenza di questa e di nuove emergenze.La fonte primaria dei dati è costituita, ad oggi, da 2.399 RSA presenti in tutte le regioni Italiane e le due province autonome, incluse nel sito dell’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) a cura del Ministero della Sanità (MdS)1. Ad ognuno dei referenti di ogni singo-la RSA è stato inviato un questionario con 29 domande che indaga la si-tuazione in corso a partire dal 1 febbraio 2020 e le procedure ed i com-

1 https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/pdf/sars-cov-2-survey-rsa-rapporto-2.pdf

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19COVID 19 E GESTIONE DEGLI ANZIANI NELLA EMERGENZA E FUORI DELLA EMERGENZA: VECCHIE E NUOVE PAURE DALLE RSA ALLA SOCIETÀ IN PUGLIA, IN EUROPA E NEL MONDO

portamenti adottati per ridurre il rischio di contagio da COVID-19. Hanno risposto al questionario del MDS e ISS 577 struttu-re, pari al 27% delle strutture contattate. Il 37.4% del totale dei decessi (1.443/3.859) ha interessato residenti con riscontro di in-fezione da SARS-CoV-2 o con manifestazio-ni simil-influenzali. Il tasso di mortalità fra i residenti (residenti al 1° febbraio e nuovi ingressi dal 1° marzo), considerando i de-cessi di persone risultate positive e/ o con sintomi simil-influenzali, è del 3.1% ma sale fino al 6.8% in Lombardia. In Puglia le strutture facenti parte della rete sono 60 ed hanno risposto in 40 (60%) con 1.470 residenti e 67 deceduti. Hanno chiara-mente avuto importanza le policy regionali e delle singole strutture sulla ammissione di nuovi ospiti nelle strutture e sulle limitazio-ni di accesso dall’esterno.La Puglia insieme ad Umbria e Campania è quella che ha il rapporto più basso tra numero di nuovi ricoveri verso numero di strutture (0.6 vs 0.4 e 0.6), comparati a va-lori alti in Friuli, Liguria, Abruzzo (6, 9.3, 10).Nel survey generale, la mancanza di dispo-sitivi di protezione individuale (DPI) e la difficoltà a realizzare nelle strutture sanita-rie percorsi e strutture isolate per COVID sono stati i problemi riscontrati come più importanti.La Puglia è poco sopra la media nazionale, in questa survey, sia per formazione del perso-nale sanitario, sia per sensibilizzazione dei pazienti sia per formazione nell’uso dei DPI.Nonostante queste note incoraggianti, in Puglia, si sono registrati episodi altamente negativi come quello di un RSA di Soleto in provincia di Lecce dopo i primi decessi da Covid 192. Qui in risposta all’ondata di no-tizie, in parte vere e in molti casi false, si è prodotta una fuga irrazionale del personale

2 https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/lecce/1217799/soleto-focolaio-contagio-in-rsa-abbia-mo-agito-al-massimo-delle-nostre-possibilita.html

senza un adeguato controllo da parte dei responsabili. Sembrerebbe che gli ospiti sia-no stati lasciati soli a se stessi e molte morti non sarebbero state dovute a COVID, ma a disidratazione prodotta da mancata assun-zione di cibo e bevande per oltre 48 ore. Poi la ASL Lecce, ha preso in mano la situazione e ha provveduto alla gestione in emergenza della struttura.Nella RSA di Soleto fino al 28 Aprile, si erano registrate 17 morti (poi saliti di numero an-cora) e 88 contagiati su 90 ospiti.Così in provincia di Lecce, su 378 casi com-plessivi di contagio, 89 provengono da strut-ture per anziani, quasi il 24%. Un abitante della provincia di Lecce su quattro il virus lo ha contratto in questa situazione.Questa storia denominata abbastanza im-propriamente da La Gazzetta del Mezzogior-no, “Il pasticcio di Soleto”, dimostra come uno dei problemi strutturali è la mancanza di controllo in tempi normali delle strutture di RSA date in gestione a privati.Interessante il confronto con la situazio-ne europea analizzata da una ricerca della Bocconi ad opera di Elisabetta Notarnicola, una docente al CERGAS (Centro di ricerche sulla gestione dell’Assistenza sanitaria e so-ciale). Di qui emerge che l’Italia si colloca meglio di altre realtà europee ancora più di-sastrate3. Secondo i dati di questa indagine, in Italia tra il 1 febbraio e il 6 aprile, sareb-bero morti l’8.6% dei residenti e circa il 24% del numero totale dei morti proverrebbe da RSA. In Europa, avrebbero fatto peggio dell’Italia quasi tutti gli altri paesi, con morti in RSA, sul numero totale di morti da CO-VID, intorno al 50% in Spagna, Francia, Irlan-da e Belgio, e addirittura il 63% in Norvegia. Fuori Europa, il picco di mortalità più alto si registra in Canada con il 57% mentre in Australia è il 14% e a Singapore il 20%.

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20 GIANCARLO LOGROSCINO, FRANCESCO SCAPATI

Gli anelli deboli del sistema RSA individuati dalla ricercatrice della Bocconi sono prin-cipalmente individuate in scarsezza dei collegamenti con le altre misure prese du-rante la pandemia nelle strutture che sono parte integrante del Sistema sanitario na-zionale, scarsa preparazione del personale, inadeguatezza dei percorsi di isolamento nelle RSA o addirittura al contrario, accesso deciso alle RSA durante la fase più critica dell’emergenza come successo in Lombar-dia ed ammesso dai responsabili regionali. Qui, per disposizione delle autorità compe-tenti, sono state trasferite persone COVID positive presso RSA. Paradossalmente, dalla survey europea, l’Italia ha retto meglio l’on-data rispetto ad altri paesi europei, perché le sue RSA sono caratterizzate da una mag-giore medicalizzazione delle strutture. L’emergenza COVID 19 ha messo in chiaro tutte le inadeguatezze di un sistema che era già in profonda crisi prima della pandemia, probabilmente in tutta Europa. L’uso di nuo-ve risorse economiche e la formazione del personale sanitario e non, in queste struttu-re, devono essere tutti elementi da riconsi-derare alla ripresa in un’era post emergenza.Nel Piano Nazionale demenza sono previste RSA demenze e strutture diurne per soggior-ni diurni allestiti per attività temporanee. Nel piano nazionale è scritto: “Implementa-zione di strategie e interventi per l’appro-priatezza delle cure: migliorare la capacità del SSN nell’erogare e monitorare i servizi, attraverso l’individuazione e l’attuazione di strategie che perseguono la razionalizzazio-ne dell’offerta e che utilizzino metodologie di lavoro basate soprattutto sull’appropria-tezza delle prestazioni erogate”. Nel settore delle RSA queste indicazioni non sono state per niente rispettate né prima né durante l’emergenza COVID. In tale senso ovvero sulla opportunità di un focus peculiare sulla gestione dei casi di demenza durante il Covid 19 un recente ar-

ticolo su Lancet di Huali Wang e collabora-tori (Dementia care during Covid-19, 2020)4 che pone l’accento sulle difficoltà ulteriori che si pongono al soggetto demente legate al limitato accesso alle informazioni, sia per quanto riguarda le procedure sanitarie che alla quarantena, per cui accanto alla prote-zione fisica nell’ambito delle strutture dedi-cate va portato avanti un adeguato suppor-to relativo alla salute mentale ed agli aspetti psicosociali. In tale prospettiva ci siamo chiesti quali fossero le possibili ripercussioni sulla salu-te psichica e a volte sulla psicopatologia, in particolare degli anziani, delle loro famiglie, dei contagiati e non, degli operatori sanita-ri, delle forze dell’ordine, dei lavoratori co-stretti a casa.Alcuni fattori sono ben individuabili. Ad es. se effettuassimo un ipotetico esame psichi-co anche a ciascuno di noi troveremmo una serie di importanti aspetti:

- il rapporto con lo spazio e il tempo è profondamente cambiato in quanto allo spazio teoricamente infinito a nostra di-sposizione ed a nessun limite a raggiunge-re mete anche assai lontane si è sostituito uno spazio notevolmente ridotto, spesso angusto, in coabitazione a volte forzata ed al tempo che è diventato per molti un lus-so rispetto ad un frenetico movimento, si è sostituito un tempo dilatato, con risco-perta di una nuova domesticità (più tem-po per noi e per i nostri familiari) e una nuova dimensione privata che verosimil-mente continueranno anche nelle diverse fasi successive.

- Il sentimento di paura è dominante, pau-ra del contagio, paura di doversi recare in ospedale, paura della morte propria e dei propri cari, paura per le generazioni futu-re, per i nostri figli e nipoti, paura dell’im-

4 www.thelancet.com, volume 395, 11 aprile 2020

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poverimento (molte volte, purtroppo, rea-le), paura dell’isolamento, paura del futuro con difficoltà a proiettarsi positivamente in esso.

- La solitudine dell’anziano. Oggi tanto rilevanti che appaiono profetiche le pa-role di Diego De Leo e Marco Trabucchi nel volume “Maledetta solitudine” (2019). Gli autori affermano che “qualcuno può sentirsi forte e circondato da barriere forti, però la persona intelligente capi-sce che deve predisporre difese che forse non userà mai, ma alle quali non può rinunciare” ed ancora “la solitudine è sofferenza maledetta non quando si è soli ma quando si ha il sentimento di non contare niente per nessuno”. Quin-di, se pur essendo in compagnia, quando mancano sentimenti quali la condivisione, l‘empatia, il rispetto, si avranno possibili atti di violenza dell’anziano verso familiari conviventi o viceversa. Quindi si realizze-rà un brusco passaggio da una prospettiva psicosociale in cui l’anziano da produttore di reddito e quindi di PIL, produttore di consumi e servizi (“Silver economy”), ad oggi, durante la pandemia, in cui sarà tra-sformato in oggetto di stigma, abbandono, ed istituzionalizzazione forzata, spesso mal direzionata (Ferranini L., comunicazione personale 2020).

- Inoltre da più parti si pone l’accento su un possibile incremento del rischio di suici-dio come emerge da un recente studio sul rischio suicidiario e sulle possibili linee di prevenzione dello stesso nell’ambito del-la pandemia Covid 19 (Gunnell D. et al., 2020) che pone l’accento anche sul con-sumo di alcool, sulla presenza di stressor familiari derivanti dell’isolamento e dalla quarantena.

È evidente quindi il rischio reale di un in-cremento quali-quantitativo della esclusio-

ne dell’anziano dalla Comunità e dai fattori fondamentali per il suo benessere. In tale senso si sono espressi più volte pubblica-mente Papa Francesco “…. il virus ci ha insegnato che non si può rimanere sani in un mondo malato…”, Il Manifesto di Assisi per una economia a misura d’uomo contro la crisi5. È importante ricordare an-che il rilevante contributo su Avvenire del 21 aprile 2020 dell’Arcivescovo di Taranto Mons. Filippo Santoro, che ha posto in evi-denza le problematiche legate a una even-tuale “clausura“ degli anziani, nonché il con-tributo del Prof. Antonelli Incalzi, (Intervista del 25 aprile 2020 a Ski TG 24) Presidente Nazionale della SIGG e Consigliere AIP che pone l‘accento sul rischio che l’isolamento psicosociale possa sfociare in altre proble-matiche che vede coinvolti in pazienti an-ziani. In queste sono da includere: disturbi comportamentali/psicopatologici con effet-ti sull’assetto affettivo/relazionale/cognitivo con aumento dell’utilizzo di ansiolitici, di-sturbi del ritmo sonno veglia, ripercussioni sulla salute psicofisica della ridotta e man-cante attività fisica.Occorre quindi effettuare un intervento complesso certamente a carattere politico - gestionale. Come esplicitato in un recen-te articolo di Giancarlo Cerveri, Direttore del DSM di Lodi (Psychiatry and Sars-Cov-2 Care, 20 aprile 2020, Evidence Basic Psy-chiatric Care, 1-2) ed anche sanitario con incremento della medicina del territorio e della ricerca scientifica in particolare nella ricerca di vaccini e di farmaci, ma anche fa-vorendo con interventi appropriati la capa-cità di resilienza in particolare degli anziani. “Ripartire? Certo. Ma per andare dove?”- si chiede sul Corriere della Sera del 17 aprile 2020 Enrico Giovannini nel suo articolo il cui titolo non a caso è “Mai come ora biso-gna parlare di giustizia sociale” - “Tornare

5 www.simbola.net /manifesto

COVID 19 E GESTIONE DEGLI ANZIANI NELLA EMERGENZA E FUORI DELLA EMERGENZA: VECCHIE E NUOVE PAURE DALLE RSA ALLA SOCIETÀ IN PUGLIA, IN EUROPA E NEL MONDO

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dove eravamo o provare a cambiare, an-che per evitare che questa crisi lasci segni indelebili” ed ancora “…ecco che la crisi deve diventare un’occasione per rivedere in modo sistemico il sistema di welfare”.In epoca di localismi e di irredentismi re-gionali, il virus ha annullato confini intra-re-gionali e nazionali ponendo problematiche globali ed universali. Siamo risultati inde-lebilmente interconnessi nel mondo com-plesso in cui viviamo con intersezioni economiche, sociali, politiche ma anche a livello individuale di tipo psicologico, come afferma Paolo Giordano (2020). La salute è inesorabilmente legata al benessere sociale e alla comunità. Anche Covid 19 non colpi-

sce casualmente ma segue inesorabilmente gli strati sociali e le marginalità: la mortalità da Covid negli Stati Uniti ha colpito, in par-ticolare, i centri urbani, soprattutto le grandi metropoli e le minoranze (in particolare i neri).Una narrazione appropriata, trasparente e articolata della pandemia sarà requisito fon-damentale per evitare nuovi disastri.In questa nuova fase della complessità, il linguaggio universale della scienza e di un nuovo umanesimo possono collaborare co-struendo nuove sinergie, nuovi strumenti di comunicazione, e modalità di azione. AIP potrà avere un ruolo primario in questo nuovo scenario.

GIANCARLO LOGROSCINO, FRANCESCO SCAPATI

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 23-27

La geriatria ai tempi del Covid-19 (le due facce della medaglia)

ANTONINO MARIA COTRONEOTorino

[email protected]

Quando il Prof. Trabucchi, nostro Presidente AIP, mi ha chiesto di scrive-re la mia esperienza di medico, Direttore di un Reparto ospedaliero di Geriatria, e di paziente, confesso di esser stato all’inizio un po’ tituban-te. Era forte in cuor mio il desiderio di tenere tutta per me questa per-sonalissima esperienza e di cercare di resettare il resettabile, trattando-si di un vissuto assai singolare e significativo. Ma è bastata una breve riflessione per comprendere due cose: la prima che dovevo lasciarmi andare, scriverla senza pensarci, perché, comunque, sarebbe servita a me e, al contempo, avrebbe fatto comprendere a chi la leggerà , che la vita riserva sorprese anche non piacevoli ma di cui, comunque, si può e si deve far tesoro; la seconda, e non per ordine di importanza, che al Prof. Trabucchi non si può dir di no.All’inizio dell’emergenza il mio stato d’animo era sereno. Ero consape-vole della situazione che si stava profilando, attento alle norme com-portamentali, vivevo in una sorta di onnipotenza nella convinzione di godere quasi di un’immunità rispetto al contagio e mi mostravo sem-pre pronto ad offrire protezione e supporto agli altri. Ma in un batter d’occhio, l’avvento del Covid 19 ha stravolto il mio lavoro e quello di tutti i colleghi del reparto; inevitabilmente la nostra vita ha subito uno stravolgimento dal momento in cui è stata disposta la trasforma-zione del reparto da Geriatria, come fino ad allora era stato, in Geria-tria Covid. I primi passi sono stati assai duri e traumatici per tutto il personale, armato esclusivamente di mascherina chirurgica oltre agli usuali strumenti in dotazione (tra cui guanti, fonendoscopio e camice) e collocato lì in trincea, con turni non più strutturati come d’abitudine ma adattati alla nuova situazione senza la certezza di un benché mini-mo riposo. Si sconvolge, tuo malgrado, lo stile di vita che fino a quel momento hai condotto, e non può essere altrimenti in un contesto di assoluta incertezza e preoccupazione.Tanti gli interrogativi e le perplessità dei colleghi che insieme a me si trovavano ad affrontare siffatto scenario: se operare in quelle con-dizioni significasse essere mandati tutti allo sbaraglio, privi di punti fermi dinanzi ad un nemico sconosciuto, quali i rischi in cui poteva-mo incorrere noi e, soprattutto, i componenti della famiglia, primi fra tutti i figli. Fin da subito i loro dubbi sono stati anche i miei, ma quel

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24 ANTONINO MARIA COTRONEO

che mi sono sentito di trasmettere è che il nostro compito di medici, la nostra mission, fosse proprio quella di dare cura ed assi-stenza ai bisognosi e, in particolare, ai nostri pazienti anziani.La risposta dei colleghi, pur con figli in te-nera età, non è tardata ad arrivare, facendo-mi sentire onorato ed orgoglioso di essere il loro Direttore. Tutti, senza mai risparmiar-si, si son fatti carico di turni massacranti con quella grande professionalità che li ono-ra come medici ma anche come persone. In proposito, ho anche avuto modo di consta-tare che chi, come me, aveva già lavorato in emergenza DEA - PS si è mostrato subito disponibile a iniziare con i Covid, diversa-mente e comprensibilmente da coloro che avevano sino a quel momento operato solo con pazienti stabili. In reparto senza sosta, con turni intermina-bili, tutto il personale giorno dopo giorno ha iniziato in silenzio ad accumulare stress e stanchezza, sia fisica che psichica. Questo ha dimostrato, più che in ogni altra situazio-ne, che i medici, così come gli infermieri e gli Oss, quando si trovano a difendere la sa-lute degli altri dimenticano la paura per se stessi pur restando concentrati sulla perico-losità del momento. Compito assai arduo ed umanamente oneroso è stato quello di cer-care di spiegare ai nostri pazienti cosa fosse questo male oscuro, la sua pericolosità, i ri-schi cui andavano incontro e il perché non potessero incontrare i familiari. Ma anche in questo caso la sensibilità e la disponibilità di medici ed infermieri non ha tardato a mani-festarsi. Attraverso delle videochiamate, nel tentativo di farli sentire più vicini e di ridur-re le barriere che il Covid aveva innalzato, i pazienti hanno potuto in qualche modo ac-costarsi ai loro affetti. In una fascia oraria quotidiana predeterminata tutto il perso-nale medico, poi, era disponibile telefoni-camente a dare notizie ai familiari che non avevano accesso in ospedale neanche in

caso di morte del loro congiunto per dar-gli l’estremo saluto, cosa questa tanto cru-dele e straziante quanto necessaria. Impotenti dinanzi a chi sentiva arrivare la fine della propria vita senza avere i pro-pri cari accanto.Invero, il nostro vissuto nell’ambito del reparto è stato segnato da molte storie toccanti. Una fra tutte ha colpito in modo indelebile il cuore di ognuno di noi; quel-la di un signore 80enne che ogni mattina, con singolare dignità e profondo rispet-to verso noi medici, stazionava dietro la porta del reparto, chiedendo con assoluto garbo di vedere la propria moglie degen-te, per consegnarle il cambio e qualche altro oggetto semplice ma sicuramente impregnato di umanità ed Amore. In più di un’occasione l’ho ricevuto in studio nel tentativo di spiegargli che per il bene di entrambi (la coppia non aveva figli) non poteva accedere nella sua stanza e tutte le volte sono rimasto profondamente colpito dalla sua delicatezza nell’accondiscendere al divieto che gli veniva imposto, pur senza comprenderlo. Mi ha narrato che era il suo amore da 60 anni, che da quando si erano sposati non si erano mai separati e che ave-vano vissuto una vita semplice, segnata da privazioni ma felice, condividendo tutto. Ri-cordo che un giorno, verosimilmente accor-gendosi della mia emozione pur in parte celata dalla mascherina, ascoltando le mie parole, con un lieve sorriso mi disse: “Caro dottore, so che state facendo il vostro dove-re; non si preoccupi ma faccia sapere al mio amore che io sono qui e che non la lascio sola”. Queste esperienze non possono non lasciare nel nostro intimo un solco profon-do, pur nella consapevolezza che nelle va-rie situazioni che si sono presentate, siamo stati professionali e rispettosi delle regole, talvolta saremo apparsi duri, ma nell’inte-resse esclusivo e primario dei pazienti. Guardando ai fatti accaduti, all’inizio a sot-

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25LA GERIATRIA AI TEMPI DEL COVID 19 (LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA)

tovalutare il pericolo Covid non sono stati solo gli amministratori e i politici ma vero-similmente anche molti di noi addetti ai la-vori. Queste le frasi ricorrenti: sarà come le altre volte, ci si abituerà come ci si abitua a convivere col rischio e con la morte, il vi-rus sarà lo stesso di prima. Va, comunque, detto che la classe medica si è lanciata in trincea senza ripensamenti né incertez-ze, nel mio caso forte di essere medico e geriatra, da sempre a contatto con pazien-ti impegnativi, visitati a 360° in quella che è la nostra valutazione multidimensionale con in più, stavolta, pure il Covid. Ed ecco che ad un certo punto, in un batter d’oc-chio, arriva lui: Ianus Bifrons, Giano Bifron-te, ricordandoci che la medaglia ha sempre due facce, fino a quel momento quella del medico, di chi presta cura ed assistenza, adesso invece quella del paziente. Tutto ha inizio quando due colleghe, con sintomi ap-parentemente ed auspicabilmente influen-zali, fanno il tampone. Risultato: entrambe positive (oggi fortunatamente guarite!). Alla successiva richiesta del tampone per tutti i colleghi ed infermieri, l’80% dei medici, me compreso, positivi.Da lì si stravolge tutto, comincia una nuo-va vita, un nuovo personale cammino della nostra esistenza. Giano Bifronte, l’altra fac-cia della medaglia, non più medico ma pa-ziente!Il virus in questione, come ormai ampia-mente acclarato, è sovente asintomatico ma a questo punto ti accorgi di averlo contrat-to. L’essere asintomatico se certamente è un vantaggio rispetto a chi presenta tutti i sintomi della malattia, rappresenta una tra-gedia molto forte dall’altro (sempre Ianus) per la comunità. Di colpo, sei diventato un untore del virus al pari di tutti i positivi asintomatici, che per la stragrande maggio-ranza non lo sanno. Appena appreso della positività, non prima di essermi preoccu-pato e di aver sperato che i miei colleghi

fossero negativi (oggi, anche loro, tutti gua-riti), essendo asintomatico rimango in isola-mento per i 14 giorni successivi, durante i quali non ricevo alcun contatto dagli organi preposti per comunicarmi la mia positività e ordinarmi la collocazione in isolamen-to. Stesso discorso per i miei colleghi. Primo contatto solo qualche giorno prima del tam-pone di controllo alla fine dei 14 giorni. La nuova condizione di paziente costringe a vi-ver segregato in una stanza, con spazi più o meno apprezzabili (nel mio caso, non mi lamento), isolato da tutto e da tutti. Un re-cluso. Senti sulla tua pelle tutta l’incertezza che prima vivevi da medico, non essendo verosimilmente appieno cosciente di quel-la che vivevano i pazienti. Avverti il perico-lo per i tuoi familiari (li avrò contagiati?) e per gli amici che hai incontrato in quel periodo, tutto pesa come un macigno. Cer-co di avvisare amici e conoscenti con cui sono stato in contatto in quei giorni, dicen-do che ero risultato positivo e li invito, di conseguenza, a stare di più all’erta su even-tuali sintomi ed eventualmente informare il medico curante. A questo punto, vien da sé, ti interroghi su come l’hai potuto con-trarre. Preso sottogamba all’inizio? Visitando in Reparto? Attraverso i contatti coi colleghi o in occasione di riunioni? Cambia poco dove, la certezza è che l’hai contratto. Da lì inizia la tua personale battaglia contro questo nemico sconosciuto, la resistenza ad esso, la tua resilienza.Inizi a vivere da prigioniero il tuo tempo in-teriore tra ansia, timore se non paura ma an-che speranza. Alcuni dei colleghi che versa-vano nella medesima condizione con i quali ho avuto occasione di parlare ostentavano disperazione e rabbia. Ma è allora che capi-sci paradossalmente ancora di più quanto la vita sia bella, quanto merita di essere vissu-ta ma, soprattutto, che comprendi di più i tuoi pazienti, il loro sguardo mentre li stai visitando, quando ti interrogano, quando ve-

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dono in te l’unico a cui possono affidarsi in qualità di medico.Da subito mi sono imposto di non sentire tutti gli esperti (ma lo sono tutti?) che ti cannoneggiavano ad ogni ora sui mass me-dia, on line e ovunque. Ho soltanto ascolta-to il radio giornale 1 delle h.8.00 e quello delle h.24. Quest›ultimo è sempre prece-duto dall›inno nazionale (senso di apparte-nenza, tentativo di esorcizzare il momento, chissà ...). Ho letto molto, anzi di più, filo-sofia, storia, medicina e poi, come i comuni mortali, ho guardato alcune serie tv , film e documentari sulla natura e storici. Nel senti-re telefonicamente i colleghi esperti sull’ar-gomento metti a nudo i loro limiti, che altro non sono che i limiti della scienza. Non per-di mai la fiducia e ti ritieni fortunato ad es-sere asintomatico ma rimani attento, come Vincent Kaminsk, il cecchino dell’omonimo film, ad ogni sintomo vero o presunto.Assisti senza essere protagonista alle ore che passano, confidando nella Speranza e ri-fugiandoti nella Fede, che mi è ha dato forte sostegno. Ma, al di sopra di tutto, in questi 35 gg di duro isolamento, sono pervenuto a una riflessione importante sulla mia vita e sul fatto di essere privilegiato ad avere una famiglia, anch’essa isolata e col peri-colo del contagio, in ansia ma che neanche per un istante ha mollato, facendomi sentire sempre il suo Amore e incoraggiandomi so-prattutto dopo il 3° e il 4° tampone ancora positivo, sempre serena all’apparenza ma in cuor proprio assai preoccupata.Resilienza! Quante volte ne ho parlato ai congressi, ai corsi di formazione, coi colle-ghi. Quante volte ho incoraggiato e suppor-tato pazienti, caregivers, familiari, persone bisognose. Ecco, appunto, resilienza e resi-stenza. Mi son detto: ora tocca a te stare in isolamento e solo con te stesso. Il pensiero ai familiari lontani, a mia sorella, ai pericoli che anche lei corre lavorando in ospedale, il desiderio di averla accanto in questo diffici-

le momento e magari di vederla presto, ap-pena quest’incubo avrà fine. Gli Amici che ti stanno accanto, ognuno a modo loro, ed anche lì capisci quanto sono importanti nel-la tua vita. C’è chi si accontenta di un sms al mattino ed uno alla sera per sapere che tut-to è ok e di un sms durante la giornata, come la coppia di amici e i familiari della lontana Sicilia ma che pur ti sta accanto in ogni mo-mento. Come dimenticarli. Chi durante il giorno ti invia sms con le scuse più strane ma allo scopo di sapere che ci sei, che sei lì. Chi non telefona per non “disturbare”. Chi ti telefona anche per un trascorrere un breve momento con te. A tutti ho cercato di ap-parire normale anche se normale non ero. Con molti ci sono riuscito, con pochi, quelli più vicini verosimilmente, no. Hanno capi-to ma sono stati al gioco. Mi auguro solo di non averli ulteriormente preoccupati. Sen-tirli vicini mi ha dato una forza ulteriore di cui sarò loro eternamente grato.Poi i problemi della quotidianità: come fare la spesa, come procurare il cibo ogni giorno per me e per i miei familiari? Ulte-riore grave handicap. Spesa on line impossi-bile, perché con consegne differite a più di una settimana. Non avendo parenti in loco, io e la mia famiglia dovevamo trovare una soluzione. Qui ancora una volta un Amico è stato esemplare (vero Enzo? Grazie di cuo-re). Gli facevamo la lista e provvedeva a por-tarci tutto quanto ci occorresse a domicilio senza sicuramente fare questo lavoro. Nel-la solitudine diventata orma inseparabile compagna alterni momenti di ansia (para-dossalmente aggravati dalla tuo essere un professionista e per questo consapevole di quanto sia pericoloso il virus, a come potreb-be variare la situazione clinica) a momenti di “gioia” o meglio di “gaia incoscienza”: alla fine sei vivo e sei a casa, asintomatico. Que-sto è importante, da questo trai ancora più forza, quella veramente più vitale. In tutta verità, non posso dire di non aver vissuto

ANTONINO MARIA COTRONEO

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e percepito la paura ma sono orgoglioso di averla affrontata con dignità. Solo chi è testi-mone diretto di questo vissuto di malattia è destinato a conservarne il ricordo come una cicatrice che non si potrà cancellare.Un doveroso pensiero va, poi, a tutti i colle-ghi, per buona parte conoscenti e ad alcuni amici, che hanno pagato con la vita la batta-glia col Covid, alle famiglie che hanno lascia-to, non senza chiederti e richiederti se tutto ciò possa avere un senso. Egoisticamen-te, ma non senza pentirtene nell’istante in cui l’hai pensato e provandone quasi ver-gogna, ti senti fortunato rispetto a loro. Tu sei vivo e stai combattendo. Ritornando un attimo alla figura del medico, ti accorgi che in giro ancora una volta l’ageism compare. Senti tra le proposte più svariate quella di tenere gli over 60 (ma si è pazienti geriatrici a 60 anni? Ma che abbiamo detto fino alle soglie del Covid?) a domicilio e di fare uscire solo i più giovani. Ancora una volta l’anzia-no o presunto tale diventa un peso sociale e non una risorsa. Ad un certo punto arriva il gran giorno, quello del 1° e del 2° tampo-ne: NEGATIVO! Ti senti rinato anche se den-tro di te sai che non sarà più come prima. Ritornerai alla cosiddetta vita normale, ma che normalità, in fondo si rientrerà al lavo-ro. Pensi che dovrai adoperarti con tutto te stesso perché tutto ritorni come prima ma anche meglio di prima. Sotto gli occhi di

tutti è, però, che se non ci saranno un vac-cino, dei protocolli validi e di conseguen-za efficaci, avremo un’unica soluzione al problema: ogni individuo dovrà difendersi da solo e preservare i suoi cari con le sole frecce nella faretra che avrà, dovrà, cioè, usa-re massima attenzione, adottare tutte le pre-cauzioni possibili e, perché no, dotarsi di un sano scetticismo.Certamente l’esperienza ti segna, ti lascia qualche ferita che ti servirà nella vita. Ho letto da qualche parte che la Medicina non è magia, ne un tifo calcistico.La Medicina è una scienza fatta di sacrifi-ci, di dedizione alla causa, di studio inten-so, di ricerca e, soprattutto, di tanta umanità e tanta vicinanza ai pazienti, ai bisognosi, ai nostri anziani fragili, facendo leva sempre sul senso di responsabilità individuale delle persone che ad essi sono dedite.E come tale, ci impone di rifuggire dai tut-tologi, dai venditori di elisir di lunga vita, da chi lancia sentenze, da chi vede complot-ti ovunque, incrementando l’incertezza e la preoccupazione.A tal proposito, concluderei con una frase di Oscar Wilde che in maniera incisiva e pre-correndo i tempi osservava che “Tutti colo-ro che sono incapaci di imparare si sono messi ad insegnare”.Un caro saluto a tutti.

LA GERIATRIA AI TEMPI DEL COVID 19 (LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA)

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 28-31

Il neurologo (e malato) al tempo del Covid-19

CARLO FERRARESEMonza

[email protected]

Ormai tutti, troppo tardi, ce ne siamo resi conto: questa tragedia ci ha cambiato la vita. Sembrava all’inizio una “malattia cinese”, che ci avreb-be coinvolto solo in parte, e che ad una eventuale diffusione in Italia, avremmo saputo reagire in maniera ottimale, grazie alla nostra scienza e alla nostra eccellente sanità pubblica, ma così non è stato. L’impatto della pandemia sull’Italia, in particolare in Lombardia e nelle regioni del nord, è stato devastante. Paragonato ad uno tsunami o alle peggiori esperienze del secolo scorso, guerre, dittature, altre pandemie come la spagnola. Tanti sono i motivi di questa impreparazione, che col senno di poi è facile individuare. Appelli inascoltati da parte dei medici di medicina generale, che già a fine dicembre segnalavano polmoniti “anomale”. In-tanto l’infezione si diffondeva in maniera occulta, spesso etichettata come influenza stagionale. Solo il caso di Codogno, evidenziato in ma-niera fortuita, ha fatto luce su una realtà fino ad allora misconosciuta, ma purtroppo già presente, almeno in Lombardia. Non è questo il momento per analizzare gli errori e i ritardi delle rispo-ste del sistema sanitario e politico, a livello locale, regionale, centrale, ri-tardi che però hanno messo in ginocchio la sanità, il paese e hanno faci-litato un pesante costo di vite umane, compresi tanti operatori sanitari. Piuttosto, cercherò di individuare i sentimenti e gli atteggiamenti di noi medici, operatori sanitari in prima linea, di fronte a questa catastrofe. Chiaramente è emerso un nuovo modo di affrontare la nostra realtà lavorativa, che potrà portare in futuro a nuove idee, nuove risorse e quindi ad un più adeguato modo di lavorare. Il primo sentimento di fronte alla marea montante di malati che tra la fine di Febbraio ed i primi di Marzo si presentavano al nostro Pronto Soccorso e venivano ricoverati in varie divisioni dell’Ospedale, è ov-viamente la paura di una realtà che ci stava sfuggendo di mano. Paura di non poter far fronte in maniera adeguata alle necessità, paura anche per la nostra incolumità personale e dei nostri familiari, date anche le scarse dotazioni, almeno iniziali, di dispositivi di protezione individuale e di adeguati percorsi e procedure assistenziali. Ma si è subito innesca-ta, in maniera spontanea ed in tutti gli operatori, medici di varie specia-lità, specializzandi, infermieri, un desiderio di dare il proprio contributo

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29IL NEUROLOGO (E MALATO) AL TEMPO DI COVID

in questa tragica emergenza. Come di fronte a gravi calamità naturali o a guerre, che per fortuna la nostra generazione non ha speri-mentato, si è manifestato fin dall’inizio uno “spirito di squadra” che per certi versi ci ha ancor più appassionato al nostro lavoro. Ne sono prova anche i numerosi pensionati che si sono offerti di collaborare, mettendo a rischio la propria incolumità. Lo “spirito di squadra” è un sentimento spontaneo che ci unisce in una comunità di intenti e ci spin-ge a dare il massimo, ciascuno nel proprio ruolo e con le proprie competenze. Si è spesso invocato lo “spirito di squadra” anche in passato, per tante situazioni lavo-rative più o meno difficili, ma non è mai stato realmente interiorizzato e quindi non si è mai manifestato nella realtà come in questa vera emergenza. In questa occasio-ne ciascuno è stato coinvolto in un senso di responsabilità collettiva, ha cercato di dare il massimo contributo per far fronte ai numerosi problemi sanitari e logistici che si presentavano. Sono state abbandonate le rivalità personali, i desideri di emergere o di “smarcarsi”, che sono di solito comuni in qualsiasi gruppo di lavoro, e si è instaurato spontaneamente uno spirito collaborativo che ha pervaso tutti. Inoltre, benché consa-pevoli del rischio, sia per sé che per i propri familiari, tutti hanno dato il massimo anche in situazioni che, almeno in fase iniziale, non permettevano di garantire un’adeguata sicurezza. Il rischio era messo nel conto, la paura presente, ma superata dal senso di im-pegno per portare il proprio contributo in una situazione di emergenza.Voglio sottolineare, in questo contesto, il ruolo e l’atteggiamento dei giovani medici specializzandi, di tutte le specialità mediche e chirurgiche, che hanno fatto prevalere il vero senso della loro professione medica, rendendosi disponibili per l’assistenza dei pazienti COVID indipendentemente dal loro tipo di contratto formativo in una spe-

cifica disciplina. Nessuno si è tirato indietro, ciascuno ha compreso che affrontare tale emergenza ha una valenza formativa che su-pera la specificità della propria carriera uni-versitaria. Questo è anche un insegnamento per noi docenti, che dobbiamo imparare a stimolare e richiedere non solo le compe-tenze specifiche, ma anche una disponibili-tà a “mettersi in gioco” come persone.Nel caso specifico della Neurologia, sono emerse fin dai primi casi descritti in Cina le possibili implicazioni neurologiche di un’infezione che non colpisce solo il siste-ma respiratorio, ma anche i vasi ed il cer-vello (Mao L. et al., 2020). In vari reparti di Neurologia, sia universitari che ospedalieri, che sono stati spesso sdoppiati, almeno in Lombardia, in COVID positivi e negativi, si è subito prestata la massima attenzione nell’osservare tutte le possibili manifesta-zioni neurologiche del COVID-19 e sono stati rapidamente descritti e pubblicati sin-goli casi significativi di esordi o complican-ze neurologiche di COVID (Alberti P. et al., 2020). Non solo, anche in ambito di ricerca (e non sempre succede…) si è cercato di “fare squadra” per proporre studi multicen-trici osservazionali, sia per particolari pato-logie come l’ictus, sia per tutte le possibili manifestazioni neurologiche, coinvolgendo in tal caso la Società Italiana di Neurologia (SIN) per la promozione e diffusione a li-vello nazionale di uno studio osservaziona-le retrospettivo-prospettico multicentrico, aperto a tutte le neurologie italiane1. Oltre alle complicanze neurologiche dell’infezione virale, sono emerse da subi-to le pesanti ricadute assistenziali per tan-te patologie neurologiche invalidanti che non potevano ricevere adeguate cure ed

1 http://www.neuro.it/web/procedure/contenuto.cfm?List=WsPageNameCaller,WsIdEvento,WsIdRisposta,WsRelease&c1=%2Fweb%2Feventi%2FNEURO%2Fcovid%2D19%2Ecfm%3FList%3DWsStartRow%26c1%3D1&c2=NWSNEURO&c3=107&c4=1).

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30 CARLO FERRARESE

attenzioni, sia in ambito ospedaliero, che riabilitativo, che domiciliare. In particolare i pazienti affetti da malattia di Alzheimer o altri disturbi cognitivi, si sono trovati isolati a domicilio o nelle residenze, senza poter ricevere visite di familiari e in contesti sani-tari rischiosi. I Centri per la Diagnosi e cura per le Demenze (CDCD), sia neurologici che geriatrici, si sono trovati di fatto impos-sibilitati nel proseguire le proprie attività diagnostiche, terapeutiche ed assistenziali. La SINDEM (associazione autonoma per le Demenze della SIN) ha promosso in pochi giorni la costituzione di un gruppo di stu-dio dedicato a questo tema ed un progetto “Studio degli effetti della quarantena per COVID-19 nei pazienti con demenza e nei caregivers familiari”2 con l’obiettivo di valu-tare ad 1 mese ed a 3 mesi gli effetti della quarantena sulla sintomatologia cognitiva e comportamentale dei pazienti affetti da de-menza e sulle condizioni di stress del caregi-ver familiare. Inoltre, nello stesso studio ci si propone di valutare le strategie di riorganiz-zazione dell’attività clinica dei CDCD a se-guito dell’emergenza Covid-19, le variazioni nella prescrizione dei farmaci per i disturbi cognitivi e comportamentali, le necessità dei caregivers durante la quarantena. Tale progetto è stato rapidamente diffuso sul ter-ritorio nazionale, grazie al coinvolgimento di SINDEM e AIP, ed ha visto l’adesione ra-pida di molti CDCD in tutta Italia, adesioni inaspettate al di fuori di tale contesto emer-genziale. Va segnalato, a questo riguardo, anche un al-tro aspetto positivo emerso in questa emer-genza: la “burocrazia”, almeno in ambito sanitario, è miracolosamente diventata più celere e si è messa al servizio delle esigen-ze dei clinici con una solerzia inaspettata in altri tempi. Approvazione rapida di proget-

2 https://www.sindem.org/protocollo-ricerca-osser-vazionale.pdf

ti da parte dei Comitati Etici, assunzioni di giovani medici meritevoli, di infermieri in base alle necessità ci hanno fatto capire che quando si vuole è possibile…La speranza quindi è, che lo spirito di squa-dra, il mettersi in gioco personalmente, la voglia di collaborare superando velocemen-te qualsiasi ostacolo, la dovuta attenzione alle esigenze della nostra sanità possano proseguire anche in futuro. Speriamo.Al momento del passaggio, per certi versi previsto, dal ruolo di medico impegnato “al fronte”, al ruolo di malato, altri sentimenti sono emersi, sentimenti nuovi, inaspettati, legati ad un senso di incertezza totale e di paura per il futuro, per sé e per gli altri.Nel pieno del lavoro sia clinico che di ricer-ca sopra descritto, una lieve tosse ed un ri-alzo febbrile sono suonati come campanel-lo d’allarme proprio di quello che tutti noi sanitari temevamo: restarne colpiti diretta-mente. La positività del tampone ha subito confermato il forte sospetto diagnostico e precipitato la situazione personale in una nuova, inaspettata, ma per certi versi temu-ta, dimensione. Relegato in casa, con l’enor-me rischio, poi puntualmente verificatosi, di contagiare anche i familiari. Ovvio il senso di responsabilità, se non di “colpa” per quel-lo che stava succedendo, e di quello che nella peggiore delle ipotesi poteva succede-re. Il decorso della patologia, come noto, è imprevedibile, da casi lievi che si risolvono in pochi giorni, a casi che nel corso delle prime settimane si complicano fino a gra-ve insufficienza respiratoria, a complicanze vascolari multi-organo e alle note numero-se complicanze neurologiche, che stava-mo osservando e descrivendo. Da medico e ricercatore sono quindi passato di colpo dall’altra parte, con tutte le paure ed incer-tezze nello sperimentare in prima persona una situazione clinica nuova, imprevedibile, con prognosi e terapie al momento ancora sconosciute. Per fortuna nel mio caso non vi

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è stata necessità di ospedalizzazione, come per altri colleghi più sfortunati, alcuni rico-verati a lungo, alcuni in terapia intensiva, al-cuni purtroppo deceduti. Anche nei casi con sintomi meno eclatan-ti, tuttavia, il decorso sembra non avere mai termine, e ancora oggi, dopo più di un mese, dopo aver superato la fase più critica e rischiosa, la sintomatologia non si è com-pletamente risolta, come confermato dal persistere della positività per il virus….ma quanto dura veramente la malattia?La malattia però, come spesso succede, può cambiare la nostra vita. I valori che contano trovano la giusta dimensione e non si perde tempo ed energie per tanti problemi meno rilevanti. Anche il lavoro viene valorizza-to per gli aspetti veramente importanti. La possibilità di continuare a lavorare da casa, grazie al PC e ai collegamenti via e-mail e

via WEB per lezioni, riunioni collegiali, pro-getti di ricerca, ci consente di mantenere il contatto con la nostra realtà lavorativa quo-tidiana. Un utile “effetto collaterale” dell’epi-demia, sia per la scuola, che per la ricerca, è lo sviluppo e la capacità di utilizzo di piatta-forme informatiche che prima per pigrizia non utilizzavamo.Speriamo che quando questa calamità sarà finita (perché finirà, prima o poi…!), sap-piamo tutti trarre un’importante lezione dalle nostre esperienze di lavoro e perso-nali di questo periodo, per mantenere un atteggiamento nuovo sia verso la nostra realtà lavorativa che individuale. Lo “spirito di squadra”, di cui parlavo sopra, dovrebbe proseguire perché in effetti siamo tutti chia-mati a “remare insieme” per il nostro lavoro e per il nostro paese.

IL NEUROLOGO (E MALATO) AL TEMPO DI COVID

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 32-35

La relazione e la comunicazione con le persone rico-verate in ospedale con disturbo neurocognitivo mag-giore e con Covid-19

ORAZIO ZANETTI1, SILVIA SPANU2, PAOLO BETTINI3, DAVIDE V. MORETTI1, MARIALUISA SORLINI1, CRISTINA GEROLDI1, STEFANIA ORINI1

1 U.O. Alzheimer-Centro per la Memoria e Servizio Clinical Trials. IRCCS Istituto Centro S. Giovanni di Dio-Fatebenefratelli, Brescia, Italy

2 Scuola di Specializzazione in Geriatria dell’Università degli Studi di Sassari3 Scuola di Specializzazione in Geriatria dell’Università degli Studi di Udine

[email protected]

Viviamo un inedito che nessuno avrebbe maivoluto scrivere, che non avrei mai pensato di

scrivere, che non avrei mai voluto scrivere.

Se solo per un attimo - sospeso ai fili della fantasia, sforzandoci di uscire dall’ atrabile circostanza, non pensassimo alle famiglie (e ne chiediamo loro profondissime scuse), ai loro lutti, alle loro solitudini, alle distanze dai propri cari, alla sofferenza per non poter comunicare, anche solo con un sorriso, con una carezza sul viso, con uno sguardo, per ricono-scerlo - guardassimo solamente alle persone con demenza che ospitia-mo nei nostri ospedali, ci piace pensare che vivano come in una favola. Li vediamo attorniati da personaggi apparentemente strampalati nel loro abbigliamento inconsueto, ma amorevoli e professionalmente pre-parati, dalle bardature che li fanno sembrare venuti dalla luna o da pro-fondità sottomarine, ma profondamente vicini, un po’ marziani, forse anche un po’ burattini, ma sensibili professionisti, con quelle masche-rine che evocano becchi d’anatra o di altri animali terrestri, o uccelli fantastici, occhiali da palombaro, visiere da tornitore-saldatore (quante memorie!), copri calzari color carta da zucchero che fanno pensare a chi scrive alle dolci prelibatezze del marzapane, bianche tute che ci ricordano l’atterraggio sulla luna. Potrebbero essere verosimilmente anche personaggi usciti da un film di Walt Disney o da mille altre favole. Ebbene, ci piace pensare che questa nuova realtà di relazioni non con-suete, strampalate appunto, rievochi in loro tempi passati e soprattutto le favole, raccontate o lette attorno ad un ampio, accogliente e caldo camino della loro infanzia. E che li possa riscaldare anche ora.Ciascuno di noi è stato letteralmente travolto da uno tsunami fino a ieri sconosciuto, che ci ha costretto a ridisegnare, giorno per giorno, le nostre vite professionali di medici geriatri, di professionisti della salute, secondo ordini non prestabiliti dalla consuetudine e dall’esperienza, dalle linee guida, dall’EBM, bensì sull’onda è proprio il caso di dirlo dei

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33LA RELAZIONE E LA COMUNICAZIONE CON LE PERSONE RICOVERATE IN OSPEDALE CON DISTURBO NEUROCOGNITIVO MAGGIORE E CON COVID-19

dati che quotidianamente si affastellano di fronte ai nostri occhi increduli ma sempre più preoccupati per un futuro incerto. Pre-occupati per i malati, per gli ospedali allo stremo, per gli operatori che come “eroi” affrontano la propria quotidianità, per le famiglie isolate, per i malati nella loro soli-tudine… addolorati per i lutti attorniati ed avvolti non da affetti o da lacrime di addio, non da ricordi che fanno rivivere i nostri cari (ma questi, per fortuna, rimarranno nei più), non da riti secolari che ci accompagna-no, per chi crede, verso vite migliori - con il calore di chi ci ha è stato amico, ci ha voluto bene, e la testimonianza della comunità che ci ha conosciuti da vicino - ma da un robo-ante silenzio, da un anonimo sacco nero, da file di camion militari, che indelebili solche-ranno le nostre memorie.È un’ondata virale il cui volto “diabolico” ci appare ancora in larga parte scomposto ed incerto. Sono molti gli interrogativi aperti che non consentono di intravedere scenari prevedibili; anche i più potenti modelli ma-tematici - come per le previsioni del tem-po - arrivano poco lontani, poiché fondati su conoscenze acerbe, frammentarie, volu-bili, talvolta inaffidabili. Anche l’incrollabile ottimismo di chi scrive si deve piegare alla triste consapevolezza che ci dovremo con-vivere per tempi non brevi.Come è possibile comunicare con le per-sone affette da demenza e deterioramen-to cognitivo nei tempi di SARS-CoV-2 (il virus che ci ha sconvolto le vite sociali e professionali) e di COVID-19 (la malattia che ha mietuto le vite di migliaia di perso-ne soprattutto anziane). Se guardiamo alla realtà, prendendo in prestito gli occhi ed i pensieri delle persone con deterioramento cognitivo, forse, la prospettiva è profonda-mente diversa dalla nostra, frutto in gran parte della loro inconsapevolezza, protetti dal fatto di essere ignari di ciò che li cir-conda. È chiaro però che non conosciamo

la loro voce, i loro pensieri (Reuben D.B., 2020). Li possiamo interpretare, al massimo. Abbiamo la fortuna di condividere la vita professionale, oltre che con colleghi con i quali le relazioni si sono fatte più intense (e cosi, forse, mitigare ansie, timori, preoc-cupazioni (per la propria e l’altrui salute), difficoltà diagnostiche e terapeutiche com-pletamente fuori dagli schemi tradizionali), anche con alcuni medici specializzandi in geriatria ai quali abbiamo chiesto qualche telegrafica e spontanea riflessione sulla rela-zione con le persone da noi ricoverate con demenza moderata-severa, cosa pensassero, come si fosse modificata la loro relazione clinica. Ovviamente erano ben consapevoli che il reparto per la riabilitazione delle Per-sone affetta da decadimento cognitivo dell’ IRCCS Fatebenefratelli si era trasformata di fatto in una COVID Unit.Silvia che viene dalla Sardegna mi riferisce che: “Il primo pensiero che ho avuto quando ho indossato i dispositivi di protezione indi-viduale è stato “come faccio a comunicare con i pazienti?”. In un primo momento ho infatti fatto fatica nell’approccio. Indossare mascherina, visiera e tuta genera oltre ad un disconfort, un certo grado di barriera visiva ed acustica. Rendono più difficoltosa la co-municazione non verbale, che com’è noto, con i pazienti con demenza ha un ruolo fondamentale. Pertanto ha richiesto un mio maggiore impegno nel farmi comprendere, per esempio alzando il tono della voce. Ho cercato inoltre di usare altri tipi di relazione, come un miglior contatto fisico, con qual-che carezza in più e mi pare sia stata ben accolta. Dal punto di vista dei pazienti ho avuto la sensazione che le persone affette da deterioramento cognitivo non abbiano avuto particolari disagi nei confronti del nuovo tipo di “abbigliamento”. Una pazien-te mi ha detto che la facevo ridere. Insieme agli educatori abbiamo fatto dialogare un paziente con i suoi famigliari tramite vide-

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34 ORAZIO ZANETTI, SILVIA SPANU, PAOLO BETTINI, DAVIDE V. MORETTI, MARIALUISA SORLINI, CRISTINA GEROLDI, STEFANIA ORINI

ochiamata e per il paziente è stato molto emozionante”. Paolo, di Brescia, mi consegna le sue rifles-sioni: “L’idea che mi sono fatto è che la mag-gior parte dei nostri pazienti con demenza non si sia neanche accorto dell’emergenza in atto, o al massimo abbia notato dei cam-biamenti senza essere in grado di creare un nesso causa-conseguenza logico (per esem-pio la malata E.P. che ci ha visto come “pa-lombaro”, ma questo apparentemente non le ha creato apprensione o curiosità, come se fosse la cosa più naturale del mondo). Per quanto mi riguarda il mio rapporto con i malati non è cambiato per nulla, a parte naturalmente le precauzioni da adottare per evitare ulteriori contagi”. Entrambi gli specializzandi ci confortano nel pensare che il “tempo sospeso” che tutti noi viviamo oggi sia molto più famigliare a chi, senza memoria del passato, vive abitual-mente e quotidianamente in un tempo so-speso, fatto di ricordi embricati, di infanzie, di focolari domestici, di case del passato, di visi noti, di vite rurali, con le galline, i maiali e le mucche, di vecchi amori, di passati tradi-menti, di Marilyn Monroe e di canzoni come “Volare”, di partigiani e reclusi in Germania nella seconda guerra mondiale (come il pa-dre di alcuni di noi), di passioni con radici lontane ma ancora vive, ma solo nel presen-te, solo nel presente. E questo rafforza in noi l’idea che -ignari loro del proprio presente- i nostri malati possano percepirsi davvero come attori o spettatori inconsapevoli di qualche favola, almeno lo speriamo. È altrettanto chiaro però che le regole con-solidate dall’esperienza che guidano il no-stro approccio comunicativo diacronico con le persone che vivono con deteriora-mento cognitivo, soprattutto nelle fasi mo-derate-severe o conclamate (Disturbo neu-rocognitivo maggiore) appaiono almeno in gran parte sovvertite.

Scorriamo alcune regole specifiche relative alla comunicazione con le persone con de-terioramento cognitivo (Lucchi E., 2013):

1) Tutti noi abbiamo bisogno di comu-nicare con altre persone, sia in modo verbale che non verbale. La comunica-zione tra le persone consente di raffor-zare il senso d’identità e nel frattempo garantire la cosiddetta qualità di vita.

2) La comunicazione presuppone una cooperazione tra i diversi attori. L’in-terazione tra emittente e ricevente è caratterizzata da un meccanismo di feedback e si basa su due modalità comunicative che sono tra loro inter-dipendenti: l’aspetto verbale del co-municare (le parole utilizzate nel loro significato) e l’aspetto non verbale (il suono della voce, il contatto corporeo, la distanza interpersonale, la postura del corpo, la mimica del volto, il contat-to visivo).

3) La comunicazione non-verbale rappre-senta il miglior modo di comunicare, di connettersi, con le persone affette da deterioramento cognitivo. Le com-ponenti essenziali sono rappresentate dall’espressione facciale, dal tatto, e dai gesti. Il riconoscimento delle emozioni sui volti è legato prevalentemente al ruolo del network frontoparietale. Una buona quota di soggetti con malattia di Alzheimer mantiene questa capacità in fase moderata della malattia. In partico-lare sono le emozioni positive quelle più facilmente riconosciute dai sogget-ti con demenza.

4) Il linguaggio comprende, oltre alla co-municazione verbale (spesso limitata nelle persone con deterioramento co-gnitivo), la comunicazione vocale (si-stema paralinguistico) ovvero il tono di voce, il suo volume, le pause e il ritmo.

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5) Il sistema comunicativo umano con-templa anche il sistema cinesico ov-vero la mimica facciale, lo sguardo, la gestualità e la postura.

6) Un’espressione facciale sorridente può favorire un senso di gioia in chi ci vede. Ricordargli persone del passato. Intro-durre la relazione con un sorriso può aiutare la “conversazione”. È ben noto che le persone con demenza possono non ricordare i nomi delle persone ma riconoscerne il viso, il profilo e le espressioni!

7) La comunicazione non verbale espri-me l’interiorità, comunica le emozio-ni, definisce la situazione relazionale, sostiene la comunicazione verbale, si sostituisce alla comunicazione verbale in particolari contesti.

8) Il contato corporeo è spesso fonda-mentale. Comunica la presenza, il calo-re di qualcuno che ti sta accanto ed il desiderio di stabilire una relazione.

9) Il rapporto presuppone sempre un cer-to grado di coinvolgimento emoziona-le. Il processo comunicativo non può essere emotivamente asettico.

10) Le persone che svolgono la professione di cura hanno una grande responsabili-tà: facilitare e mantenere la costruzione della relazione comunicativa con l’am-malato. Il fallimento o la buona riuscita è nelle loro mani, non è colpa o merito del paziente che, per sua caratteristica intrinseca, è in una condizione di de-bolezza e fragilità, deve essere accolto, accompagnato e guidato. Per tale moti-vo l’operatore sanitario dovrebbe esse-re un esperto comunicatore e un abile costruttore di legami. È all’interno della relazione che si costruisce la cura.

11) Comunicare, con le varie molteplici modalità possibili, è uno strumento di cura.

L’ondata del Coronavirus ha letteralmente sovvertito le nostre abituali prassi quotidia-ne, comprese le nostre relazioni con i ma-lati, oggi pressoché esclusivamente affidate al telefono, alle mail, o ad altre modalità di “telemedicina” per sostenere la profonda solitudine dei famigliari e dei loro cari. Nella vita ospedaliera di chi vi scrive abbiamo fat-to un tuffo nel passato, dalla medicina “soft” ambulatoriale che occupava gran parte del nostro tempo professionale a quella “hard” del reparto con persone affette da CO-VID-19. Abituati a comunicare con l’espres-sione del viso, con il tatto, con una tonalità di voce che fosse in grado di evocare qual-che risposta verbale o non, con il labiale che compensava l’ipoacusia, ora ci presentiamo con scafandri e protezioni che a malapena fanno intravedere gli occhi, costretti spesso ad alzare la voce per stabilire una qualche comunicazione verbale, il tatto sostituito da una scivolosa, anonima, e fredda, superficie di lattice (mi raccomando doppi guanti!). Ma sempre con la passione di essere vicini alla sofferenza di chi ci si affida, perché non dobbiamo mai dimenticarci che noi siamo “i loro difensori privilegiati”.In conclusione, insistiamo nel pensare (ma ne siamo certi) che le persone con deterio-ramento cognitivo vedano noi, strampalati operatori sanitari, bardati con tute, occhiali protettivi, copri scarpa carta di zucchero e guanti, come personaggi che animano le fa-vole della loro infanzia. Possano, infine, i focolari della loro infanzia essere di buon auspicio per il nostro prossi-mo incerto futuro.

LA RELAZIONE E LA COMUNICAZIONE CON LE PERSONE RICOVERATE IN OSPEDALE CON DISTURBO NEUROCOGNITIVO MAGGIORE E CON COVID-19

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 36-39

Lettera da un distretto dell’appennino Parmense

GIOVANNI GELMINI Parma

[email protected]

L’apparente “quiete dopo la tempesta”: credo che questo possa essere il miglior inizio di questo breve excursus che vuole raccontare, in maniera sintetica, l’esperienza di un Distretto di Montagna ai tempi del coronavirus, attraverso le parole di chi in questo momento ha il compito di dirigerlo (sommando tale attività a quelle della direzione delle Cure Primarie). Si tratta del Distretto Valli Taro e Ceno, dal nome dei due fiumi che nascono nell’alto appennino e che caratterizzano altrettante vallate, sito in provincia di Parma, formato da un territorio orograficamente piuttosto disagiato, che comprende tra i sedici comu-ni che lo caratterizzano ben due di essi, Bedonia e Bardi, forse tra i più vasti del panorama nazionale con i loro rispettivi 170 e 190 Km2. Nel distretto vivono circa 44.500 persone, la maggior parte in bassa valle (Medesano è il comune più popolato con i suoi circa 11.000 abitanti); la popolazione più anziana è in alta valle, dove gli ultrasettantacin-quenni rappresentano circa il 20%, dove l’indice di vecchiaia medio si attesta intorno a 400 e dove gli anziani ultrasettantacinquenni soli sono circa il 30% (e se si aggiungono le coppie di anziani si arriva ad una percentuale di circa il 60%), da come sembra emergere dai dati che stiamo elaborando in merito ad una ricerca sulla fragilità che si è sviluppata da tempo nel nostro Distretto e che sta procedendo in questo momento proprio in alta valle. All’inizio ci siamo trovati di fronte ad una tempesta, inaspettata nei termini di come si è presentata, forse sottovalutata nella sua dimensio-ne morbosa, che ha imposto un correre ai ripari progressivo, sempre più urgente, che ha coinvolto tutta la componente sanitaria e non del territorio, a partire dal nostro ospedale di zona, l’Ospedale Santa Maria di Borgotaro, che ha dato le prime risposte alla patologia infettiva in maniera tradizionale, coinvolgendo quindi nel percorso morboso diver-si operatori sanitari e non, compreso il sottoscritto, che fortunatamente ha risolto il problema in maniera brevemente sintomatica e per lo più paucisintomatica e che ora viaggia con suo bagaglio di IgG piuttosto consistente (con IgM negative e ovviamente tamponi orofaringei ne-gativi da quasi un mese). La quarantena, effettuata nel periodo di massima espressione della ma-lattia, è stata caratterizzata da un’ansia operativa ed organizzativa con-

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37LETTERA DA UN DISTRETTO DELL’APPENNINO PARMENSE

tinua, dove dalla mia stanzetta di “eremita gestionale”, sono riuscito, stante la paucisin-tomaticità, a produrre, proporre e applicare procedure organizzative, spesso da inter-pretare e adattare al modello distrettuale, sulla base delle direttive che provenivano dall’Azienda e ancor prima dalla Regione. Ovviamente tutto è stato possibile grazie alla presenza nei “luoghi della cura” di bra-vo personale sanitario ed amministrativo non contagiato che con grande dedizione ha reso “pratica” tutto ciò che nasceva dal nostro quotidiano e continuo confronto te-lefonico e telematico. Devo dire che la tec-nologia caratterizzante lo Smart Working è stata uno strumento fantastico che mi ha permesso di agire, nei 22 gg. di quarantena, praticamente al 100% delle mie possibilità (firma elettronica compresa) potendo così rimanere nei tempi organizzativi ed ammi-nistrativi necessari senza ritardi e disguidi. Le statistiche distrettuali elaborate dal Di-partimento di Sanità Pubblica raccontano che nel nostro distretto vi sono stati 349 persone positive al tampone naso faringeo e circa 1000 persone (familiari, contatti) messe in quarantena. Per entrambi i dati numerici il rapporto tra bassa valle e alta valle è stato del 65% rispetto al 35%, ovvero la bassa valle, caratterizzata da agglomerati abitativi più consistenti, è quella che ha pa-gato il maggior contributo anche in termini di vittime (la maggior parte a Medesano e Fornovo Taro che nell’insieme raggiungo-no i 17.000 abitanti). I comuni montani, dove più consistente è il dato di solitudine dell’anziano, sono quelli che in percentuale hanno registrato il minor numero di positivi con ben 6 comuni in cui i casi possono es-sere tranquillamente contati con le dita di una o due mani.Ovviamente non sono contemplati su quan-to riportato sopra tutti quelle situazioni cliniche sintomatiche fortemente sospette soprattutto del periodo iniziale(diciamo in

un rapporto 4:1/5:1, forse anche di più), che sono stati gestiti a casa dai MMG, devo dire diligentemente isolati per lo più dagli stessi a domicilio e con spesso disposta quarante-na anche a molti famigliari a scopo preventi-vo (che ovviamente non tutti hanno rispet-tato). Sistematicamente ho avuto diversi contatti con i MMG per le problematiche più varie e devo dire che mediamente la sorveglianza e l’assistenza messa in campo dagli stessi è per lo più risultata efficace, so-prattutto dopo che l’esperienza ha portato ad agire in maniera tempestiva e precoce con la terapia antibiotica (azitromicina in primis), con l’idrossiclorochina/clorochi-na, con l’eparina a basso peso molecolare. Tutti i colleghi sono praticamente concordi nell’affermare che, dopo il consolidamento pratico di questa terapia laddove ovviamen-te possibile e non controindicata, si sono drasticamente ridotti gli invii in ospedale per patologia respiratoria grave. Attualmen-te stiamo infatti assistendo ad una discreta stabilizzazione della situazione sul territorio e, in particolare, ad un quasi azzeramento dei ricoveri ospedalieri. E questo per ef-fetto sicuramente delle regole governative imposte che stanno ovunque funzionando ma anche, credo, delle corrette terapie pre-coci praticate. L’attività della maggior parte dei MMG è stata, già a partire all’inizio dello “tsunami”, estremamente attenta, scrupolo-sa e on scevra da pericolo, tanto è che il 35% di loro si è infettato in maniera più o meno clinicamente rilevante. In pratica la maggior parte dei nostri medici “di campa-gna e montagna”, hanno agito con grande disponibilità e dedizione, rimanendo prati-camente sempre, come si suol dire, “sul pez-zo” e costantemente aggiornati. Per quanto riguarda il territorio, in supporto ai MMG, è stata organizzata a disposizione per tutto il distretto una USCA (Unità Spe-ciale di Continuità Assistenziale), sulla base di una direttiva ministeriale (prevista una

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38 GIOVANNI GELMINI

USCA ogni 50.000 abitanti), recepita fin da subito dalla nostra regione, dedicata esclusi-vamente ai pazienti covid o sospetti tali, sin-tomatici, che necessitano di una disamina clinico-valutativa domiciliare , attivabile con concordanza ed esclusivamente dal MMG. Ad oggi l’attività dell’USCA si è caratteriz-zata in 132 interventi tra visite domiciliari (80%) e consigli telefonici (20%), determi-nando l’ospedalizzazione di sole 4 persone a causa delle problematiche respiratorie che non consentivano al domicilio il man-tenimento di una sufficiente saturazione di ossigeno. Sono inoltre state attivate due uni-tà infermieristiche domiciliari dedicate, una in alta valle ed una in bassa valle, finalizzate alla gestione bisogni assistenziali infermieri-stici in pazienti covid o sospetti tali. Ciò in affiancamento alla normale attività di ADI. Situazione molto delicata ed al momento potremmo definire forse la più importan-te sul piano strategico – organizzativo in rapporto al problema infettivo pandemico è quella delle strutture per anziani, che nel nostro territorio si caratterizzano in 11 Case Residenza per Anziani Non Autosufficienti (CRA), in 4 Comunità Alloggio per Anziani, in 1 Comunità Alloggio Disabili, in 1 Comu-nità Alloggio Psichiatrica e in 3 Case Fami-glia. Alcune di queste, fortunatamente poche, sono state colpite, due in particolare an-che pesantemente, dalla pandemia con una mortalità ad essa dovuta (accertata o sospet-ta) che si assesta in totale sul distretto al 4.93%. La maggior parte delle strutture in-fatti, grazie ad un trinceramento iniziale nei confronti dell’esterno ed ad una particolare attenzione/formazione del personale non solo all’uso corretto dei DPI ed alla strategie igieniche corrette ma anche a considerare essi stessi come possibili portatori dall’e-sterno del virus (parenti sospetti, contatti, ecc.), sono riuscite per il momento a restare indenni. Ed è forse proprio dove queste at-

tenzioni sono state, in particolare all’inizio, più o meno sottovalutate o disattese che si sono manifestati i problemi. L’attenzione all’interno delle strutture ha fatto si che, laddove alcuni ospiti evidenzia-vano sintomi flogistici, gli stessi venivano immediatamente isolati in “quarantena” così come i compagni di camera sebbene spesso asintomatici, delimitando in tal modo alcu-ne sporadicità sospette che non hanno in-nescato nessun focolaio.A supporto delle nostre strutture territoriali sono state create, con grande lungimiran-za organizzativa da parte del management aziendale dell’AUSL e dell’Azienda Ospeda-liera Universitaria di Parma, tre Unità Mobi-li Multispecialistiche che vengono attivate dalle Strutture svolgendo un compito molto importante sia sul piano clinico-diagnostico che sul piano igienico-organizzativo. In pra-tica tutti i pazienti sintomatici o sospetti tali vengono valutati con ecografia toracica a cui seguono consigli terapeutici (quasi sempre la conferma delle terapie in atto) ovvero la necessità di un ricovero direttamente in un reparto del Dipartimento Geriatrico- Riabi-litativo (senza dover passare dal PS). Dell’e-quipe fanno parte solitamente un medico geriatra/internista con competenze ecogra-fiche, un pneumologo, un infettivologo ed un igienista che valuta le corrette applica-zioni igienico-sanitarie fornendo consigli e disponendo modifiche organizzative laddo-ve necessario. L’attività della Unità Mobile è stata determinante, non solo in termini di efficacia ma anche per infondere sicu-rezza al personale, assicurandolo in merito alla buona assistenza prestata, in ben 8 delle nostre strutture. Il problema delle strutture per anziani è volutamente all’attenzione, ora come non mai, delle nostre due aziende al punto che la strategia in atto al momento si caratterizza nell’effettuazione del tampo-ne a tutti gli ospiti delle strutture, nella va-lutazione (o spesso rivalutazione/controllo)

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dell’èquipe dell’Igiene Pubblica sempre in tutte le strutture, nella valutazione sierologi-ca anticorpale (test rapido) a tutti gli opera-tori da ripetersi periodicamente in caso di negatività ovvero agendo di conseguenza in caso di positività. Tutte le strutture inoltre producono una scheda bisettimanale dove indicano se vi sono nuove criticità al loro interno la cui finalità è l’eventuale attiva-zione immediata delle attività di supporto di cui sopra.Da parte dei Sindaci tutti del Distretto c’è stata molta attenzione ai problemi dei loro cittadini e lo dico anche sulla base dei diver-si contatti telefonici che ho avuto con loro. I nostri comuni si sono tutti dati molto da fare per supportare a favorire gli approvvi-gionamenti di alimenti e farmaci alle perso-ne anziane e sole grazie in particolare alla Protezione Civile che sta facendo un lavoro straordinario come straordinario è il lavoro dei nostri volontari di Croce Rossa ed Assi-

stenza Pubblica nonché quello dei gruppi di volontariato che sono sorti nei vari comuni fatti in particolare, da quanto mi risulta, da molti giovani. Persone instancabili che da quando è iniziata l’epidemia non hanno mai smesso di offrire tempo e disponibilità an-che oltre il richiesto. Voglio per finire proprio segnalare la gran-de collaborazione che c’è tra tutti gli enti (comuni, forse di pubblica sicurezza, asso-ciazioni di volontariato) e la dimostrazione l’abbiamo avuta circa 3 settimane fa allor-ché, presso l’Ospedale di Borgotaro, Forze di Pubblica Sicurezza, Sindaci e forze di Vo-lontariato hanno voluto onorare e ringra-ziare gli operatori sanitari e socio-sanitari dell’Ospedale e del Distretto lasciando nel personale stesso un grande senso di soddi-sfazione, “ragazzi” e “ragazze” (indipendente-mente dall’età) che in questo ormai troppo lungo periodo non si sono certo risparmiati.

LETTERA DA UN DISTRETTO DELL’APPENNINO PARMENSE

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 40-41

Diario Covid da un Covid Hospital qualsiasi…

ALBERTO CESTERDolo

[email protected]

Questa che per molti è una pandemia, per noi è stata uno Tsunami. Io ho sempre fatto il Geriatra negli ultimi 30 anni di mia professione, nei primi 10 anni dopo la laurea, come tutti mi sono barcamenato, tra varie attività precarie, le frequenze e le specialità… Ma la mia vocazione era ed è quella di fare il Geriatra.Negli ultimi due mesi mi sono trasformato dentro un Covid Hospital, chissà perché si continuano ad usare termini di derivazione anglosas-sone, come se fosse più brutto, o più invasivo chiamarlo Ospedale per pazienti Covid 19 positivi. Dopo i primi giorni di esplosione della domanda, di caos organizzativo, di un clima difficile, che ha invaso e travolto appunto come un ciclone noi e gli altri reparti, saturandone i posti letto, anche noi abbiamo do-vuto capitolare, ed abbiamo iniziato ad accogliere pazienti positivi al virus. È stata una esperienza difficile, formativa e crudele. Piena di nuo-ve curiosità che non venivano sanate da un apprendimento a modello scientifico tradizionale: parlo con chi conosce…, leggo la letteratura sul tema, no… nemmeno le consolidate certezze di una letteratura robusta ed inconfutabile ci hanno sostenuto; abbiamo invece imparato come in un tempo antico, dalle nostre e dalle altre esperienze, dai nostri e dagli errori degli altri…Svuotati delle nostre peculiarità, siamo tornati al ruolo ancestrale di cura, all’inizio anche con forzature nei confronti delle età dei pazienti ricoverati, financo giovanissimi, fenomeno poi ridimensionatosi dopo la prima ondata. Ora abbiamo solo pazienti vecchi, Covid +!Voglio darvi tra le mille cose che vorrei riferirvi, e che si affollano nella mia mente, la più crudele: il rapporto con la morte di questi pazienti. Veder morire le persone anziane senza nessuna vicinanza, soli, spesso disperati, più che nel conosciuto delirium…, non si addice alla morte da vecchi, e nemmeno ai miei sentimenti, anche se con la morte avevo/avevamo tutti a che fare molto spesso ed era ed è, un evento per il qua-le eravamo “preparati”. Era ed è in genere un percorso doloroso, ma strutturato, fatto di vici-nanze, silenzi, rispetto, coralità di interventi, terapie misurate ad hoc, comunque sempre condiviso dal team e dalla solidarietà e vicinanza dei nuclei familiari. Era fatto anche di accompagnamento, di terapie di

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41DIARIO COVID DA UN COVID HOSPITAL QUALSIASI…

supporto, di decisioni difficili e cordoglio; in realtà nessuno si abitua alla morte, nemme-no noi che ci stiamo così vicini… ora però tutto è cambiato. Questa riflessione mi è ve-nuta una mattina quando nella riunione con gli altri Direttori di Unità Operative, abbia-mo affrontato le normative sulla gestione delle salme.Devo dire che mai avrei pensato di assistere a morti in totale solitudine e mai avrei pen-sato di veder trattare i cadaveri con un tec-nicismo che ha tuttavia tratti abbandonici, di vederli andar via con una sorta di bollino Chiquita della Covid positività, avvolti in sudari bagnati di liquidi disinfettanti, quindi chiusi in una busta… come nelle peggiori serie americane poliziesche.Il cadavere, già simbolo di sconfitta per la medicina, viene violato, deprivato dei banali riti di pulizia, ricomposizione…, e rivesti-zione, ridotto a simbolo della sconfitta tera-peutica di una battaglia, l’ultima, che viene sovrapposta ad altre cicatrici cliniche e ba-nalmente indotta da una modificazione dei rituali, da un banale quanto letale, virus del-la famiglia del raffreddore…. Quale maggiore sconfitta narcisistica per la

nostra presunta e tracotante “potenza” tera-peutica, nella medicina moderna, capace di tanti successi, quasi invincibile, ma arenatasi su di una pandemia, equiparabile alla scon-fitta della Spagnola, proprio come 100 ed oltre anni fa… Mi chiedo e vi chiedo: a cosa è servito il progresso, se siamo ridotti a questo punto ? In cui dispacci e DPCM talora confusi o incomprensibili, ci confinano nei nostri spazi, ci inducono ad una vita antica quasi monastica, nelle nostre ed altrui solitudini, noi che vivevamo di socialità, noi che visi-tavamo come Ippocrate e ci nutrivamo di valutazione globale (VMD), di osservazione, di contatto con il malato… Da dove dovremo ripartire per ricreare una medicina geriatrica credibile dopo questa esperienza? Senza pensare poi a cosa sta succedendo nelle Strutture Residenziali per anziani…Riflessioni in un tardo pomeriggio in un Ospedale per malati Covid +, a pochi gior-ni dalla mia pensione, se non mi ammalerò, uno di noi infatti positivizzatosi, è ricovera-to in reparto di Infettivologia… a lui adesso va il mio pensiero.

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 42-43

Di nuovo in corsia

LAURA DE TOGNIVerona

[email protected]

Sono una neurologa e lavoro a Verona (Ulss9),dopo anni di corsia gli ultimi dieci anni responsabile di un CDCD territoriale e che da circa due anni è stato inserito in una UOC di Neurologia Ospedaliera. Dal 18 marzo tutte le attività ambulatoriali differibili del nostro CDCD sono state sospese. Tutti noi operativi nel CDCDC siamo messi in gioco: co-struendo una nuova modalità di lavoro per accogliere il forte grido di aiuto che arrivava dalle molte famiglie che abbiamo in carico ci siamo immediatamente attivati per supportare le famiglie che gestiscono a domicilio i propri cari con demenza e che presentano disturbi com-portamentali. Tutti medici, infermieri e psicologi attraverso il telefono, mail, videochiamate abbiamo attivato canali di comunicazione con le famiglie. Abbiamo costruito una rete territoriale più forte di prima con i Medici di medicina generale e con le RSA. Ci siamo resi conto che il lockdown ha creato parecchi problemi anche in pazienti con decadi-mento cognitivo lieve. Si sono slatentizzati disturbi del comportamento spesso più gravi dove la famiglia è più fragile (il coniuge solo, il figlio lontano…). Si è creato un forte legame di collaborazione con i medici di medicina generale che mai come in questo periodo hanno apprez-zato la presenza e la possibilità di condividere le scelte terapeutiche. Si sono evitati accessi al PS psichiatrici a molti dei nostri pazienti… Il mese di marzo è passato così con un lavoro continuo per creare quella rete che seppur senza il senza contatto fisico è stata arricchita dalla carica umana e professionale di tutti coloro che operano nel CDCD. Personalmente ho vissuto il mese di marzo come sospesa seppur con-vinta che il mio lavoro era prezioso. Ho toccato con mano l’importanza di esserci di essere presente per chi non potevo vedere ma di cui senti-vo la sofferenza: i nostri anziani e i meno anziani affetti da decadimento cognitivo e le loro famiglie.Il mio pensiero, però, correva sempre ai colleghi come Renzo, Alberto, Marino che ogni giorno combattevano in prima linea contro il nemico invisibile, e la sensazione di sospensione e una lieve angoscia tendeva-no ad aumentare di giorno in giorno. Poi all’inizio di Aprile sono stata chiamata a prestare servizio all’ospeda-le Covid di Villafranca (dove opera l’UOC di Neurologia a cui afferisco) e sono entrata in corsia infettivi.

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43DI NUOVO IN CORSIA

È stata un doccia fredda! Un tumulto di sen-sazioni. Medici ed infermieri avvolti in cami-ci, sopracamici e maschere…tutti uguali ed irriconoscibili! Ho avvertito la solitudine dei pazienti e la loro sofferenza dietro alle porte chiuse delle stanze di degenza. Ho toccato con mano la morte e la guarigione che si mescolavano senza una logica. Ho avvertito una forte sensazione di inadeguatezza.Io neurologo abituato ad osservare e valu-tare attentamente tutti i segni clinici per arrivare alla sede della lesione e quindi alle ipotesi diagnostiche. Non poter toccare, os-servare per periodi prolungati i pazienti è strano e mi ha trasmesso una sensazione di grande impotenza, e a tratti mi ha fatto pro-vare dolore. Un continuo arrivare di persone

ammalate con la stessa etichetta: COVID 19. Ho imparato ad utilizzare i respiratori e le maschere per la ventilazione, ho imparato ad osservare i pazienti attraverso le masche-re. Ho fatto cose diverse ma ho fatto il me-dico!Negli ultimi il numero maggiore di pazienti è dato dagli anziani residenti nelle RSA che arrivano al ricovero dopo un periodo di malattia prolungata. Tutti hanno una o più comorbidità. Tanti non ce la fanno. Ancora dolore ancora impotenza…ancora turni snervanti…ma dal 4 maggio si riapriranno i nostri ambulatori ma dovremo tenere tut-te le precauzioni. E se possibile utilizzare la modalità telematica per le visite di follow up…. Inizia un nuovo capitolo.

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 44-48

Il Covid-19 in Poliambulanza. Il quarto cavaliere. Appunti dal mio diario

RENZO ROZZINIBrescia

[email protected]

“Appena poi la pubblica Autorità ordinò che gli ammalati fossero condotti al lazzaretto (giacche a motivo del copioso numero non era più possibile che venissero convenientemente assistiti al loro domici-lio) alcune Signore entrarono piene di coraggio nel reclusorio delle miserie, e della morte per assister uomini e donne indistintamente, e tra queste una nobile giovine di 22 anni (...)Ieri ho chiesto ad un choloroso uscito dall’ospedale come fosse stato assistito da quelle persone, e col pianto della gratitudine sugli occhi mi rispose queste precise parole -Quelle sante persone non sono della mia sfera. Desse sono angeli. - E dopo avermi esposte dettagliate circostanze sull’amorosa assisten-za, fini esclamando piangendo: non è possibile immaginarsi tanta carità. - 28 luglio 1836”.

(La Gazzetta della Provincia di Lodi e Crema,

del 20 Agosto 1836)

Il 24 gennaio 2020 arriva la prima lettera dalla direzione sanitaria in-dirizzata ai responsabili Medici e Coordinatori infermieristici dell’ospe-dale. “I cluster di casi di polmonite verificatosi nella città di Wuhan, impor-tante snodo di trasporto nazionale e internazionale situato nella pro-vincia di Hubei in Cina è stato segnalato all’OMS a partire dal 31 di-cembre 2019. I CDC cinesi hanno identificato un agente causale nel nuovo coronavirus 2019-nCoV appartenente a una grande famiglia di virus respiratori che possono favorire forme cliniche che spaziano dal comune raffreddore alla MERS fino alla SARS.Il nuovo coronavirus 2019-nCoV può causare sia una forma lieve, simil-influenzale che una forma più grave di malattia, soprattutto in presenza di patologie croniche e nelle età più avanzate.Poiché autorità cinesi e l’OMS confermano che è stata dimostrata la trasmissione da persona a persona si sono verificati casi tra il personale sanitario e sono attualmente in corso indagini per valutare contagiosi-tà e dimensioni del farmaco sia a livello internazionale che nazionale Ministero della Salute e Regione Lombardia dispongono che i medici

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45IL COVID-19 IN POLIAMBULANZA. IL QUARTO CAVALIERE. APPUNTI DAL MIO DIARIO

ospedalieri supportati dagli operatori sani-tari di competenza si attengono a quanto declinato nella seguente procedura evitan-do inutili allarmismi”.Il 20 febbraio vengono diagnosticati in pronto soccorso i primi due casi positivi per Sars-COVID-19.Il 22 febbraio la seconda comunicazione:“Con la presente si comunicano le ultime notizie ufficiali fornite dal ministero e da regione Lombardia in merito alla diffusione della infezione da coronavirus, COVID 19.Presso la direzione sanitaria è stata costitui-ta l’unità di crisi operativa h/24 in grado di valutare ogni situazione giudicata meritevo-le e di interfacciarsi per ogni decisione con le istituzioni preposte di in particolare ATS”.Inizia in questo modo la storia l’epidemia da coronavirus nel mio ospedale.Qualche giorno fa un vecchio paziente è stato ricoverato in corsia ordinaria. Ha feb-bre alta e diagnosi di polmonite, come molti altri pazienti in questa stagione e come altri viene trattato. La febbre non recede e i casi positivi a COVID-19 registrati negli ultimi due giorni ci porta a fare il tampone nasofa-ringeo agli ultimi quattro pazienti ricoverati per polmonite. Il paziente risulta positivo, viene immediatamente trasferito nei letti dedicati (letti COVID) e si procede a fare il tampone a tutti i medici e infermieri che ne sono venuti in contatto. 13 su 25 risultano positivi. Devono lasciare il lavoro. E’ il pri-mo e unico “errore” che si registra, sono i primissimi giorni, i casi sono in numero cre-scente, ma allora rari, e senza la consapevo-lezza della malattia. Alcuni infermieri e un medico risultati po-sitivi, asintomatici, chiedono di poter rima-nere al lavoro in ambiente COVID, lì non potranno infettare nessuno, non riescono a immaginare di non essere di aiuto e di do-ver gravare con la loro assenza sui carichi di lavoro. Le pizzerie, le pasticcerie mandano cibo

nei reparti. È un segno gradito di vicinanza da parte della città. È anche un segno utile, permette di trovare qualcosa da mangiare nei pochi minuti di pausa che riusciamo a prenderci. Arrivano soprattutto pizze. Nei momenti in cui riesci ad andare in cucina una fetta, anche fredda o vecchia, che nessu-no ha avuto il coraggio di buttare, o non ha pensato di farlo, la trovi sempre. Se prendi la fetta sbagliata per tutto il pomeriggio do-vrai aggiungere alla nausea provocata della contingenza anche quella dovuta alla pizza andata a male.Oggi non sono arrivate pizze nè brioches, ma caramelle gommose dall’oratorio di Ca-stegnato, da don Luca. Sarà il mio pasto “dol-ce” e stomachevole per un paio di giorni.Arrivo prima delle sei e nei corridoi incon-tro molte infermiere che iniziano il turno. In questi giorni sono serie, determinate nel passo, camminano una dietro l’altra sem-brano formichine. Un mese fa arrivavano a crocchi, ciarliere, spesso festose, nonostante la buonora. Ora hanno l’aria concentrata, la testa bassa, impressiona la serietà che non si addice alla loro giovane età. Piera dice che i pazienti non dormono. Quando entri in stanza hanno gli occhi stra-lunati, di chi non riesce a chiudere occhio. Ogni farmaco che proviamo a somministra-re, i consueti, è fallimentare. Alcuni riescono a malapena a farlo un paio di ore per notte. La nostra impressione è che sia un’inson-nia biologica (legata alla malattia virale) non ambientale, l’ospedale, o da stress. Ne parliamo con Eugenio, la letteratura non ha ancora affrontato il problema, dice di con-siderare anche una causa farmacologica, e telefonicamente con Fabrizio che da psi-chiatra supporta maggiormente un’ipotesi psichica, lo stress, la paura. L’impressione che ci faremo è che l’insonnia possa essere un comunque considerata un indicatore di attività di malattia: quando il paziente inizia a dormire significa che è iniziato il migliora-mento, in via di guarigione.

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46 RENZO ROZZINI

Ieri abbiamo avuto 19 decessi.È un mese che non vedo la luce del giorno. Devo uscire, fare almeno due passi. Tolgo il camice, mi infilo giacca e cappotto, l’inten-zione è di fare una passeggiata, il giro dell’o-spedale. Davanti al pronto soccorso un via vai di furgoni e carri funebri, non può che essere così, ma tanti così, insieme, non ne ho mai visti. Fa impressione.Stamattina la morte di un paziente di 49 anni è stata durissima. Sono angosciato dall’idea che non tutto sia stato fatto bene.Come ogni mattina, prima di incontrare gli infermieri, ho passato in rassegna tutti i dia-ri infermieristici della notte; lui, pur essendo in ventilazione non invasiva, aveva riposato. Critico, ma non in pericolo immediato. Lo stesso mi ha confermato la caposala al pri-missimo meeting.Alle sette un’infermiera chiama dicendo che la situazione sta precipitando, corriamo al letto del malato e immediatamente chiamia-mo medici e infermieri della rianimazione che procedono all’intubazione. Dopo un’o-ra si constata il decesso. Inti, ha telefonato alla moglie e parlato anche con uno dei due figli, quello più grande di 11 anni, e con la madre. È sconvolta.Torno in stanza, devo rivedere la salma, non riesco a capacitarmi. A nulla è valsa la rianimazione. Chiudo la porta. Gli tolgo il lenzuolo lo guardo, nudo, sul letto. Ha sul volto e sul torace i segni della rianimazione, sulle braccia gli ematomi delle endovenose. Null’altro. Non riesco a farmene una ragio-ne, esploro ogni centimetro della pelle, non c’è niente che dice che qualcosa non anda-va. Ha un doppio orecchino d’oro all’orec-chio sinistro, unico segno di “trasgressione”. Mi attacco a questo “sperando” sia la spia di una vita sregolata (vedi il pregiudizio!), una condizione, una comorbilità, che in qual-che modo renda ragione della sua morte. Il giorno dopo leggerò sul giornale che era un bravissimo volontario della CRI, un donato-

re AVIS. Trattengo a fatica il vomito.La morte dei pazienti è pesante. Ho telefo-nato a una figlia dicendo del decesso del padre, era informata della gravità, ma ugual-mente sperava potesse farcela. Mi ha chiesto di poterlo vedere l’ultima volta, almeno con una video chiamata. Le ho detto che l’avrei fatto. Mi torna alla mente un libro letto tan-tissimi anni fa (Confessioni di un becchino poeta”, di Thomas Lynch sull’umana pietà di preparare i morti: “Un uomo con cui lavoro, Wesley Rice, una volta ha trascorso un’inte-ra giornata e un’intera notte a ricucire con cura i pezzi del cranio di una ragazza che era stata uccisa da un folle. [...] Molti imbal-samatori, di fronte a quello a cui Wesley si trovò davanti dopo che aprimmo la sacca dell’obitorio si sarebbero limitati a dire ‘bara chiusa’ [...] sarebbe stato più semplice. Il prezzo era lo stesso. Invece lui cominciò a lavorare. Diciotto ore dopo, la madre della ragazza, che aveva implorato di vederla, la vide”). Ho informato le ragazze che si sono impe-gnate a sistemarlo, Simona gli ha fatto la bar-ba, l’ha pettinato, sistemato come potuto i lineamenti, messo cuscini in ordine sotto il capo, lisciato le lenzuola, reclinato il letto. Quando mi sono convinto che potesse es-sere “guardato” ho chiamato la figlia con un tablet. Lei e i suoi figli hanno potuto dare l’ultimo saluto. Abbiamo recitato una pre-ghiera e poi ognuno di loro gli ha detto ciao ad alta voce forse perché sentisse meglio. Mi spiace che suor Agostina non possa esse-re con noi. Più di tutti sarebbe stata in gra-do di aiutarci a capire i bisogni dei pazienti, più di noi sarebbe in grado di capire la loro criticità. Mi spiace anche per lei. Immagino la sofferenza, sua e delle consorelle anzia-ne, costrette alla reclusione, segregate nelle loro stanze, per evitare il contagio. Madre Amalia telefona per avere informazioni del-le suore ricoverate. Non sempre riusciamo a dare notizie buone. Ci sono vicine con la

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preghiera. L’impossibilità di stare accanto ai pazienti nell’ora della morte deve per loro essere un dolore grande (“lasciate che mi dedichi al servizio di queste povere infeli-ci”). Ma non ci possono essere, è un lusso che non si possono permettere: la malattia per loro sarebbe terminale, devono stare in assoluto isolamento.La tensione di questi giorni mi produce una nausea che riesco a controllare a malapena retraendomi dalla contingenza, devo passa-re dallo “stomaco” alla “mente”, in questo modo però il cervello rischia ancor più la malora, perché è nella realtà che deve stare.Sono tormentato dall’idea che quando que-sto tempo finirà la mia medicina non avrà più medici che la vorranno o sapranno fare. Dopo aver visto quello che stiamo vedendo temo che un paziente che verrà da noi con un problema minore (ad es. la perdita della memoria) non avrà l’attenzione necessaria. E poi chi avrà l’umana pietà di provare do-lore per la morte di qualche vecchio in casa di riposo dopo aver visto il decesso di molte persone attive e robuste.Bisogna pensare alla medicina che sarà, e questo credo non lo possano fare solo i me-dici. Stamattina Antonio Spadaro, il direttore del-la Civiltà Cattolica ha scritto “La crisi, in que-sto tempo di coronavirus, si manifesta come mancanza di immaginazione. Non sappiamo come sarà “dopo” (né quando esso sarà). Ab-biamo bisogno di coltivare la nostra capaci-tà di immaginare un futuro ben consapevo-le di quel che stiamo vivendo ora”. Credo sia il vero problema.I miei collaboratori cominciano a essere stanchi, anche se ogni tanto si prendono una giornata di riposo, più o meno stanno lavorando come me. Oggi sono riuscito a leggere un po’ di articoli, uno in particola-re interessante sull’approccio ippocratico-cattolico (adottato anche dalla nostra Co-stituzione) che attribuisce a tutti i cittadini

stessa dignità e valore e quello utilitaristico-protestante che considera il valore della persona in relazione alla sua utilità sociale. “Forse finisci per salvare più persone, ma alla fine hai una società in guerra con se stessa. Ad alcune persone verrà detto che non contano abbastanza”.Sono stato a salutare Florenc, il mio giovane infermiere in Rianimazione. È sveglio. In-tubato. I rianimatori con i quali ho parlato sono relativamente ottimisti. Domani, mas-simo post domani proveranno a estubarlo. Quando gli ho detto tutti i colleghi lo salu-tavano si è messo una mano sul cuore. Ha pianto. A casa ha la moglie che aspetta il secondo figlio. Ho detto di guarire in fret-ta che abbiamo bisogno di lui, che c’è da lavorare. Mando un messaggio ai compagni di liceo poi diventati medici. Piero mi risponde im-mediatamente. È in pensione da poco. Sono molto legato a lui, ci accomuna il liceo, l’uni-versità, la stessa data di nascita dei nostri po-veri padri e una stima reciproca mai espli-citata, ma ugualmente data per buona. Ha esperienza internistica, ematologica e tra-sfusionale. Ha sempre lavorato agli Spedali Civili. Sarà di grande aiuto nella valutazione e nel controllo dell’adeguatezza dei tratta-menti, gli sono grato. Si fermerà con noi per tutta la fase critica.Giuseppe è il primo dentista (specializzan-do) che viene a dare una mano. È giovane, sveglio, non ha bisogno di tante istruzioni. Il padre è stato uno dei fondatori del mio ospedale, per molti anni il riferimento me-dico per noi medici e per la direzione. Giu-seppe conosce bene l’ospedale per questo, il luogo della vita professionale del papà (e della sua morte). A lui affido il compito di preparare le lettere di dimissione con le in-dicazioni comportamentali necessarie per il post ricovero per paziente e famiglia. A lui se ne affiancano altri due (“giovani denti-sti nel tempo del COVID”). Quando ho un

IL COVID-19 IN POLIAMBULANZA. IL QUARTO CAVALIERE. APPUNTI DAL MIO DIARIO

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momento di tempo vado da loro, isolati in una stanza, lontani dal ciclone della malattia, mantengono la serenità e il buonumore pro-prie della loro età. Sono preziosi. Il 25 febbraio erano ricoverati 26 pazienti (8 in OBI-PS e 18 nei primi letti COVID). Il 7 marzo sono ricoverati 176 pazienti (15 in OBI-PS, 139 in reparti COVID, e 23 nelle in Terapia Intensiva).Il 16 marzo sono ricoverati 339 pazienti (40 in OBI-PS, 255 in reparti COVID, e 44 nelle in Terapia Intensiva).Il 20 marzo sono ricoverati 427 pazienti (55 in OBI-PS, 316 in reparti COVID, e 56 nelle in Terapia Intensiva)Il 28 marzo sono ricoverati 420 pazienti (30 in OBI-PS, 319 in reparti COVID, e 73 nelle in Terapia Intensiva).Dopo il 29 marzo il numero di pazienti che viene in Pronto Soccorso con sintomi da in-fezione da COVID inizia la discesa.Multimorbilità, fragilità, disabilità fisica e de-ficit cognitivo, alterazioni del background biologico possono svolgere un ruolo ag-giuntivo nel peggiorare la prognosi e au-mentare il rischio di esiti avversi più del semplice numero di anni vissuti. Qualunque sia la causa, il tasso di mortalità nei pazienti più anziani è notevolmente elevato: in ospe-dale la mortalità dei pazienti con più di 80 anni è del 54%, nei pazienti con più di 85 anni è del 75% e in quelli con demenza da grave a terminale (da CDR3 a CDR5) è del 100%.L’uso di cut-point basati sull’età cronologi-ca come guida per la decisione clinica del trattamento ha il rischio di portare a consi-derare gli anziani come pazienti di “secon-da classe”, ma i pazienti molto anziani nella pandemia di COVID-19 hanno una trascu-rabile speranza di sopravvivenza, sono di fatto “una popolazione condannata”. Una

comunità che abbandona i vecchi è una co-munità che fa schifo: se vogliamo salvare le vite degli anziani, dobbiamo assolutamente evitare l’infezione da COVID-19. L’infezione COVID-19 per la persona anziana è la “Nera mietitrice” e l’età dovrebbe quindi essere presa in considerazione principalmente col fine di incentivare l’obbligo di prevenzione.In questi giorni di minor frenesia si ha an-che più tempo di stare con i pazienti. Chi è ammalato di Covid-19 deve rimanere in ospedale a lungo, quando il paziente ha su-perato la difficoltà maggiore, quando la ma-schera di ossigeno diventa una trascurabile barriera, si riesce a scambiare qualche paro-la, c’è la possibilità che nascano confidenze.Ieri ho salutato una paziente prima della di-missione, ottantun anni, rientra a casa dopo una degenza di 21 giorni. Per lei abbiamo a lungo temuto; ricoverata per una polmoni-te la sua situazione si è complicata sino a dover essere necessaria la ventilazione non invasiva, che ha dovuto mantenere conti-nuativamente per 4 giorni e a intervalli per altri quattro. Prima di lasciare l’ospedale, nel corridoio ha molto ringraziato. Ha detto di aver avuto paura di morire solo una volta, quando al suo letto si sono assembrati trop-pi medici e infermieri. Dimenticherà questo tempo ospedaliero. Mi dice della prima fioritura primaverile del giardino di casa sua di cui non è stata testi-mone: “Vede dottore, l’arrivo della primave-ra per noi ottuagenari è pesante perché ci dice il trascorrere del tempo, a noi ne riman-gono poche, ma nello stesso tempo il peso è alleggerito dalla struggente bellezza della prima fioritura. Quest’anno non ho visto la prima fioritura, ma nemmeno visto la prima-vera. È un anno che non c’è stato”.

RENZO ROZZINI

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 49-50

La mia giornata non è facile, ma…

ROSA LIPEROTIRoma

[email protected]

Scrivo queste mie riflessioni quando sono passati trenta giorni dal mio arrivo al Covid Hospital 2 di Roma presso il presidio Columbus del Policlinico Agostino Gemelli. Sono un geriatra, ho sempre voluto esserlo. Da dopo la specializzazione mi sono occupata per lo più di demenza e di riabilitazione e su questi temi ho concentrato la mia attività assistenziale, di ricerca e di insegna-mento. Come molti colleghi nel nostro Paese, un mese fa ho visto scon-volgere la mia vista professionale. Ho abbandonato tutte le mie attività per dedicarmi interamente all’assistenza dei pazienti con Covid 19. All’inizio, non sapevo bene cosa mi attendesse, dentro di me senso del dovere per la mia professione e amore per la medicina, paura di farmi male e soprattutto di fare male, timore di inadeguatezza. I primi con-tatti con i pazienti aggravavano il senso di incertezza e di frustrazione per non essere in grado di dare aiuto. Quello che facevo era tutto ciò che un geriatra non dovrebbe fare. I geriatri ascoltano i pazienti, par-lano con i pazienti, toccano i pazienti, ridono e a volte piangono con i pazienti. Non riuscivo a fare nulla di questo. Di fronte a me persone spaventate, corpi provati dalla sofferenza, anziani muti o deliranti. E io, e noi, personaggi anonimi, rinchiusi nelle nostre corazze, a prestare assistenza. Col passare dei giorni però ho cominciato a capire che tutto ciò che avevo davanti a me non era diverso da ciò a cui ero abituata. Potevo trovare in me e nella ricchezza professionale fin qui accumulata tutto ciò che mi serviva per affrontare la sfida. Chi di noi ha il privilegio di curare i malati di demenza ha imparato ad ascoltare senza un suono e ad esprimersi senza parole. Ho capito che la strada da percorrere era la stessa. Ho imparato a sorridere con gli occhi, ho imparato a rassicurare con gli occhi, ho imparato a condividere con gli occhi. Il geriatra cura i suoi malati con l’obiettivo di raggiungere piccoli gua-dagni di salute che possono avere un grande impatto sulla qualità della vita. L’osservazione dei pazienti con Covid 19, in particolare anziani fragili, ha fatto chiaramente emergere come il contributo principale all’outcome di sopravvivenza fosse in questi casi dato da una serie di condizioni che conosciamo molto bene, il decondizionamento moto-rio, il delirio, le lesioni da decubito. La traiettoria di salute di queste persone poteva realmente essere deviata dalla presenza di un geriatra.

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50 ROSA LIPEROTI

Abbiamo portato ai pazienti la mobilizzazio-ne precoce, il ri-orientamento spazio-tem-porale con orologi e attività scandite duran-te la giornata, il contatto quotidiano e visivo con i familiari su supporto digitale. Abbiamo introdotto il concetto di prevenzione di out-come negativi negli anziani fragili ospeda-lizzati per Covid-19 e auspicabilmente si potrà misurare l’efficacia di tale intervento secondo le regole della scienza.Il geriatra sa che il successo della sua attività dipende dalla multidisciplinarietà dell’inter-vento. Al nostro Covid hospital, l’equipe me-dica di ogni unità di degenza è costituita da geriatri, infettivologi e pneumologi. Ognuno mette a disposizione le proprie conoscen-ze e il proprio saper fare riuscendo così a perseguire il miglior risultato assistenziale possibile. Si lavora insieme verso un unico

obiettivo, si impara a fidarsi l’uno dell’altro, a proteggersi e a proteggere l’altro. Nei col-leghi o meglio nei miei compagni di sfida – come amiamo definirci - ho trovato la forza e il coraggio per affrontare questi giorni. Il geriatra impara la compassione intesa nel senso più vicino all’etimologia della parola. Il geriatra impara a sentire insieme al pa-ziente la sua sofferenza e ad esprimere pro-fondo rispetto per questa. Questa è la dote che più di ogni altra ho riscoperto in que-sti giorni, che ho visto nei miei compagni, e che rimarrà in me qualunque sarà la mia vita futura come medico.Oggi sono un geriatra al Covid hospital, fiera di esserlo, spaventata per il futuro e qualche volta stanca. La mia giornata non è facile ma non importa, quando torno a casa guardo i miei figli e gli sorrido con gli occhi!

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 51-53

Infodemia, Evidenza e Ricerca scientifica ai tempi del Covid-19

NICOLA FERRARANapoli

[email protected]

Una ragionevole definizione di Infodemia è possibile trovarla sul sito treccani.it1: “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, tal-volta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.” Questa definizione sembra assolutamente coerente con il diluvio di in-formazione, vere, credibili, incredibili, false che stiamo subendo in que-sti mesi di pandemia da Sars CoV 2. Va ricordato che probabilmente il primo ad aver coniato il termine sembra essere stato David J. Rothkopf sul sito del Washington Post nel 2003 che, ai tempi della Sars, individuò nella “information epidemic” la causa che trasformò una confusa crisi sanitaria regionale cinese in una debacle economica e sociale globale. Rothkopf definì la sua espressione “infodemic” come “la presenza di alcuni fatti, mescolati alla paura, alla speculazione e alle voci, amplificati e trasmessi rapidamente in tutto il mondo dalle moderne tecnologie dell’informazione, che hanno influenzato le economie nazionali e in-ternazionali, la politica e persino la sicurezza in modi assolutamente sproporzionati rispetto alle realtà radicali. È un fenomeno che abbiamo visto con maggiore frequenza negli ultimi anni, non solo nella nostra reazione alla SARS, ma anche nella risposta al terrorismo e persino a eventi relativamente minori come gli avvistamenti di squali”. Anche se un eccesso di cattiva informazione, spesso utilizzata in chia-ve politico/partitica, il nostro paese lo aveva già sperimentato in varie occasioni, durante l’attuale epidemia di Covid -19 in Italia abbiamo as-sistito ad una vera e propria orgia informativa tra notizie incredibili, credibili ma assolutamente false, parzialmente false, verosimili con il corollario di qualche informazioni con base razionale e scientifica. Abbiamo creduto che la tragedia di questa pandemia costringesse l’in-formazione, i media e chiunque frequentasse i social network ad ade-guarsi alla razionalità e alla necessità di distinguere tra fake news, pareri degli esperti e solide conoscenze. Tuttavia il diluvio di articoli di lettera-tura, di video, di analisi degli esperti non ha aiutato questo processo di maturazione scientifico-culturale, dando la percezione di grande con-fusione ed incertezza. Il corretto e necessario uso massivo del condi-zionale da parte degli esperti è stato vissuto come assoluta incertezza

1 http://www.treccani.it/vocabolario/infodemia_%28Neologismi%29/

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52 NICOLA FERRARA

e confusione da parte da chi voleva avere certezze e punti fermi. Non ha aiutato aver rivolto le stesse domande e le stesse richie-ste ad infettivologi, virologi, epidemiologi, igienisti, statistici, biologi computazionali, farmacologi, etc. ignorando che la verità cli-nico/scientifica è vista da esperti (sempre che siano esperti) in modo ovviamente di-verso e parziale, mentre il grande pubblico voleva avere informazioni, prospettive certe e verità assolute. Ovviamente tralascio le in-numerevoli volte quando le stesse domande sono state rivolte a critici d’arte, esperti mu-sicali, comunicatori ed influencer vari. La ricchezza del dibattito scientifico fatte di incertezze, errori, passi avanti ed altret-tanti passi indietro è stato mortificato, salvo rare eccezione, nell’epoca dell’Infodemia da COVID -19. La pluralità di voci e di opinioni è stata vissuta come una realtà cacofonica, mentre rimane un patrimonio di conoscen-za e di modalità di avanzamento delle cono-scenze.Chi fa il medico e/o il ricercatore sa benis-simo che le conoscenze in ambito medico/scientifico è fatto di insuccessi, limiti, ritardi (assolutamente amplificati quando si parla di una epidemia causata da un agente in-fettante di cui il sistema delle conoscenze umane, come anche il sistema immunita-rio della umanità, ignorava l’esistenza fino a qualche mese fa). Questi limiti sono stati messi a nudo e implementati dal desiderio dei media e del grande pubblico di avere certezze e prospettive chiare. Sembra che sia stata messa in discussione una delle conquiste del XIX secolo quan-do la scienza si è sviluppata come sapere probabilistico contro le pretese del sapere scientifico positivista. Non posso non citare Karl Popper (Vienna, 28 luglio 1902 – Lon-dra, 17 settembre 1994) con il principio di falsificazione e la teoria del cigno nero. Cer-to dobbiamo credere che i tanti giornalisti e commentatori, i maggiori responsabili del-la ondata di infodemia, che cercano verità assolute attraverso domande ai cosiddetti

esperti, non abbiamo nemmeno il sospet-to che anche la migliore e più credibile teoria debba sempre essere provata e che, sulla base del criterio di falsificazione, una teoria è scientifica nella misura in cui può essere smentita. Come sembrano ignorare la teoria del cigno nero che dimostra come né il ragionamento deduttivo né quello in-duttivo sono infallibili e che anche la affer-mazione più credibile basata su un’ampia esperienza “tutti i cigni sono bianchi” può improvvisamente essere smentita propria da un’“anomale” e improvvisa esperienza della presenza di un cigno nero.Debbo dire che anche i tanti esperti (me-dici, ricercatori, biostatistici, etc.), diventa-ti tutti improvvisamente scienziati, parola grossa che tuttavia nessuno ha provveduto a smentire proprio quando era rivolta a sé stesso, non hanno brillato per chiarezza co-municativa cercando, con poco successo, di utilizzare un mix di linguaggio semplificato con un linguaggio tecnico spesso con im-provvide traduzione dalla lingua inglese. Una delle parole sicuramente abusate nei talk show e nelle interviste agli esperti è la parola “Evidenza”: c’è evidenza, non c’è evidenza, non c’è una sufficienza evidente, c’è un’ampia evidenza. Cerchiamo di capire cosa intendono gli esperti e cosa possa ca-pire il grande pubblico.Gli esperti traducono in evidenza il termine anglosassone “evidence”, mutuandolo dal-la Evidence-based Medicine (EBM). È dagli inizi degli anni ‘90 che nell’ambito medico scientifico si parla di EBM, la cui traduzione letterale è “Medicina fondata sulle prove di efficacia”. Negli ultimi anni l’EBM ha assun-to un ruolo determinante nelle decisioni clinico-assistenziali, anche se nessuno nega che attraverso l’esperienza professionale è possibile integrare prove di efficacia, prefe-renze legate alla formazione del singolo sa-nitario e contesto complessivo che, a parità di condizioni fisiopatologiche e cliniche, può modificare profondamente i comporta-menti del medico.

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53INFODEMIA, EVIDENZA E RICERCA SCIENTIFICA AI TEMPI DELLA COVID 19

Sicuramente, rispetto alla medicina basata sulla narrazione e sulla esperienza di singo-li, l’EBM ha rappresentato un grande passo avanti, ma bisogna onestamente ammette-re che la presenza/assenza di prove non è mai così chiaramente definibile per l’etero-geneità della presentazione delle malattie, per i problemi di contesto, per le continue modifiche delle conoscenze farmacologi-che e fisiopatologiche, per le informazione che derivano dal “real world” non sempre coincidenti con il mondo selezionato e non privo di bias dei trial clinici control-lati. Tali limiti sono così evidenti che è sta-to necessario riconoscere diversi livelli di “evidence”, cioè di prove, e diversi livelli di raccomandazioni. Ma il grande pubblico e il giornalista omnicompetente come inter-preta la parola evidenza? Può essere di aiuto consultare il sito trecani.it che alla parola evidenza dà questo significato: “proprietà di ciò che può essere facilmente visto da tutti, certezza, chiarezza, limpidezza, tangibi-lità, trasparenza, visibilità”. Non è necessa-rio, quindi, essere un esperto in glottologia per comprendere la profonda differenza tra “evidence” della cultura anglosassone e la parola “evidenza” direttamente derivata dal latino “evidentia” termine tecnico della reto-rica latina che indicava il genere espositivo, ostensivo e quindi chiarificatore. Per quanto riguarda la ricerca scientifica, nonostante le tante “retraction” di artico-li scientifici pubblicati su riviste di grande prestigio, simbolicamente rappresentate dalla retraction della rivista The Lancet dell’articolo-bufala (una vera e propria frode scientifica) del medico Andrew Wakefield che metteva in collegamento la vaccina-zione trivalente (morbillo-parotite-rosolia) con il rischio di favorire l’insorgenza di un disturbo dello spettro autistico, la peer review (revisione alla pari) rimane lo stru-mento principe per selezionare quello che meglio risponde ai criteri di correttezza me-todologica, originalità ed innovazione nel

mare magnum dell’eccesso di produzione scientifica, o presunta tale, che caratterizza questo periodo storico. Tra le tante vittime della COVID 19 sembra che debba essere inserita proprio questa metodologia che la comunità scientifica si era data per la sele-zione. L’attuale produzione scientifica, che sta raccontando lo sviluppo della epidemia di cui il Sars Cov 2 è responsabile, è caratte-rizzata da un numero incredibilmente alto di pubblicazioni precoci, alcune palesemen-te infondate e altre assolutamente falsate, relative a dati inconsistenti registrati in as-senza di una corretta metodologia. Sempre più giornali, anche di prestigio ad elevato fattore di impatto, pubblicano i cosiddetti preprint, articoli che non sono sottoposti ad alcuna revisione e controllo. Sembra che la consistenza dei dati e delle metodologie utilizzate non sia più importante per svi-luppare conoscenza nel campo di questa drammatica malattia. La questione è anche più preoccupante perché questa produzio-ne scientifica non rimane confinata nell’am-bito degli addetti ai lavori, che si presume abbiamo gli strumenti culturali per navigare nel mare di tale produzione scientifica, ma viene immediatamente proiettata con incre-dibile velocità, attraverso i mezzi di comu-nicazione di massa, nel dibattito pubblico costringendo sia la comunità scientifica sia il decisore pubblico a confrontarsi con dati e informazioni che non hanno alcuna solida base scientifica.È tempo che la comunità scientifica recu-peri le proprie metodologie e i propri mo-delli nella consapevolezza che le proprie verità sono per loro natura verità parziali e provvisorie. La comunicazione tra gli scien-ziati, l’analisi critica dei risultati ottenuti e la continua ricerca di nuovi traguardi (supe-rando anche gelosie, ambizioni e punti di vi-sta parziali) devono rappresentare l’humus del progresso delle conoscenze e dei nuovi trattamenti anche nel campo di questa pan-demia.

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 54-58

2. Le case di riposo: esperienze

Vita ed esperienze nei centri di servizi al tempo di infezione da Covid-19

MARIA MASTELLA San Bonifacio

[email protected]

Parlerò dell’esperienza che stiamo vivendo in nove centri di servizi della provincia di Verona appartenenti alla Fondazione O.A.S.I. che pre-siedo.Il mio sarà quindi uno sguardo da amministratore che, tuttavia, non può prescindere dalla forma mentis acquisita attraverso la formazione e l’e-sperienza quasi quarantennale di medico di famiglia e geriatra.Siamo in Veneto: i residenti nei nostri nove centri sono 570, la maggior parte non autosufficienti, il personale conta 650 unità tra cui alcuni (ausiliari e pochi operatori) soci di una cooperativa che collabora con noi da trent’anni; questi ultimi vengono comunque considerati “tutti” nostri operatori, non solo per il senso di appartenenza che hanno svi-luppato, ma, soprattutto, per quanto riguarda la loro formazione e le dotazioni di DPI.Si tratta di una realtà media, distribuita in nove residenze di cui una con 105 posti letto, le altre con 50/70 posti letto ciascuna, una con 30.Riusciamo a gestirle tutte, mantenendo gli equilibri di bilancio, perché abbiamo accentrato l’amministrazione e gli uffici che si occupano della gestione, cosa resa più semplice, oggi, dalle moderne tecnologie.L’apertura negli anni di nuovi centri è andata di pari passo con una sempre maggiore organizzazione dei servizi, chiarendo i percorsi, scri-vendo e validando procedure, individuando i responsabili della privacy, del rischio clinico e della sicurezza, costituendo l’organismo di vigilan-za ed ottenendo varie certificazioni ISO.Tutto questo per dire che l’infezione del virus Covid 19, che ha gher-mito due dei nostri centri, non ci ha colti di sorpresa, anche se nessuno avrebbe mai potuto immaginare l’enorme portata dell’epidemia, ma, pur con tutta la preparazione, la formazione più volte ripetuta, le forni-ture dei DPI che via via venivano individuati e suggeriti dalle direttive ministeriali e regionali ed acquistati nonostante i problemi di approvvi-gionamento che tutti ben conosciamo, i nostri due centri più grandi di San Bonifacio e Zevio sono stati invasi dal virus che ha contagiato quasi tutti gli ospiti ed un discreto numero di operatori.Come è potuto accadere che due centri siano stati infettati con un effetto domino spaventoso se la formazione, i presidi, le sanificazioni, le procedure, l’attenzione maniacale alla loro applicazione sono state

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55VITA ED ESPERIENZE NEI CENTRI DI SERVIZI AL TEMPO DI INFEZIONE DA COVID 19

uguali per tutte e nove le residenze? Ripercorro i tempi dell’esordio dell’infe-zione nel primo centro di servizi, quello di Zevio.Il giorno 3 aprile un nostro collaboratore comunica di avere febbre e tosse.Autonomamente, al peggiorare dei sintomi, si reca in pronto soccorso dove gli viene fat-to il tampone.Due giorni dopo il risultato: positivo.Rimane a casa e vengono inviati a fare il tampone tutti i colleghi che avevano colla-borato con lui. Il suo ruolo non prevedeva una prolungata permanenza con gli anziani. Nel frattempo parte la campagna dei test sierologici rapidi voluta dalla regione Vene-to.Test rapidi che vengono eseguiti per tutto il personale e gli anziani il giorno 11 aprile e che risultano tutti negativi.Respiriamo e ci facciamo gli auguri per la Pasqua.Lunedì 13 alcuni ospiti presentano febbre e desaturazione importante e vengono avviati in ospedale. Sono tre ed a tutti e tre viene fatto il tampone risultato positivo. Questa discrepanza tra test rapido sierolo-gico negativo e tampone, eseguito a brevis-sima distanza di tempo, positivo, fa pensare ad una scarsa sensibilità dei test sierologici voluti fortemente dalla regione ed alla ne-cessità di trovare il momento giusto per la loro esecuzione poiché essi non individua-no la fase di incubazione del virus, bensì quella più tardiva della formazione di IGM e, successivamente, di IGG. Di qui i falsi ne-gativi che hanno alterato le statistiche che riguardavano gli infetti nei centri di servizi.Il 14 aprile l’ULSS ha provveduto ed esegui-re i tamponi su tutto il personale ed i rima-nenti ospiti.Man mano che i risultati arrivavano abbia-mo lasciato a casa gli operatori positivi, ab-biamo isolato gli ospiti negativi dai positivi

ed i colleghi medici hanno predisposto le terapie individuali per i sintomatici, avendo riguardo di adattarle alle problematiche po-ste dalle patologie preesistenti.Purtroppo i risultati dei tamponi sono ar-rivati molto lentamente; gli ultimi ci sono stati comunicati il 24 aprile, cioè 10 giorni dopo la loro esecuzione.Troppo tardi! Se eseguo i tamponi ed ho la necessità di isolare i positivi, separandoli dai negativi, come ho la necessità di sapere quanti operatori negativi mi restano per or-ganizzare i turni di lavoro, mettendo in isola-mento gli operatori sintomatici o solamente positivi, ho bisogno di avere risposte rapide altrimenti corro il rischio, come è avvenuto, che, nel frattempo, si infettino anche i pochi negativi rimasti.Il ritardo delle risposte, dovuto ad una ini-ziale difficoltà dell’ULSS ad organizzare i percorsi (i tamponi erano finiti da Verona a Padova) ci ha indotti a chiedere a gran voce l’esecuzione di nuovi tamponi che sono sta-ti eseguiti il 24 aprile e che hanno eviden-ziato nuovi positivi.Alla fine quasi tutti gli ospiti, tranne 3 perso-ne, risultano positivi.Ad ora sono morti 10 anziani di cui 2 nella casa ed 8 in ospedale.Tra i rimanenti una decina sono sintomatici, gli altri, ad oggi, non presentano sintomi.

Esperienza completamente diversa quella del centro di servizi don Bortolo Mussolin di San Bonifacio, la nostra casa madre.Anche qui il primo caso è stato quello di un collaboratore con immediata denuncia di malattia infettiva e misure di isolamento domiciliare il 13 aprile.Già il 15 sono stati eseguiti i test sierolo-gici rapidi dove abbiamo trovato 93 ospiti negativi e 6 positivi, subito isolati, per cui, in accordo con il medico coordinatore del distretto sanitario dell’est veronese, il gior-no 17 abbiamo eseguito i tamponi ai 6 po-

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56 MARIA MASTELLA

sitivi, il 20 aprile a tutti, ospiti ed operatori e la situazione, come già avvenuto a Zevio si è capovolta: 80 erano gli ospiti positivi, 19 i negativi immediatamente messi in un reparto sanificato e pulito, con percorsi di accesso autonomi; su 126 operatori 31 risul-tavano positivi.Nei giorni scorsi abbiamo ripetuto il tampo-ne a tutti coloro che erano risultati negativi al tampone precedente.Attualmente gli ospiti negativi sono solo 13, i deceduti 9 di cui 5 nella residenza e 4 in ospedale, i positivi 73, alcuni sintomatici. Un terzo degli operatori è positivo.In questo centro di servizi non si è perso tempo eppure dobbiamo amaramente con-statare che quando il virus fa la sua compar-sa, nel giro di 7/10 giorni tutti gli anziani si infettano, tranne pochi casi, quindi si tratta di un virus altamente contagioso e feroce-mente aggressivo che forse dà sintomi atte-nuati negli ospiti ancora in discrete condi-zioni cardio - circolatorie e renali, ma che non lascia scampo a chi si trova in condi-zioni di terminalità. Dei 10 deceduti 6 erano terminali e l’exitus è avvenuto con un rapi-dissimo aggravamento delle loro condizioni cardio – respiratorie.Tutta questa lunga premessa per darmi modo di fare alcune riflessioni.Sin dal 24 febbraio, giorno in cui abbiamo chiuso le nostre case ai parenti, isolando gli ospiti all’interno delle residenze, eravamo consapevoli di aver creato attorno agli an-ziani una fragilissima difesa che, come un diaframma, tentava di proteggerli dal virus. Dopo più di due mesi certamente non sono gli ospiti l’origine dei focolai, a meno che il virus non sia stato introdotto dalle persone rientrate dai reparti ospedalieri e riaccolte dopo aver richiesto con pervicacia esaspe-rante, l’esecuzione di due tamponi che do-vevano risultare negativi, trasferendoli con un’autoambulanza dedicata solo ai nostri centri di servizi e sanificata dopo ogni tra-sporto.

Al loro ritorno sono sempre stati messi in isolamento precauzionale per 14 giorni.Dovevamo essere più rigidi?Agli operatori abbiamo chiesto di essere corretti nel mantenere le misure di distan-ziamento sociale e le precauzioni durante le uscite per fare la spesa o altro.Molti di loro si sentono in colpa per l’inva-sione del virus e vivono un senso di frustra-zione che li porta spesso alle lacrime.A questo aggiungiamo alcuni lanci degli ar-ticoli sui giornali che urlano: “Casa di riposo infetta a causa di un operatore positivo”.Questa ricerca dell’untore, quando ci viene detto che a Vo’ Euganeo ci sono dei soggetti asintomatici con tampone positivo da due mesi, ha significato?Siamo tutti consci del ruolo avuto dagli ope-ratori sanitari degli ospedali nella diffusione del virus nelle prime fasi della pandemia.Abbiamo giustamente chiamato “angeli” gli infermieri, i medici e gli operatori che si sono spesi per salvare vite, ma i nostri operatori che la sera non hanno più gambe dopo aver fatto le scale decine di volte per trasportare gli effetti personali degli ospiti quando si riorganizzano i reparti per posi-tivi e negativi non sono angeli anche loro?Non sono angeli quando rimangono senza voce per fare le telefonate a tutti i familiari per comunicare loro l’esito dei tamponi?Non sono angeli quando rispondono con gentilezza e professionalità ai parenti che imprecano e minacciano, talvolta offensivi, considerando che si tratta di reazioni detta-te dalla preoccupazione e dalla paura?Invece vengono etichettati come “untori” e questo mina l’autostima che li sosteneva quando ritenevano di potercela fare contro un virus sconosciuto, maligno e subdolo che non lascia scampo alle persone più fra-gili.Da presidente mi chiedo cosa sarà di que-sti operatori una volta passata la fase critica, come potranno recuperare il loro orgoglio

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professionale? Resteranno o preferiranno scappare a lavorare in ospedale?Basterà davanti all’opinione pubblica che li ha massacrati la loro generosa offerta di do-nare il plasma, una volta guariti, per contri-buire alla cura che usa gli anticorpi, tratti da persone che hanno sviluppato l’immunità, che l’università di Padova sta sperimentan-do? Un’altra criticità su cui dovremo lavorare sarà il lutto che essi vivono per la morte delle persone che sono state loro affidate e con le quali hanno intessuto relazioni signi-ficative.Gli operatori sanno quanto sia importante un gesto di tenerezza ed un sorriso donato, oltre ad una buona cura!Hanno elargito sorrisi e tenerezza ed ora de-vono confrontarsi con la numerosità delle morti e con il senso di impotenza e distacco che esse determinano.Diversamente da quanto avviene in ospeda-le, hanno convissuto talora molto a lungo con gli anziani, sono diventati loro amici e ne sentiranno la mancanza in modo doloro-so.Cosa possiamo fare per aiutarli a rielaborare questi lutti?Basteranno i centri di ascolto e di aiuto psi-cologico che già stiamo organizzando?E per gli anziani superstiti, come possiamo, in piena emergenza, continuare ad organiz-zare per loro le attività motorie, riabilitative, ludiche ed occupazionali con la penuria di operatori e tecnici?Quali sono gli interventi essenziali per non farli regredire e per non peggiorare le loro fragilità?Un pensiero per i parenti che, dopo essere rimasti lontani dai loro cari per più di due mesi, non hanno la possibilità di vederli, di toccarli, di abbracciarli, consapevoli che, se verranno a mancare, non potranno salutarli un’ultima volta.Come non capire alcune reazioni scompo-ste?

In tutto questo capovolgimento di sicurez-ze, di modelli organizzativi e di prospettive per il futuro, alcune note positive.La prima riguarda l’esperienza di condivi-sione e co-gestione della crisi che siamo stati in grado di approntare con il distretto socio-sanitario ed alcuni reparti ospedalieri.Già da parecchi anni si sono consolidate nel nostro territorio esperienze di collabo-razione tra ospedale, distretto e territorio, esperienze confluite nella realizzazione del progetto A.R.C.A. ( Assistenza, ricerca e cura per l’anziano), voluto fortemente dal profes-sor Marco Trabucchi e dal precedente diret-tore del distretto dottor Roberto Borin, che ha visto i colleghi ospedalieri recarsi nei centri di servizi per eseguire visite od inda-gini ecografiche, ha assistito ai primi, timidi, tentativi di telemedicina ed ha insegnato ai medici delle varie specialità a parlarsi, a confrontarsi, così che i medici di famiglia (che, in Veneto, sono anche i medici dei centri di servizi) che hanno aderito all’ini-ziativa non si sentono più elettroni spaiati ed i colleghi ospedalieri (geriatra, nefrologo, urologo, oncologo, ematologo, dermatologo, endocrinologo, ecc.) hanno abbandonato progressivamente un atteggiamento di suf-ficienza per cominciare a confrontarsi sui bisogni del paziente, dell’ospite.In mezzo il distretto che ha svolto il ruolo di coordinamento di tutti i bisogni e le istanze, chiedendo, sollecitando, indirizzando, tal-volta scuotendo.Il fine che ci si proponeva era quello di mantenere il più possibile l’anziano nel cen-tro di servizi, diminuendo i ricoveri e gli ac-cessi in ospedale ed in pronto soccorso per tutelare meglio il fragile equilibrio sanitario dei nostri ospiti.Ebbene, allo scoppiare della crisi non c’è stato bisogno di lunghe premesse o fasi introduttive: quando giovedì 23 sera ho avuto notizia della numerosità degli ospiti positivi, ho immediatamente chiamato la

VITA ED ESPERIENZE NEI CENTRI DI SERVIZI AL TEMPO DI INFEZIONE DA COVID 19

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direttrice del distretto, dottoressa Maria Be-atrice Gazzola e subito abbiamo cominciato a programmare le mosse di contenimento, lei come medico coordinatore del centro di servizio, io come presidente dello stes-so, con ruolo di facilitatore, grazie alla mia esperienza di medico di famiglia e geriatra.La mattina del 24 avevamo già chiari gli spo-stamenti da fare e le azioni da intraprendere che avevo avuto modo di condividere con l’unità di crisi della Fondazione composta da direttore generale, Covid manager, re-sponsabile degli acquisti, responsabile del personale, responsabile dell’organizzazione, responsabile del rischio clinico e respon-sabile degli accoglimenti e delle relazioni esterne.L’apporto della coordinatrice è stato fonda-mentale nel favorire la ricerca dei medici che sarebbero andati a sostituire i due me-dici titolari del centro di servizi colpiti dal virus e da malattia. Sono arrivati due mera-vigliosi giovani colleghi in formazione per la medicina generale che hanno cominciato a lavorare con entusiasmo, puntigliosità e con l’umiltà di saper ascoltare la narrazio-ne degli infermieri sullo stato di salute degli ospiti.Determinante è stato avere a disposizione un collega ospedaliero, infettivologo, che ha aiutato ad individuare la cura migliore con-tro il virus che tenesse conto, per ciascun ospite, delle numerose patologie e che non interferisse con la sua terapia cronica.Per i nostri fragilissimi anziani, infatti non possiamo usare terapie e protocolli standar-dizzati, ma l’approccio deve essere altamen-te personalizzato e, quindi, più complesso da gestire e controllare.Interessante il nuovo ingresso sulla scena

dei colleghi dell’USCA, di recente organiz-zazione, composta da giovani medici che vengono inviati a casa degli ammalati di Covid 19. Sono venuti nel nostro centro al sabato ed alla domenica per visitare gli ospi-ti aggravatisi e per supportare gli infermieri nella loro cura.Questa crisi ci ha fatto agire come una squa-dra coesa, capace di lavorare assieme e mi rendo conto che tutto ciò è stato il frutto di anni di collaborazione, di rispetto, di le-altà, di riconoscimento della professionalità reciproca, di condivisione di esperienze la-vorative sostenute dal sincero desiderio di essere utili ai nostri anziani.Dal punto di vista professionale ed umano è la conferma che il bene ed il buono esi-stono.A noi amministratori resta il tema del dopo.La prima cosa da affrontare sarà l’indagine della Procura sulla gestione della crisi da parte dei centri di servizi. La polizia giudi-ziaria farà accertamenti in tutti i centri della provincia di Verona.A prescindere dai risultati dell’indagine non potremo continuare con i modelli di assi-stenza e cura precedenti, dovremo ripensare le nostre motivazioni e le nostre organizza-zioni, gli spazi, dovremo fare uno sforzo tutti assieme per studiare, riflettere, analizzare e proporre alternative realizzabili, dovremo proseguire sulla strada dell’innovazione per proteggere le nostre organizzazioni da altre epidemie che potranno insorgere in futuro.Dovremo riconquistare l’umiltà di chi è consapevole di non sapere niente e di avere davanti una prateria inesplorata, che mette timore certo, ma che saprà fare appello alla nostra energia ed intelligenza per disegnare il futuro dei servizi.

MARIA MASTELLA

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 59-62

RSA e pandemia: considerazioni a tappe

MAURO COLOMBOAbbiategrasso

[email protected]

Never waste a good crisis(Winston Churchill)

Non è facile districarsi, in tempi di pandemia, nella pletora di articoli offerti dalla letteratura e di indicazioni di ogni tipo che provengono dai mezzi di informazione di massa. Cerco comunque di riassumere alcune considerazioni, allineandole in 3 prospettive temporali di riflessione: sulla fase acuta, sulla fase di ripresa, sul medio termine; sempre avendo di mira le strutture di ricovero per le persone anziane.

La fase acuta

Ci ricorderemo a lungo - al di là dei danni di ogni tipo - della pandemia Covid 19, variamente definita “strana”, “nuova”, “inquietante”. Lo stesso Journal of American Medical Association (Fontanrosa P.B. e Bauchner H., 2020) ammette che l’unica caratteristica di questa pandemia è la sua imprevedibilità Almeno, questo tragico virus camaleontico un me-rito lo ha avuto: portare pubblica attenzione al mondo delle strutture di ricovero per anziani, di cui ora - più o meno a proposito - parlano in tanti, dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, alle scuole di eco-nomia…Opportunamente, JAMA ha aperto una rubrica orientata esplicitamen-te alla fase post-acuta, per gettare uno sguardo al dopodomani, quando sarà necessario un ampio ri-assestamento del nostro modo di vivere, in una “nuova normalità” ancora de definire.Un articolo dichiara già nel titolo di voler “mettere il genio nella botti-glia”, ed indica una serie di manovre efficaci (in particolare la quaran-tena entro 24 ore), per le quali stima un costo di 5 miliardi di dollari nei soli USA. Gli autori – Rochelle P. Walensky e Carlos del Rio (2020): infettivologi/igienisti - sostengono che un simile sforzo potrebbe por-tarci ad un domani persino migliore dell’oggi, vista la risposta senza precedenti che la nazione ha espresso in termini di “creatività, imma-ginazione, ricchezza in risorse e compassione”, tanto che i contatti tra le persone sarebbero persino aumentate, in conseguenza del distan-ziamento sociale, con particolare riguardo per gli anziani più fragili. Ma le cronache del New York Times temo rendano meno scontato il

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mettere la vicenda “nello specchietto retro-visore”…Al riguardo, il 24 marzo, due esperti di poli-tica sanitaria (Michael Barrett e David Gra-bowski, entrambi di Boston) hanno scritto su JAMA Network un articolo (letto oltre 13.000 volte) intitolato emblematicamen-te “Nursing homes are ground zero for Covid-19 pandemic”. Preferisco “prendere l’articolo dalla coda”, là dove dichiara te-stualmente che una catena si spezza nel suo anello più debole, dopo avere esordito riportando la vicenda di una struttura valu-tata a pieni voti - salvo che per una scarsa attenzione agli aspetti igienico - preventivi di fronte ad una pandemia, la cui eventualità veniva comunque stimata remota. Inciden-talmente, riporto come in uno sconsolato editoriale di apertura del numero di aprile 2020 de “Le Scienze”, il direttore Marco Cat-taneo ricordasse un articolo pubblicato sul numero di marzo 2018, intitolato “Prevede-re la prossima pandemia”, dove si ricordano i 280.000 morti della pandemia influenzale del 2009, a firma di Alessandro Vespignani (professore anch’egli a Boston…). L’artico-lo di JAMA riporta come la pandemia si sia abbattuta - col suo carico di sofferenza, vitti-me e falcidia nel personale - persino in una struttura il cui rapporto tra dipendenti ed assistiti è di 1,5:1. E d’altra parte, la vulne-rabilità allo sviluppo di focolai epidemici è consustanziale alla natura stessa delle RSA, proprio per quella “R” che sta per “residen-zialità”: almeno sino ad ora, uno dei pilastri della qualità assistenziale è consistita nella calibrazione tra “privato” e “condiviso”, ed in un rapporto fruttuoso e solidale coi fa-miliari in visita. Al di là della ovvia fragilità intrinseca degli assistiti, un elemento car-dinale per la risposta a simili situazioni di emergenza consiste nella politica del per-sonale, anch’esso esposto al contagio, che provoca un progressivo assottigliamento delle risorse umane disponibili, a fronte del

rischio di diffusione in caso di personale che si reca al lavoro pur malato per que-stioni contrattuali, e di difficoltà a reperire risorse sussidiarie, anche per motivi di costi e di scarsa attrattiva. Se viene invocato il ricorso alla telemedicina ed alle tecnolo-gie per la comunicazione che avvicinino gli ospiti con i familiari allontanati gioco-forza, uno dei pilastri per la prevenzione e gestione di simili contingenze rimane pro-prio nella disponibilità di personale, oltre alla formazione specifica per la adozione delle misure igieniche, ed alla dotazione in strumenti di protezione individuale, che gli estensori dell’articolo pongono a livello di priorità pari a quello ospedaliero. Gli autori concludono rivolgendo un pensiero anche ad altre situazioni di istituzionalizzazione, quali le carceri.

La fase di ripresa

Come dopo ogni evento più o meno gra-vemente perturbante, va prevista per le persone più fragili una fase in ampio senso riabilitativa. Al riguardo, un articolo di JAMA riporta un titolo quanto mai indicativo: “Po-stacute Care Preparedness for COVID-19. Thinking Ahead”.Gli autori, David C. Grabowski (Harvard) e Karen E. Joynt Maddox (St. Louis) stimano – a partire dalle esperienza con la sepsi - che il 30% dei pazienti ospedalizzati per COVID necessitino di riabilitazione residenziale, ed un altro 20% di riabilitazione domiciliare. Ovviamente, vanno previste le cautele per impedire il ricovero di pazienti infetti/po-tenzialmente infettanti, pur nella consape-vole incertezza sulla effettiva durata della possibile contagiosità; a meno che non ven-gano creati presidi specificatamente dedica-ti, e perciò attrezzati in risorse materiale ed umane - compresa una adeguata formazio-ne; la ospedalizzazione al domicilio viene indicata come un ulteriore contesto di cura praticabile parallelamente, possibilmente

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61RSA E PANDEMIA: CONSIDERAZIONI A TAPPE

col supporto della telemedicina. In ogni caso, qualunque opzione venga percorsa, va sottolineato il ruolo della formazione, anche in termini vocazionali; formazione e tutela sanitaria vanno rivolte anche al surplus di personale da dedicare ad attività ancillari, che nei momenti di difficoltà va recuperato da fonti anche eterodosse, quali potrebbero essere le maestranze messe a riposo da in-dustrie ed altre agenzie momentaneamente chiuse. Più in generale, vanno previste risor-se adeguate per affrontare adeguatamente la situazione.

La fase di medio termine

Sarà particolarmente delicata, per non rica-dere negli errori prima commessi, dandosi per scontata una nuova “fase acuta”, autun-nale (Leung K. et al., 2020).Sarà necessario riflettere con atteggiamento laico e scientifico, per capire cosa effettiva-mente è successo nella nostra realtà, una volta superata la tempesta non solo sanita-ria, ma anche mediatica e giudiziaria. Non fosse altro per la probabilità che noi stessi potremo prima o poi divenire a nostra volta utenti di strutture di ricovero a lungo ter-mine: una eventualità che già nel 2014 era prevista per circa un ultra-sessantacinquen-ne su due, negli Stati Uniti d’America, come ricordano Barrett e Grabowski.Potrebbero tornarci illuminanti le esperien-ze aneddotiche di RSA che sono rimaste ap-parentemente intatte dal contagio, avendo immediatamente chiuso - nonostante la im-popolarità - l’accesso dei parenti appena si ebbe notizia del 1° caso italiano, nella quar-ta settimana di febbraio; o dello ospedale cinese di Guangdong, dove gli infermieri sono rimasti apparentemente intatti, essen-do state prese tempestive misure organizza-tive e procedurali. Anche la vicenda tedesca andrà decodificata: pur tra ampie differenze inter-regionali, hanno potuto permettersi di tenere aperte le scuole - con opportune

misure - e pubbliche manifestazioni contro pur relative misure restrittive; sarà curioso verificare se effettivamente rimarrà una eccezione rispetto alla grande parte della Europa, compresi i paesi del nord, a partire dall’attiguo e non certo “povero” Belgio. Le recentissime dichiarazioni del sindaco di Tu-binga, per cui sarebbe inopportuno curare anziani che avrebbero una corta aspettativa di vita, sono suonate comunque fuori dal coro. Potremmo scoprire che il dramma vis-suto dalle strutture di ricovero per anziani in Italia non si sarebbe tanto discostato da quanto successo un po’ ovunque, anche in Inghilterra, dove ricordo la immagine del podista che correva in maglietta e pantalon-cini davanti all’ingresso del Saint Thomas Hospital, inquadrato dal giornalista RAI Mar-co Varvello mentre riferiva del ricovero del primo ministro, il quale – dopo il “national scandal biasimato dal direttore di Lancet” (Horton R., 2020) era tornato sui suoi pas-si, raccomandando il “lockdown”, applicato peraltro con transatlantica sintonia “elasti-camente” anche sulle spiagge in Florida… A poco giova invece la disgustosa faida – da cui non sembra immune neppure il Consi-glio Superiore della Magistratura - che fo-menta la contrapposizione, sostenuta dalla ideologia e da interessi meschini, cui lascia spazio la analfabetizzazione epidemiologica di chi pretende di informare. Basta scorre-re la rassegna stampa aperta che meritoria-mente la ASP Golgi Redaelli pubblica quoti-dianamente sul proprio sito, per rendersene conto de visu. Non avverto, a vari livelli di opinione pubblica ed istituzionali, nei con-fronti del settore socio-sanitario, il medesi-mo apprezzamento giustamente dedicato al settore sanitario. Anzi, mi sorge il dubbio che - pur nella necessità di fare chiarezza - al posto di tanto zelo giudiziario e tante risorse inquisitorie, a posteriori, sarebbero stati preferibili maggiori attenzione e pru-denza, e la dotazione di risorse materiali ed

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umane, preventivamente. Fortunatamente, l’esperienza quotidiana ci mostra, a fronte dello sciacallaggio, una dovizie di prese di iniziative e di posizioni ammirevoli, di ogni tipo. Ed in ogni caso è sempre bene aderire ai dati di fatto: opportunamente, Boccia, Ric-ciardi e Ioannidis (2020) rilevano su JAMA che nei 3 mesi precedenti l’avvio della pan-demia la mortalità invernale da influenza in Italia era stata più bassa del solito, lascian-do disponibile una ampia platea di soggetti suscettibili.Per chiudere, alcune pillole di Gerontolo-gia Clinica, nella consapevolezza che sinora mancano prove certe sulla efficacia di qual-siasi farmaco (Sanders J.M. et al., 2020), pur nel pullulare delle sperimentazioni, al punto che Lancet biasima la eccessiva proliferazio-ne di singole iniziative, privilegiando le spe-rimentazioni coordinate (Mullard A., 2020). Alcuni spunti potenzialmente utili:la distinzione epidemiologica tra i fattori di rischio per sviluppare una reazione da

stress polmonare acuto piuttosto che della progressione dalla reazione polmonare alla mortalità (studiati peraltro su una popola-zione prevalentemente adulta); tra i primi rientrano diabete ed ipertensione arteriosa, linfopenia, elevazioni in glicemia, creatini-nemia…; tra i secondi si annoverano; età > 65 anni, febbre > 39°, neutrofilia, ipo-albu-minemia, abbassamenti in pseudocolineste-rasemia ed elevazioni in azotemia, lattico - deidrogenasi e D-dimero costituiscono fat-tori di rischio verso entrambi gli esiti (Wu C. et al., 2020). La tendenza alla vasculite nell’ambito di un interessamento sistemico, con necessità di un uso attento della epa-rina a basso peso molecolare, bilanciandosi tra il rischio emorragico e quello tromboti-co (Varga Z. et al., 2020) la sintomatologia neuropsichiatrica, possibile a partire dagli stadi prodromici (Pleasure SJ. et al., 2020); la questione ovviamente ha già preso a circo-lare in ambito AIP: col che, si torna all’alveo principale che dà il titolo alla rivista.

MAURO COLOMBO

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 63-66

Nelle RSA lombarde la mortalità epidemica per il vi-rus viene da lontano

ANTONIO GUAITAAbbiategrasso

[email protected]

L’assessore regionale lombardo alla sanità e welfare intervistato il 19 aprile durante la trasmissione TV da Fabio Fazio, ha spiegato che i ma-lati anziani sono stati trasferiti dagli ospedali nelle RSA e nei reparti di “cure intermedie” (che lui ha indicato ancora “riabilitazioni”, come sa-rebbe giusto chiamarle anche in Lombardia) perché bisognava liberare posti e trovare dove “metterli”. Nessuno si è scandalizzato per questa espressione e lo stesso Fazio l’ha usata più volte. Questa dichiarazione è la sintesi di tutti i mali di cui hanno sofferto e continuano a soffrire le RSA: essere considerate dei “contenitori” dove “mettere” gli anziani. Quindi considerare le RSA non come parte di una “rete di cura”, sia pure sul versante assistenziale, ma come parte di una rete “collocativa”: rispondono alla domanda “dove la/lo metto” non alla domanda “dove lo/la curo”. Quello che è successo in tutte le RSA del mondo, ma in Lombardia in modo estremo, ha reso trasparente il primo dei molti peccati (originali, veniali e ahimè mortali) delle amministrazioni tecnico politiche che in questi anni hanno ignorato quasi ovunque la contraddizione che sem-pre più si creava fra la loro visione contenitivo-assistenziale e i bisogni sempre più complessi di chi accedeva alle RSA.Ad esempio, dai dati ISTAT è evidente il costante aumento dei casi ad alta intensità sanitaria che arrivano a superare il 30% nel 2016:

Tabella 1 - Distribuzione percentuale del livello di intensità sanitaria richiesta dai residenti ultra 65enni nelle RSA Italiane negli anni indicati (al netto dei dati mancanti)1

1 Fonte: http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=21803#; accesso 26 aprile 2020

2009 2016

assente 10,19 4,66

basso 17,17 19,72

medio 50,92 44,82

alto 21,72 30,80

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64 ANTONIO GUAITA

In questi anni all’interno delle strutture di ricovero non è tanto aumentato il numero dei gravemente non autosufficienti, trasfor-mazione già avvenuta fra gli anni 70 e 80 del secolo scorso, quanto è aumentata la quota sanitaria legata alla cronicità, in modo più accelerato fra gli anni 80 e 90, ma che poi ha continuato a crescere. In realtà la com-ponente “sociale” del ricovero era diventa-ta sempre più secondaria come motivo di ricovero già alla fine degli anni 70. La co-morbosità e l’instabilità clinica sono diven-tati in questi anni sempre più presenti fra gli anziani sia ammessi che presenti nelle strutture di ricovero (Lopez S. et al., 2008). La tradizionale visone “fisiatrica” del croni-co stabilizzato in cui la disabilità è definita come “sequela della patologia” viene meno, mentre il deficit funzionale è sempre più un sintomo che non “segue” ma accompa-gna la patologia che persiste e condiziona la disabilità. Il mantenimento della miglior quota possibile di autonomia degli anziani residenti non è solo delegato alla capacità di sostenere le abilità funzionali motorie ma anche alla efficacia dell’intervento clinico sulle patologie che accompagnano la disa-bilità (su questo la WHO ha modificato da tempo la terminologia pur non cogliendo appieno il significato della contemporanea necessità di trattare i compensi d’organo e di sistema, la disabilità e la salute funzionale negli anziani, la cui specificità è stata igno-rata (WHO, 2000). Da molti anni ormai nelle RSA si affrontano problemi sanitari rilevanti con strumenti minimi, poiché non sono con-siderati, appunto, luoghi della cura, ma “con-tenitori”. Si pensi allo standard di personale di assistenza previsto in Lombardia per l’ac-creditamento: 901 minuti/settimana/assisti-to. Per confronto si possono considerare i “numeri” delle carceri in Italia: ci sono circa 60.000 carcerati con 38.000 agenti di custo-dia. Calcolando 1400 ore anno di lavoro a persona, come per gli operatori RSA, questo

corrisponde a 1053 minuti settimanali per detenuto, maggiore di quello che è previsto per le RSA in Lombardia!Naturalmente nessun gestore di strutture è tanto folle da attenersi solo agli standard minimi, tutti hanno di più, ma in modo non rimborsato né riconosciuto dalla sanità. Le soluzioni gestionali, oltre a quella di ridurre al minimo possibile il personale qualificato, diventano solo due: sottopagare e aumenta-re i costi per i residenti e le loro famiglie. Il sistema compare delle Nursing Homes del medicare statunitense in un rapporto del 2015 della commissione federale scriveva: “These thresholds for Nas (Nurse Aide = OSS) occurred at … 2.8 hours per resident day for the long-stay quality measures, and for licensed staff at 1.3 hours per resi-dent day for the long-stay quality measu-res….” Cioè: 1176 minuti/settimana/perso-na per Nurse Aide e 546 minuti settimana/persona per Infermieri= 1722 settimana, questo era considerato lo standard in grado di assicurare la miglior qualità della cura2. In una analisi più recente sui dati di grandi catene gestionali di diversa natura veniva ri-portato uno standard reale verificato medio di 1369 minuti, riferito solo e strettamente al personale di assistenza diretta, Nurses e Nurse Aide (Banaszak-Holl J. et al., 2018). In queste condizioni, a partire soprattutto dagli anni 90 e dal progressivo ulteriore in-vecchiamento dei residenti (sempre ISTAT : età media 85), vi è stato l’irrompere delle persone con demenza e disturbi del com-portamento con problemi nuovi e inusitati posti ai luoghi di cura. Essi rappresentano ormai la maggioranza dei residenti, benché sia una patologia sotto diagnosticata e sotto trattata (Cherubini A. et al., 2012). L’inter-vento per le demenza nelle RSA è fortemen-te raccomandato da esperti e linee guida (Li-

2 https://www.justice.gov/sites/default/files/elder-justice/legacy/2015/07/12/Appropriateness_of_Mini-mum_Nurse_Staffing_Ratios_in_Nursing_Homes.pdf

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65NELLE RSA LOMBARDE LA MORTALITÀ EPIDEMICA PER IL VIRUS VIENE DA LONTANO

vingstone G. et al., 2017). La istituzione dei “nuclei Alzheimer” in Lombardia, iniziativa pionieristica della prima metà degli anni 90 ha cercato di affrontare nel modo migliore questi nuovi problemi, sia quantitativi che qualitativi. Poi con alterne vicende si è arri-vati in Lombardia a 3066 posti di residenza specializzati per le persone con demenza e disturbi del comportamento (dati 2017).Ma il “sistema” ha fatto comunque molta fati-ca a digerire questi due epocali cambiamen-ti (comorbilità/instabilità clinica e disturbi cognitivo comportamentali) dovendo ag-giornare anche strutture, processi e obietti-vi. Le strutture sanitarie territoriali, nelle va-rie denominazioni succedutesi nel tempo, hanno sempre più assunto anche nei con-fronti delle RSA una funzione di controllo delle conformità procedurali, senza alcuna considerazione della qualità assistenziale ef-fettivamente erogata. Come ci disse un precedente assessore, di fronte al sistema di autovalutazione della qualità in RSA messo a punto da noi3 per la Regione: come faccio a dire che una re-sidenza è meglio di un’altra? Politicamente non posso gestire una cosa simile!Se la RSA è solo un “contenitore” quello che si misura è solo legato agli adempimenti formali: gli indicatori diventano le firme sul-le cartelle, la verifica sulla compilazione di fascicoli mostruosi, pieni di scale di valuta-zione che non aggiungono nulla alla qualità della cura delle persone ma diventano solo un altro schema classificatorio, tassonomi-co, dis-interpretativo, facendo perdere la fondamentale dimensione narrativa delle biografie dei residenti.Le conseguenze operative sono quindi che :- dagli operatori sanitari e dai medici in

3 Associazione LOGOS, che negli anni 90 e primi 2000 riuniva gli operatori sanitari molte RSA lombarde come sviluppo del precedente gruppo GASP (Geria-tri Associati Strutture Protette)

particolare ci si aspetta solo una funzione prestazionale singola, non di gestione del malato e della sua patologia. Una specie di “pronto soccorso” in loco, in cui la cura dei malati cronici non è altro che la applicazio-ne ripetitiva e con meno strumenti della cura acuta, un medico del tutto incapace o impossibilitato a operare come promotore di salute e di rilancio dei progetti di vita dei residenti;- la struttura: non si prevede nessun incenti-vo per soluzioni di personalizzazione, prime fra tutte la stanza singola con bagno, come simbolo del non rispetto di fondo degli spa-zi di vita. Più dell’80% dice di preferire la stanza singola, e sono riportati su Lancet 8 motivi, di dimostrata efficacia, per scegliere di costruire luoghi di cura dotati di stanze singole (Ulrich RS., 2006). Inoltre la stanza singola permette una personalizzazione non solo ambientale ma anche degli orari e del rapporto con lo staff di cura, permetten-do interessanti riorganizzazioni dei momen-ti cruciali dell’assistenza, ad esempio rispet-to della sveglia naturale al mattino (Bessi O., 2003). In più non possiamo non chiederci, rispetto ai morti da COVID 19 nelle RSA lombarde:Quanti morti in meno ci sarebbero se me-dici e infermieri e OSS fossero presenti in numero adeguato?Quanti morti in meno ci sarebbero se la maggioranza delle stanze fossero state sin-gole?Con l’eccezione dei reparti Alzheimer per i quali andava previsto una extra investimen-to di personale di isolamento, dal momento che è quasi impossibile tenere le persone in stanza o far loro portare la mascherina e mantenere il “distanziamento sociale”.Per questo essere la RSA considerate “con-tenitori” non stupisce, caso mai addolora, che un assessore regionale che porta su di sé responsabilità terribili, abbia serenamen-te avallato una sciagurate delibera (quella

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dell’8 marzo 2020) in cui si “mettevano” in RSA le persone per liberare posti in ospeda-le. In ciò si svela (in senso letterale, togliere il velo) una concezione priva di qualunque idea di qualità della cura nelle RSA (“tenere lì” al minor costo possibile, questo l’obiet-tivo). Gli anziani che approdano alle RSA rappresentano i più fragili fra i fragili e pon-gono sfide enormi a tutti i livelli, risponden-do alle quali (respondere= responsabilità) si possono promuovere idee e soluzione che

poi vanno a beneficio di tutti non solo degli anziani.E allora perché stupirsi? Meglio continuare, con S. Paolo, ad indignarsi e ad operare per il cambiamento e forse il miglioramento fu-turo.

“Adiratevi e non peccate; il sole non tra-monti sopra il vostro cruccio e non fate posto al diavolo”

(Paolo agli Efesini 4: 26-27)

ANTONIO GUAITA

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 67-70

Un tentativo di diario nella stagione del Covid-19 nelle RSA della provincia di Cremona

WALTER MONTINICremona

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Se ripercorro questi tre mesi di pandemia, oggi avverto un senso di se-renità interiore: ho fatto – abbiamo fatto – tutto il possibile per proteg-gere le persone anziane, le più fragili, che le famiglie ci hanno affidato.Allora scorro la mia agenda a partire dalla data del 22 febbraio 2020. È un sabato: si è manifestata e materializzata in tutta la sua pericolosa drammaticità l’influenza (così allora veniva definita) del coronavirus. Mi rendo subito conto che come presidente di A.R.Sa.C., l’Associazione che riunisce tutte e trenta le Case di riposo, le residenze socio sanitarie della provincia di Cremona (con oltre 4.000 ospiti residenti, o posti letto, assistiti da più di 4.300 dipendenti complessivamente), non posso non prendere in mano con coraggio la situazione per gestirla in alcun i casi al di sopra e al di là dei vari “protocolli” prestabiliti.Nello stesso giorno le RSA, in una riunione autoconvocata alla presenza dei direttori generali e sanitari di tutte le strutture, tenuta nel giardi-no di Cremona Solidale, decidono autonomamente, ancora prima della emanazione dei periodici decreti governativi e/o regionali, di chiudere immediatamente l’accesso delle strutture ai familiari degli ospiti e agli esterni. Vengono sospesi anche i servizi dei Centri diurni e altri similari, ove presenti, in difformità alle disposizioni regionali che insistono per tenere aperte le strutture, limitando l’accesso solo a un familiare per ospite. In tale situazione le RSA trovano la comprensione dei propri Sindaci che, attraverso l’emanazione di apposite ordinanze, supportano le deci-sioni prese. Era evidente il pericolo di diffusione del contagio nelle RSA anche tra il personale e gli ospiti, con conseguenze devastanti. Andai a illustrare la decisione al Prefetto di Cremona, in termini preoc-cupati, il 26 febbraio in un incontro promosso dal Sindaco di Cremona, alla presenza delle direzioni generali dell’Azienda Cremona Solidale e dei servizi sociali del Comune di Cremona. E comunicai formalmente il senso della decisione presa al Direttore generale dell’ATS Valpadana il giorno stesso.Da quel giorno, le RSA sono state lasciate sole, sistematicamente rele-gate ai margini delle decisioni prese da altri, dovendo far fronte alle problematiche che l’irrompere e l’evoluzione della situazione improv-visamente presentava e imponeva ogni giorno. Il tutto venne gestito quotidianamente attraverso un improvvisato coordinamento via social

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68 WALTER MONTINI

tra i direttori generali, che ha funzionato, e funziona tuttora, benissimo, in una parteci-pata intesa e comune impegno per affronta-re qualsiasi problema. Per giorni e giorni abbiamo sollecitato tutte le autorità istituzionali e sanitarie che non ci fosse solo l’attenzione rivolta agli ospeda-li, certamente fondamentali nella gestione dell’emergenza, ma che l’orizzonte venisse allargato anche ai luoghi custodi delle mag-giori fragilità, cioè le residenze assistenziali per anziani. Per di più tale atteggiamento di ‘disattenzione’ veniva motivato dal fatto che le RSA erano considerate “private”, quasi estranee al sistema sanitario pubblico, come se non fossero parte essenziale della prote-zione sociale, e non fossero “pubblico” - cioè parte della collettività - le persone fragili che dovevano essere difese dal contagio.Un grande senso di abbandono cominciava a prendere i responsabili delle residenze so-cio sanitarie che si trovavano, dunque, a do-ver far fronte alla situazione spesso “a mani nude” per la generale disattenzione pubbli-ca che li circondava. Se penso all’impegno degli operatori sanitari addetti all’assisten-za nelle residenze cremonesi in questi tre mesi, posso dire soltanto di essere orgoglio-so di un esercito fatto di persone competen-ti e generose.In sostanza le RSA della provincia di Cremo-na, ma credo un po’ di tutto il Paese, sono state lasciate sole. Ne sono testimonianza i miei interventi e le denunce ospitate, con diffusa sensibilità, sul quotidiano locale “La Provincia”, a partire dal 2 marzo, e sui quo-tidiani nazionali, oltre che alle televisioni e radio locali e nazionali. La gestione degli interventi sanitari estremi veniva affrontata, e giustamente, nelle strut-ture ospedaliere locali, in una visione spes-so caotica e miope che poneva solo l’ospe-dale al centro delle risposte alla pandemia, trascurando completamente la dimensione socio assistenziale e sanitaria del fenomeno che la diffusa presenza ed esperienza delle RSA nel frattempo continuavano a garantire,

con uguale professionalità e competenza, sul territorio, alle quali andava riservata la stessa attenzione e dignità dell’intervento sanitario ospedaliero urgente in atto. I risultati oggi sono drammaticamente evi-denti.E ripercorro i problemi che le RSA hanno dovuto affrontare da sole in questa stagione spietata e crudele che sembra senza fine. Penso ai giorni difficili vissuti con rabbia sul filo della speranza per reperire i dispositivi di protezione e sicurezza per il personale, per la fornitura di mascherine, che ha tro-vato una soluzione solo a fine marzo at-traverso una ‘avventura’ vissuta tra attese e delusioni, a tratti drammatica, che non sto a descrivere: occorrerebbe un diario a par-te. Alla iniziale fornitura del materiale – pe-raltro ancora oggi necessario – ha supplito la generosità di molti gruppi e associazioni solidaristiche di Cremona che le RSA non finiranno mai di ringraziare.Indugiando ancora su alcune questioni: in data 11 marzo inviavo come presidente di A.R.Sa.C. una lettera al Prefetto, al D.G. dell’ATS Val Padana e alla Protezione civile nella quale evidenziavo le tematiche più urgenti. Non ottenendo alcun riscontro, in accordo con le Organizzazioni sindacali lo-cali e regionali, l’Associazione provvedeva a sensibilizzare a tutto campo le Istituzioni sui problemi più complessi, ivi compresa la decisione presa dalla Regione Lombardia di indurre le RSA ad ospitare nelle proprie strutture malati ex Covid- 19; richiesta ov-viamente respinta da quasi tutte le strutture per impossibilità logistico-edilizie ed orga-nizzative, oltre che sanitarie, di ospitare in appositi spazi isolati e protetti tali tipologie di malati di provenienza ospedaliera.Ai primi di aprile intensificai i rapporti con le Organizzazioni sindacali locali e regionali, unitamente ad UNEBA, ARLEA ed altre orga-nizzazioni sociali che dimostravano sensibi-lità alle diverse problematiche. Il lavoro di squadra impostato – come si usa dire – ha certamente contribuito a mettere ulterior-

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69UN TENTATIVO DI DIARIO NELLA STAGIONE DEL COVID-19 NELLE RSA DELLA PROVINCIA DI CREMONA

mente in evidenza alcune tematiche, sia a livello locale che regionale, e offerto ulterio-re spinta nella esigenza di fare chiarezza in una situazione normativa convulsa, a volte contradditoria e frammentata.Ripenso alla battaglia condotta per rivendi-care la necessità di far eseguire i cosiddetti “tamponi” sugli operatori sanitari, sul per-sonale dipendente delle RSA e sugli ospiti stessi, anche ai fini di contribuire a creare un ambiente di lavoro più sereno e tranquil-lo. Il tema dei tamponi ha trovato concreta soluzione solo a partire dal 7 aprile, a se-guito della circolare del Ministro della salu-te del 3 aprile 2020. E solo in questi giorni è stato completato nelle trenta strutture in collaborazione tra ATS e ASST di Cremona.Tutto questo lavoro veniva accompagnato dal silenzio assordante delle Istituzioni lo-cali, governative e sanitarie regionali, incari-cate della regia delle operazioni, che hanno ritenuto di affrontare le diverse situazioni in una dimensione essenzialmente buro-cratico- amministrativa, ... “priva di anima e cuore” - come ebbi a denunciare in una intervista televisiva -, attente alle emergenze che le situazioni imprenditoriali dell’ econo-mica locale presentavano.Nel frattempo anche la Procura della Re-pubblica di Cremona si muove a livello di preliminare indagine conoscitiva, in dipen-denza di alcuni casi di presunta malagestio-ne registrati in strutture milanesi e in altre province. L’iniziativa ottiene almeno l’obiet-tivo di creare attenzione attorno alle Case di riposo, ma sentirsi accusate sui media di es-sere parte, le RSA, di una ‘strage di anziani’, oltre che doloroso è anche una mancanza di rispetto verso chi con encomiabili sacrifici ha affrontato l’assalto di una situazione im-provvisa devastante, spesso oltre il dovuto. E tra loro si contano anche alcuni morti.Ma non sono necessarie tante parole. Una lettera di un anziano ospite della Casa di riposo di San Bassano, l’Istituto Vismara-de Petri, colpisce nel segno (è del 20 aprile, pubblicata da CremonaOggi, il quotidiano

online di Cremona, lo stesso giorno). Il mes-saggio trova sensibile ospitalità sui media locali:“Allora vi siete finalmente accorti degli an-ziani che vivono in RSA! Era ora! Ho 94 anni e vivo in RSA da un anno e mezzo e... cosa posso dirvi? Ci sto bene. Certo avevo una vita mia con mia moglie e una bella casa. Poi è morta e io ho tanti acciacchi e sono cieco e ho scelto di entrare qui”. Luigi racconta di “aver fatto bene” perché si sen-te “accudito e anche voluto bene”, benchè ammetta di “essere spesso un po’ pesante e insistente perché a me piace vivere come dico io e allora qualche volta questa nuo-va vita mi sta un po’ stretta”. Ammette di “sentirsi protetto qui dentro” e che il co-ronavirus non è ancora entrato nel suo re-parto. Ma attacca: “Prima nessuno parlava di noi, ora sono tutti esperti nel nostro mondo interiore ed esteriore ma per accu-sare, recriminare e dare contro quelli che ci curano. Solo ora sento affermare che esistiamo e siamo da proteggere perché più fragili: strano, pensavo che fossimo un peso! Penso che in ogni settore della no-stra società ci siano organizzazioni buo-ne e altre meno buone o addirittura truf-faldine, ma, di sicuro, prima di sparare a zero sulle RSA occorrerebbe conoscerle dal di dentro e magari scoprire quanta com-petenza e umanità ci sono in esse. Non è semplice aiutare noi vecchi che spesso non capiamo niente, ce la facciamo addosso, siamo lenti, impacciati, incapaci di fare da soli, urliamo e disturbiamo a tutte le ore del giorno e della notte. Per curarci oc-corre saperlo fare con uno stile che non si impara per corrispondenza o sui libri. Allora – conclude – basta per piacere: se volete parlare di noi per aiutarci a vivere sempre meglio ... va bene. Se no ridateci il nostro oblio, che sarà poi il vostro... se ci arriverete!”Le ultime parole di questa lettera di Luigi sono da scolpire!

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L’oggi (e il domani)

È evidente che, a distanza di tre mesi, oggi le trenta RSA della provincia di Cremona sono dei corpi feriti e lacerati. Lo sono da un pun-to di vista morale: per i residenti defunti, per i propri dirigenti o lavoratori morti o che hanno avuto lutti in famiglia, per quelli che hanno subìto gli effetti della malattia, per l’ingiusta ombra riguardante il loro agire nell’emergenza. Lo sono da un punto di vi-sta economico: per gli straordinari impegni finanziari che la pandemia ha imposto e sta imponendo, per i giusti ristori che dovran-no essere corrisposti a chi si è impegnato in queste giornate difficili, per i posti letto non occupati che i decessi stanno provocando. Oggi le RSA continuano, pur in mezzo a mille difficoltà organizzative e gestionali, ad offrire con professionalità e competenza la loro attività assistenziale socio sanitaria nel far ripartire i servizi.

Si pongono allora alcune questioni che van-no affrontate con intelligenza e coraggio:

a) l’urgenza di togliere il divieto di proce-dere a nuovi ricoveri nelle strutture per occupare, anche in parte, i posti resisi disponibili, attingendo alle apposite gra-duatorie, con tutte le garanzie sanitarie e di sicurezza necessarie. E’ il territorio che lo richiede e lo esige ed è la missio-ne precipua delle RSA anche per dare risposte a situazioni assistenziali ingesti-bili a domicilio;

b) Le strutture sono chiuse ormai da tem-po, da fine febbraio. Sono in corso timidi tentativi ed esperimenti di apertura qua-li, ad esempio, far incontrare il familiare con il parente ospite alla finestra della propria camera o in altro luogo all’aper-to adatto. L’esperimento, attuato nella Casa di riposo di Isola Dovarese, ha su-scitato indubbio interesse e comune condivisione venendo a risolvere con-temporaneamente due situazioni: quella dell’ospite che da tempo non incontrava

i propri familiari o amici, e che adesso li vede, seppur attraverso un vetro; e quel-la del familiare che può verificare per-sonalmente lo stato della situazione del proprio congiunto o amico;

c) Occorre inoltre prevedere sin da ora cospicue provvidenze finanziarie, statali e regionali, per sopperire ai mancati in-troiti di questo periodo, per coprire le maggiori spese straordinarie sostenute, e per riconoscere l’impegno straordina-rio del personale. Diversamente, credo che nei prossimi mesi si porranno serie questioni di sopravvivenza per le RSA, a fronte di bilanci insopportabili finan-ziariamente, anche per la sola gestione ordinaria del personale e delle strutture.

La situazione, che avrebbe delle riper-cussioni sul piano sociale ed occupa-zionale e che potrebbe sfociare anche in una criticità di ordine pubblico diffi-cilmente gestibile, è ben nota ai Sindaci (cfr. documento ANCI regionale del 24 aprile), alla politica, alle Organizzazioni sindacali e alle istituzioni;

d) Il virus non ha guardato in faccia nes-suno; ci ha rubato gli amici di una vita, spezzato esistenze, interrotto rapporti, tolto speranze... Restano solo i ricordi, che si consolidano, anziché affievolirsi.

Ma se è vero che dopo un tramonto c’è sempre un’alba, allora si deve guardare avanti.

È necessario allora cominciare ad elabo-rare un progetto per il futuro, in collabo-razione e confronto con il territorio, le diverse agenzie interessate, le associazio-ni e le istituzioni socio sanitarie di vario genere e livello, con la rete del volonta-riato sociale, in un quadro partecipato e condiviso nel quale far confluire l’espe-rienza di oggi e la prospettiva nuova del domani.

È tutto un sistema di welfare che va ri-pensato: c’è il tempo e la disponibilità.

WALTER MONTINI

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ASSOCIAZIONEITALIANA

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 71-83

L’emergenza Coronavirus e le RSA

MELANIA CAPPUCCIOVertova

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“La realtà delle strutture residenziali per anziani è il simbolo della nostra epoca di incertezze culturali e organizzative. Nelle aree di cer-niera, dove sono impossibili risposte semplici e univoche, le nostre ca-pacità di rispondere correttamente ai bisogni mostrano gravi limiti”.

Sono le prime righe di un volumetto di Rozzini, Carabellese e Trabuc-chi, scritto nel 1992, sull’assistenza nelle residenze per anziani. Dopo 28 anni potrebbero essere l’incipit, oggi, per riaffermare l’importanza di continuare un percorso difficile, ma doveroso, senza farsi dominare dai fallimenti, soprattutto dopo l’epidemia Covid.

“Le RSA figlie di un Dio Minore nella terra di mezzo”

Perché definire le RSA figlie di un Dio minore e nella terra di mezzo? Perché le RSA con il tempo e parlo degli ultimi vent’anni, soprattut-to in Lombardia, una Regione caratterizzata da grandi cambiamenti in ambito sanitario, hanno avuto una straordinaria capacità, non evidente ai più, di adattarsi al sistema e al contempo, di mantenere fede alla propria mission istituzionale, ricordo a tutti che erano IPAB - Istituiti Pubblici di Assistenza e Beneficienza, quindi di dare risposte concrete alle persone più fragili e “bisognose” della nostra società.Con la continua enfasi data alle strutture ospedaliere di ridurre il nu-mero dei ricoveri e soprattutto di ridurne la durata e, contemporane-amente con l’aumento dell’età media e della cronicità e quindi delle malattie, la componente più anziana, fragile e malata ha trovato nelle RSA una risposta pratica e tangibile ai suoi bisogni. Questo è stato pos-sibile per l’impegno continuo di queste strutture, anche sollecitate e normate dalla Regione, ad accogliere le persone sempre più gravate da malattie e con un quadro complessivo di non autosufficienza che non permetteva di rimanere a domicilio. La popolazione residente quindi si è moltissimo modificata e per questo motivo le strutture hanno assun-to un ruolo diverso. Non sono più gli “Ospizi”, ma residenze sempre più simili ad Ospedali per cronici, ovviamente con diversità ma anche con similitudini reciproche, con peculiarità specifiche e con diversità a seconda della Regione e/o del territorio.Alla maggior parte della popolazione questo mutamento non è stato

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72 MELANIA CAPPUCCIO

palese, è avvenuto in sordina, soprattutto perché le RSA hanno difeso strenuamente la loro identità (n particolare modo nelle provincie) caratterizzata da avere una fortis-sima valenza sociale e rappresentando spes-so un punto di riferimento importante per il loro territorio.Il dato significativo quindi è di avere assun-to un ruolo più sanitario, ma di non essere considerate tali, né da se stesse né dal ter-ritorio.Sono e rimangono una comunità nella co-munità. Spesso dimenticate fino a quando danno una risposta ai bisogni man mano emergenti.Purtroppo le Rsa sono giunte alla attenzio-ne dell’opinione pubblica quando è scop-piata l’emergenza Corona virus, una epide-mia che ha colpito soprattutto le persone anziane e con già delle patologie in atto, con un quadro patologico tanto più grave e una mortalità tanto maggiore a seconda del numero e della gravità delle malattie già presenti nelle persone.Lo sapevano tutti che questo virus avrebbe colpito specificatamente questa popolazio-ne.Noi lo sapevamo che se il Coronavirus fosse entrato in RSA avrebbe lasciato il segno....Al pensiero un brivido mi scorreva lungo la schiena e capirete il perché.Ed ecco il mio bollettino.Premessa: tutti abbiamo fatto degli sbagli, non avevamo le informazioni e gli strumenti che ci avrebbero permesso di “sbagliare di meno”, questo è un dato di fatto.

Sabato 22 FebbraioSono di guardia alle h 6.30 vengo chiamata per una urgenza, una assistita presenta feb-bre > 38°C dispnea importante e pousses ipertensiva, fornisco i consigli terapeuti-ci del caso urgente e vado con rapidità in Fondazione. Dal quadro clinico fornito e dai dati anamnestici che ricordo penso ad

un EPA, al mio arrivo alla auscultazione non ho riscontro a quello che pensavo, sento qualche rumore umido circoscritto e pen-so ad una polmonite ma la dispnea è molto più grave di quello che mi sarei aspettata, la febbre scende da sola con ghiaccio... e il 21 Febbraio abbiamo avuto notizia del pri-mo caso di Coronavirus a Codogno, per me significa a due passi… Rapidamente penso alla mia assistita che 14 giorni prima è stata dimessa dall’ospedale dove era stata ricove-rato per un rush cutaneo simil-allergico ma non se ne era trovata la causa, e che ha i figli residenti nella pianura e non in valle. Il primo pensiero è stato, sarà il Coronavirus? Imposto la terapia, la dispnea recede, la feb-bre si presenterà ancora per qualche giorno di notte ma alla fine la paziente si riprende, sta bene. Non saprò mai se aveva sviluppato una polmonite da Covid. Ho portato questa situazione perché ci siamo messi in allarme subito e da lì è cominciata la corsa, una cor-sa contro il tempo, una rincorsa verso il vi-rus per cercare di fermarlo al tempo stesso il rimanere fermi, “barricarci” per bloccarne l’entrata.In serata affiggo agli ingressi della struttu-ra il decalogo del Ministero della Salute per contrastare il contagio e inibisco l’ingresso dei familiari e visitatori che presentino sin-tomi tipici. Volevo limitare da subito gli ac-cessi, filtrarli quantomeno, ma la ATS mi in-forma che devo attenermi alle disposizioni del Ministero, nulla di più, per non creare il panico. Si, appunto, il panico, parola che ri-echeggia nei primi giorni, sicuramente nella prima settimana, quando nessuno sapeva o immaginava cosa sarebbe successo, e quella sembrava la cosa più importante, non scate-nare il panico.Ma il virus nelle RSA c’era già, era il periodo del carnevale, delle feste, dello stare insie-me, in quel fine settimana la RSA era gremita di parenti, volontari, bambini e di molte per-sone del paese.

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73L’EMERGENZA CORONAVIRUS E LE RSA

Bergamo, Val Seriana, epicentro della epidemia dopo Codogno, RSA

Domenica 23 FebbraioAccolgo in Hospice un paziente non onco-logico dall’Ospedale di Alzano, Divisone di Medicina, svolgo le consuete attività, lo visi-to, redigo la cartella clinica etc... Alle h 14.00 tramite messaggi sul cellulare cominciano ad arrivare messaggi che mi informano del-la chiusura del PS dell’Ospedale di Alzano per il riscontro di due pazienti con Corona-virus. Mi informo dal collega dimettente an-cora presente in ospedale che mi conferma la positività al tampone di due malati affetti da una grave polmonite refrattaria alle cure e che erano stati trasferiti al reparto infettivi del Papa Giovanni, che il paziente da me ac-colto era nello stesso piano, probabilmente non contagiato, ma non ne abbiamo la cer-tezza, anzi.Comincia il turbinio di pensieri nella mia mente e cerco di capire quale deve essere il corretto comportamento, le procedure da mettere in atto. Con la mente vado alle re-miniscenze dell’Università esame di Igiene e Medicina Preventiva, cerco di ricordare i vari passaggi che hanno attuato in Cina e, nella mia ingenuità, penso agli scenari pos-sibili. Quarantena, blocco degli ingressi, iso-lamento dei casi sospetti, sorveglianza sani-taria, uso dei DPI e quant’altro.Quello stesso giorno nel pomeriggio tardo chiudo la struttura e i servizi dell’esterno, CDI e ADI.È l’unica cosa possibile da fare, non ho altre armi. Sono convinta che sia l’unica strategia possibile, non ho dubbi, tutti faranno così!Rimango in struttura a dormire, ancora non so quale sarà il comportamento più idoneo visto che ho avuto un contatto con un so-spetto, ma in tarda serata, la centrale tele-fonica dell’emergenza mi informa che sia io che il personale possiamo andare a casa, non essendovi stato un contatto diretto tra i due pazienti. Non si è pensato al contagio

tra il personale sanitario e i pazienti, in quel momento.

Lunedì 24 FebbraioRSA chiusa a tutti gli esterni, CDI chiuso, voglio evitare l’andirivieni tipico di questo servizio.

Martedì 25 FebbraioLa ATS mi informa con una nota che devo lasciare aperto alcuni servizi, in primis il CDI e i servizi domiciliari come ADI e UCP DOM, pena sanzioni e messa in discussio-ne dell’accreditamento. Tensione altissima, responsabilità sanitaria da una parte, obbe-dienza alle direttive dall’altra.Mettiamo la protezione civile al cancello, i familiari (alcuni) contestano altri ci danno ragione. Alla fine seguiamo le indicazioni re-gionali e apriamo alle visite dei parenti in modo ridotto. Un parente per un ospite e per 10 minuti al giorno, non più di 3 parenti insieme in reparto contemporaneamente. Alla fine entrano una ventina di persone con i dispositivi (mascherine e guanti). Nessun ospite presenta sintomi influenzali, il CDI di fatto chiuso perché non ci sono utenti. Durante la settimana due vigilanze dalla ATS per verificare se CDI aperto o chiuso, entra-no senza guanti e senza mascherine…Primo punto fermo: la chiusura delle RSA non viene favorita dalla Regione/ATS.E da allora inizia il dramma interno ed ester-no.

La situazione nella RSA.Tutti mobilitati, briefing del lunedì di prima mattina e si decide chi fa cosa.Da allora RSA presidiata da tutto lo staff del-la Direzione Sanitaria e Sociosanitaria e con un tour de force, si è diventati infettivologi, pneumologi, medici di medicina preventi-va, oltre che medici geriatri, in un campo assolutamente non conosciuto, il contagio e la patologia da Coronavirus. Ingenuamente

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pensavamo che il virus fosse all’esterno.Cosa è realmente successo? Prime tre settimane.Alla fine dopo pochi giorni rimane la chiu-sura totale della struttura.Controllo della temperatura all’ingresso e a fine turno di tutti gli operatori e allontana-mento se TC > 37.3, ma dopo una settimana mi comunicano che non è possibile per vio-lazione della privacy...Fornito immediatamente i DPI (mascherine, FFP3, guanti e igienizzante) secondo le in-formazioni del momento.Sorveglianza dei malati, della comparsa di sintomi e/o segni simil-influenzali. Ricerca e stesura dei protocolli adeguati all’emergenza, studio delle linee guida, ci-nesi di Hong Gong, solo per dirne alcune. Telefonate tra Direttori Sanitari per capire se quello che stavamo mettendo in atto fos-se adeguato.Durante questo tempo nessuno verrà a chiederci come sta andando, quali sono le difficoltà, di cosa abbiamo bisogno.Ma tutto questo non è bastato, il virus circo-lava da tempo nel nostro territorio e di con-seguenza nelle RSA, e nonostante la nostra buona volontà e determinazione gli ospiti si erano già contagiati e l’onda violenta, enor-me, inarrestabile, che si è abbattuta su tutti, non potevamo fermarla. Nelle due settimane successive alla chiusu-ra una buona parte degli operatori ha co-minciato ad avere sintomi ed è stato a casa in malattia, alcuni in quarantena per avere avuto familiari ammalati e ricoverati in ospedale, molti hanno avuto lutti di genitori, nonni, coniugi. Il picco di assenze in media è stato per noi del 40%.Gli ospiti hanno cominciato ad avere sin-tomi entro il periodo di incubazione di 14 giorni, febbre, anche non elevata, tosse, bas-se saturazioni di O2, difficoltà respiratoria ma niente di drammatico, la maggior parte ha presentato un quadro di “Silent Hypoxe-

mia”. Le radiografie eseguite hanno dato responsi diversi, alcuni la tipica polmonite interstiziale a vetro smerigliato con opacità a più o meno accentuate e con interessa-mento più o meno diffuso, altri con focolai di broncopolmoniti e/o versamenti.Le terapie impostate su suggerimento degli infettivi di Bergamo sono state sintomati-che, ancillari, ATB, ossigenoterapia, sostegno alle funzioni respiratorie, attenzione alla idratazione e alimentazione. Nulla è stato lasciato di intentato. La lotta è stata comple-ta, ma impari, perché il virus, a sua volta, ha lottato fino all’ultimo, con la sua altissima diffusibilità.La mortalità è oscillata dal 10-12 al 50% nel-le varie RSA, numeri enormi che fanno rab-brividire. A Bergamo i decessi in RSA si sono avuti soprattutto nel mese di Marzo con una coda nel mese di Aprile.Alcuni decessi sono stati determinati da al-tre patologie, naturalmente, per cui si parla di decessi per o con Covid 19. Quello che è certo che la fragilità organica delle per-sone residenti in RSA e i deficit del sistema immunitario, li ha esposti, non solo ad un più facile contagio, ma anche ad averne le conseguenze più temibili.Nella maggior parte dei casi la diagnosi è stata clinica e/o radiografica, non supporta-ta dal tampone Rino-faringeo, perché le RSA sono state escluse, di fatto, dal circuito del-la ricerca epidemiologica del virus e nelle nostre RSA una vera e propria sorveglianza sanitaria attiva non c’è stata. L’isolamento è stato fatto con i sintomatici sospetti, non sono stati eseguiti i tamponi, in quel mo-mento le disposizioni erano solo per i sin-tomatici al PS, oggi si sa che ci sono 10-15% di asintomatici che possono diffondere il virus. Il Prof. Antonini diceva che la polmonite è “l’amica del vecchio”, nel senso che anche con la medicina moderna, quando le risorse sono ridotte ad un lumicino una polmonite

MELANIA CAPPUCCIO

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magari resistente agli antibiotici fa soccom-bere anche gli anziani più resistenti. E così è stato.Ma ci sono stati anche dei “sopravvissuti”, incredibilmente, persone che hanno avuto sintomi e a cui è stata fatta una radiografia del torace con l’immagine della polmoni-te interstiziale tipica a vetro smerigliato, si sono ripresi e non sono deceduti, con per-centuali variabili, ma fino al 50% dei sinto-matici sospetti. Per me è stato così e questo risultato ci ha ripagato di tutti gli sforzi fatti.La straordinarietà dell’organismo umano, noi li abbiamo curati come potevamo e loro sono guariti.Tutti i pazienti sospetti sono stati messi in isolamento dapprima uno poi due nella stessa stanza poi per coorte, redatti i proto-colli per i casi sospetti e certi. All’interno della nostra RSA, eravamo soli con il virus la sua diffusibilità e per i nostri residenti la sua forza, senza gli strumenti mi-nimi per affrontarlo (tamponi ad esempio) né tantomeno il sostegno di un sistema or-ganizzato per la epidemia. Perché questa è stata la realtà. Le RSA, come la medicina territoriale, sono state lasciate sole, ma d’altra parte noi siamo nella terra di mezzo e quasi invisibili, figlie di un Dio Minore per il sistema.Ma non basta, a queste difficoltà già notevo-li, di riconoscere e curare i malati, di avere cura e attenzione per non contagiarsi, ansia di non portare a casa in famiglia il virus, si sono aggiunte nelle settimane successive molte altre difficoltà definiamole di conte-sto. Mancanza dei DPI, diventati costosissimi, in alcuni casi sequestrati alla dogana dalla Protezione Civile e dati poi agli ospedali, di-rettive diverse e confuse sui DPI e sul loro utilizzo, quindi con operatori frastornati. DGR Regionali, Direttive, Note e Circolari della ATS inviate quasi quotidianamente, DPCM Nazionali in un turbinio di informa-

zioni molte volte contraddittorie e senza alcuna sistematicità e logica. Ma che non potevi perdere, per definire la operatività della giornata.Inoltre la necessità di avere protocolli, pro-cedure il più possibili chiare a fattibili al contesto lavorativo. Le prime direttive serie, organiche di gestione del Covid per le RSA arrivano dalla Regione il 30 Marzo con una dgr regionale, la XI/ 3018.Durante queste prime settimane, non un ri-ferimento certo per il contesto epidemico, ovvero il PIANO PANDEMICO Nazionale e della Regione Lombardia. E ancora la malattia che di volta in volta dava un quadro sintomatico diverso, aggiun-tivo, con terapie che analogamente poteva-no variare a seconda della patogenesi e dei sintomi studiati dai colleghi ospedalieri.Lavoro continuo, incessante, ad altissimo rit-mo per evitare contagi, sofferenza e morti.E fuori? La valle era continuativamente per-corsa dalle ambulanze con sirene continue, e poi le campane a morte, le notizie di colle-ghi ricoverati, intubati, morti.Le RSA sono state definite un castello chiu-so, in realtà eravamo in continua comunica-zione con i familiari attraverso telefono e videochiamate, presenti più del dovuto per fare compagnia e vicinanza agli ospiti, ma tutto questo non fa audience. In realtà il vero Castello, il Sistema Sanitario è bruciato con noi, sono rimaste le ceneri e le rovine e su queste bisogna ricostruire. Come? Come sempre dall’analisi delle cri-ticità.

1) Le RSA sono rimaste sole nella gestione degli anziani contagiati e nella preven-zione di ulteriori contagi. È un fatto.

2) I rapporti con la rete ospedaliera, ma anche con la Sanità territoriale, sono stati inesistenti, bloccati per proteggere gli ospedali da un eccesso di ricoveri. Soprattutto si è cercato di curare ed ac-compagnare evitando le complicanze di

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un ricovero ospedaliero in quel momen-to. Totalmente assente il Dipartimento di Prevenzione

3) In alcuni casi (come in Lombardia) è sta-to addirittura richiesto di tenere aperto alcuni servizi, esponendo al contagio le strutture e il personale ad essi dedicati.

4) Anche per la distribuzione di dispositivi di protezione individuale e altri presidi fondamentali per la gestione dei casi è stata data priorità agli ospedali e non alle RSA (come per i MMG).

5) I singoli gestori hanno dovuto attrezzar-si in autonomia, cercando fornitori di DPI certificati, spesso su mercati esteri per cercare di procurarsi le mascherine necessarie, andando incontro a enormi difficoltà, con ritardi nella distribuzione e inefficienze, sequestri della Protezione Civile nel periodo di maggiore emergen-za.

6) L’attività di screening tramite i tampo-ni naso faringei non è stata prevista in modo sistematico e omogeneo per le Rsa, a Bergamo non eseguiti se non ec-cezionalmente. E i test non sono stati eseguiti né sui casi sospetti tra gli ospiti né tra gli operatori durante l’ondata epi-demica, solo ora si inizia a fare questa at-tività, in ritardo e con una significatività epidemiologica completamente diversa.

7) Il lavoro in questa emergenza è stato fatto con assenze del personale fino al 50%, con ritmi massacranti da chi era ri-masto in servizio (come in ogni setting di cura).

Cosa ha insegnato, drammaticamente, l’epidemia Covid?

L’emergenza ha messo in luce tutte le de-bolezze di un modello sanitario da rivedere. Sia quello di sanità pubblica che di ogni ele-mento/servizio che opera nel sistema.E ci ha imposto delle sfide.

Le RSA del futuro: una prospettiva col-ta, fortemente progettuale e positiva

PremessaIn questa società pragmatica, almeno appa-rentemente, fondata su una criteri econo-mici esasperatamente volti al risparmio, si sono persi gli obiettivi primari di una socie-tà civile, democratica e fondata sui valori che da sempre hanno connaturato l’uomo.Il sognatore, l’idealista, colui che guarda oltre, viene pertanto snobbato e lasciato ai margini.In realtà l’uomo da sempre è dal sogno, da obiettivi molto elevati che ha costruito la società, i propri valori e i maggiori obiettivi e traguardi sono stati pensati proprio par-tendo dalle crisi più drammatiche, dagli er-rori e dai fattori che hanno portato alla crisi stessa.Perciò permettetemi di sognare e di accom-pagnarvi nel mio sogno che è quello di im-maginare che io possa dare degli spunti, del-le informazioni al gestore politico della mia Nazione/Regione e che, per la prima volta mi venga chiesto come dovrebbe essere strutturata ed organizzata una RSA nel futu-ro, anche alla luce della esperienza dramma-tica della epidemia Covid. Stranamente queste persone mi fanno la premessa che posso parlare liberamente perché sono persone completamente diver-se dai predecessori e non si sentono attac-cati dai miei suggerimenti e che mettono a disposizione tutte le risorse economiche necessarie per raggiungere l’obiettivo che si sono posti, ovvero costruire una RSA con una adeguata qualità di vita per le persone anziane nella quotidianità e in totale sicu-rezza nelle emergenze epidemiche. Inoltre vogliono sapere come dovranno essere i rapporti delle RSA nel territorio.Ma soprattutto mi esternano che il civismo di una società viene valutato dal valore che viene attribuito alle persone anziane, indi-vidui che hanno con la loro vita costruito

MELANIA CAPPUCCIO

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i valori e la ricchezza del mondo in cui noi oggi viviamo. Sono consapevoli che le ri-sorse economiche che gestiamo noi oggi le hanno accantonate loro con il sudore e la fatica e le difficoltà del IXX secolo e di que-sto gli sono grati.Sono stupefatta! Per la prima volta vedo la politica al servizio dell’uomo e della società e non al servizio di se stessa.....nonostan-te rimanga incredula, la mia mente rapida-mente mette a fuoco e sistematizza tutti i pensieri che hanno affollato la mia mente in questi due mesi.

Un sognoSe penso alla RSA del futuro certamente penso ai diversi livelli su cui si devono pog-giare i progetti, e i miei pensieri superano di molto la realtà attuale, sembrano un sogno appunto.

Requisiti StrutturaliLa salute e la serenità e il benessere dell’uo-mo in primo luogo è declinato dall’ambien-te/casa in cui viviamo, ed è altrettanto chia-ro ed evidente che un anziano ricoverato in un RSA ha bisogno di un ambiente che rispetti la sua dignità come persona nella quotidianità e al tempo stesso venga incon-tro a quelle che possono essere situazioni avverse o emergenze come questa del co-ronavirus. Come attuare una RSA che deve garantire vita comunitaria e al tempo stesso un isolamento in caso di epidemie e quindi di un contagio pericoloso che mette a ri-schio la vita delle persone? Dobbiamo pen-sare e immaginare una struttura con questi due concetti contemporaneamente presen-ti e che, in verità stridono l’uno con l’altro, ricordando che una RSA non dovrà mai es-sere un ospedale. Si è sempre detto che la RSA deve essere strutturata come una casa per una famiglia con forti relazioni, quindi accogliente “calda” e, al contempo, sappia-mo che in RSA ora giungono persone anzia-

ne che sono molto malate, estremamente fragili e quindi la RSA del futuro deve essere anche un ambiente sanitario e specialistico. Questa esperienza di epidemia ha eviden-ziato in modo netto che non si può con-trastare completamente un contagio dove operatori ed anziani si trovano ad essere vi-cini nelle pratiche assistenziali nonostante mascherine guanti e disinfezioni accurate, tuttavia è necessario avere molte più stan-ze singole rispetto alle doppie, le metrature devono essere più ampie, con antibagni/anticamere che facilmente diventino zone filtro, gli spazi comuni devono essere molto più ampi rispetto a di quelli attuali e con-temporaneamente ci devono essere spazi più piccoli, stanze in cui svolgere le attivi-tà in piccoli gruppi o in un rapporto duale, nei quali stare con i propri familiari senza creare assembramenti confusione con gli altri. Questi spazi possono essere facilmen-te usati per evitare gli assembramenti, per far stare i residenti in sicurezza e per potere permettere le visite dei familiari. Inoltre per quanto costoso/oneroso bisogna pensare anche di avere delle stanze vuote nelle qua-li è facilmente praticabile e applicabile un eventuale isolamento nel caso di epidemie e contagi e nella quotidianità si possano ap-plicare le cure palliative nel fine vita.E che dire dei Nuclei Alzheimer? Come at-tuare l’isolamento per persone con deterio-ramento cognitivo, con wandering, agitazio-ne e irrequietezza? Lo si può fare pensando ad una strutturazione dell’ambiente per pic-coli nuclei o a dei nuclei che si posso chiu-dere ulteriormente in nuclei più piccoli in modo di attuare un isolamento ambientale per nuclei all’interno del quale sia permes-so loro muoversi.Un altro elemento importantissimo è il ver-de, giardini vivibili, zone all’aperto, in cui gli anziani possano essere portati, in qualsiasi stagione. Con questa possibilità si applica immediatamente il ricircolo d’aria, durante

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i periodi epidemici, ma nella quotidianità si fa prevenzione, perché la luce (attivazione Vitamina D) e l’aria aperta permettono la massima ossigenazione, i polmoni si espan-dono maggiormente, il movimento fa “tut-to”, mantiene la funzionalità osteo-articolare e muscolare, mantiene l’appetito e modula positivamente il tono dell’umore, per citare solo alcuni dei benefici.Quindi nel futuro la RSA deve essere ampia, luminosa, aperta all’esterno verso il giardi-no, con una ridotta percezione di affolla-mento e modulare agli eventi che possono subentrare.Ma le RSA oggi hanno dei requisiti struttu-rali vecchi, almeno di 15 anni. Le ristruttura-zioni eseguite sugli standard regionali, sono inadeguate, legate a degli schemi confusivi, a metà strada tra i requisiti ospedalieri e le vecchie Case di Riposo. Sono molte poche, e sono per lo più le Rsa nuove, che sono state costruite su standard più elevati e che sono riuscite a coniugare esigenze sanitarie e di vita di comunità in modo ottimale

Requisiti Gestionali

La realtà Lombarda, indubbie eccellen-ze e grandissime criticità. Un nobile passato, un futuro senza guida.

Negli ultimi anni i dati Lombardi attestano una assenza di programmazione nel numero di residenze, dimensione, rette, tariffe.Ritorno al mio sogno e penso per quanto tempo nella mia mente avevo il tarlo della inadeguatezza degli standard gestionali e in particolare modo questi pensieri mi hanno accompagnato durante questi mesi osser-vando ciò che si è verificato.Le RSA oggi non sono solo delle Long Term Care, ma veri e propri ospedali geriatrici ter-ritoriali. Lo dimostrano i quadri clinici pre-sentati dagli ospiti, gli ingressi sempre più spesso successivi ad un ricovero ospedalie-ro per acuti dopo un evento indice, o dovu-

ti ad una disabilità funzionale subentrante a domicilio per cui i servizi territoriali (ADI o RSA Aperta) non sono più in grado di essere una risorsa per le persone fragili e per la famiglia.Per i decessi che sempre più spesso avven-gono entro i primi 12 mesi dall’ingresso, a dimostrazione dell’avanzato grado di pato-logia e disabilità funzionale della popolazio-ne anziana afferente alle RSA soprattutto in Lombardia.Pertanto il nucleo fondamentale, il punto di rottura si verifica nella discrepanza ormai eclatante tra le necessità sanitarie sempre più puntuali e specialistiche, che richiede una oculata organizzazione, e lo standard gestionale richiesto agli Enti Gestori dalle Regioni/Stato.Per fare un esempio pratico la Regione Lombardia per le RSA chiede 901 min/set-timana/ospite di tempo necessario di assi-stenza sanitaria-assistenziale. Tra l’altro non entrando nel dettaglio delle professionalità richieste, per cui lasciando ampio spazio ad ogni Struttura su come e con quali profes-sionalità organizzarsi.Per i Nuclei Alzheimer (Reparti Speciali per l’assistenza dei malati con deterioramento cognitivo e disturbi comportamentali) le ri-chieste sono di 1.200/min/settimana/ospite con però alcuni dettagli delle professionali-tà richieste (medico, infermiere, educatore, OSS etc..). Questa normativa, ormai datata e obsoleta, è ancora in vigore e non tiene conto degli sviluppi che le RSA lombarde hanno avuto soprattutto nell’ultimo decennio, per cui lo standard è già largamente insufficiente nella quotidianità e senza alcuna eccezionalità, fi-guriamoci con l’esplosione di una epidemia.Per fare un esempio molto semplice ed esplicativo, la figura del medico prevista è di un medico generalista, non è richiesta alcuna specializzazione. Ma in Lombardia è stato richiesto di accogliere SV e SLA in

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fase avanzata, patologie croniche molto in-validanti, di attuare le Cure Palliative in fase terminale, in cartella clinica si chiedono va-lutazioni multidimensionali con una testisti-ca Geriatrica a volte Fisiatria e Neurologica. Con questa epidemia si sono dovute affron-tare tematiche infettivologiche e di Medici-na Preventiva.Come può una RSA che ha solo il minimo orario di un medico libero professionista che non investe in campo geriatrico affron-tare quello che è accaduto? Inoltre, la premessa ovvia è che comunque le RSA non sono ospedali secondo il con-cetto attuale di ospedale, ma sono delle co-munità dove le persone vivono anche per lungo tempo la loro vita, ma per raggiungere questo obiettivo sono molto “sanitarie” per tutto quello che abbiamo ben evidenziato. Unire ed eccellere in entrambe queste ani-me non è facile.L’ulteriore elemento critico strettamente collegato è la tariffazione/contributo regio-nale (la quota che la Regione mette a dispo-sizione per la parte sanitaria della gestione di ogni ospite) vale a dire una tariffa che ri-sale al 2003 a più di 15 anni fa e con l’ultimo adeguamento tariffario (di € 1.50) al 2010.Con questi presupposti organizzativi-gestio-nali e con questo contributo economico to-talmente inadeguato è estremamente diffici-le che le RSA possano affrontare situazioni molto complesse e di urgenza come quella che si è appena verificata.Ma la maggior parte delle RSA lombarde da molto tempo erogano i propri servizi con degli standard gestionali più elevati rispet-to a quelli previsti dalla Regione, le recenti ristrutturazioni eseguite per adeguamenti strutturali o per l’apertura di nuovi servi-zi sono state caratterizzate da progetti che hanno superato largamente i requisiti strut-turali minimi della Regione. Se tutto ciò non fosse stato fatto, la virulen-za del Covid e la fragilità degli ospiti avreb-

be dato un esito molto più drammatico. Se guardiamo al di fuori dell’Italia i numeri cosa ci dicono? In Italia il 35% dei decessi risulta avvenuto nelle RSA. Nel resto d’Europa le percentuali oscillano tra il 55% dell’Irlanda, il 53% del-la Spagna, il 49% della Francia e il 33% del Portogallo.Quali possono essere i motivi? Paradossal-mente l’Italia ha retto meglio rispetto al re-sto d’Europa forse proprio perché le case di riposo sono più medicalizzate?In Italia è ormai un dato acquisito che le fa-miglie finché riescono tengono gli anziani in casa, probabilmente per ragioni cultura-li ma anche economiche. Altrove i ricoveri avvengono prima perché gli anziani non vogliono pesare sui figli e perché per loro economicamente è una scelta sostenibile.Ma comunque un pilastro del sistema di Welfare, l’organizzazione delle RSA attuali più medicalizzate rispetto al resto dell’Eu-ropa, ha le fondamenta che scricchiolavano già prima del Covid-19.Ma ritorno al mio sogno, vedo una RSA, non solo bella esteticamente e funzionalmente più adeguata, con i presupposti strutturali ottimali per la gestione delle fragilità del vecchio, ma anche con una organizzazione gestionale molto più vicina alle esigenze quotidiane e con la possibilità di affronta-re le emergenze e le sfide che potrebbero presentarsi.Come? Semplicemente con una tariffa re-gionale giornaliera calibrata alla effettiva fragilità, che si fa totale carico della com-ponente sanitaria evidentemente diversa a seconda della comorbilità e della gravità delle patologie presentate, ma che oltretut-to segue il vecchio fino alle condizioni ter-minali, adeguando la tariffazione in modo che l’assistenza socio-sanitaria sia cucita sul paziente e sul suo percorso di vita e di ma-lattia.D’altra parte è noto a tutti che le pensio-ni del prossimo futuro ancora di meno di oggi saranno in grado di fronteggiare le ret-

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te giornaliere, e che è l’impegno sanitario a gravare maggiormente sulla retta e non i costi alberghieri. Pertanto nel mio sogno vedo che, viene data a tutti la possibilità di un ricovero in RSA nel momento del bisogno, e che, a fronte di una assistenza sociosanitaria garantita a tut-ti e di uguale misura, le persone potranno scegliere le RSA in base alle proprie tasche con rette più alte solo perché si desiderano dei servizi alberghieri più alti come negli hotel, ma non viene messa in discussione la assistenza sanitaria, educativa, relazionale e assistenziale uguale per tutti.In conclusione alla fine del mio sogno il po-litico/gestore mi chiede quale è lo standard ottimale e in quanto consiste la tariffazione adeguata, e io da tecnico gliela dico, perché so quale e quanto personale è necessario, quanto sono i costi per una ottimale orga-nizzazione.È proprio un sogno......

RSA e lo sviluppo nel Territorio

Ma le RSA non sono solo delle comunità di persone che vivono in un edificio che al momento del bisogno viene chiuso e sigilla-to per proteggere i suoi abitanti all’interno, è una comunità ricca di persone, di relazio-ni, di attività che sono aperte all’esterno, non solo con i familiari e i volontari, ma con tutta la società fuori di essa. Ed è attraver-so questi vasi comunicanti che le RSA sono vive. Per il futuro la Key word è “collabora-zione”.

RSA e OspedaleLa sanità lombarda, ma non solo, il sistema sanitario in generale degli ultimi anni ha sempre dato molta importanza agli ospedali e ciò è dovuto al ruolo intrinseco che esso svolge di cura delle malattie acute e gravi, come si è verificato in questi mesi con il Covid.All’opposto le finalità delle RSA sono la

cura e l’assistenza delle malattie croniche, pertanto dovrebbe essere naturale e ricerca-ta una comunicazione e una interrelazione stretta e reciproca tra questi due servizi, o meglio questi due pilastri del SSN.Molte RSA hanno oltre la classica residen-za per anziani altre UdO, Degenze per Post Acuti, Riabilitazione di diversa intensità, Cure Intermedie, Nuclei Stati Vegetativi e SLA, Hospice e Cure Palliative, Ambulatori, attività domiciliari varie (ADI, UCPDOM RSA Aperta). Pertanto dovrebbero assumen-te un ruolo più incisivo nella rete del siste-ma sanitario (se così fosse stato avrebbero avuto più informazioni e strumenti, come i DPI), ma per poterlo fare ci vogliono dei presupposti che finora nessuno ha perse-guito. L’ospedale dovrebbe essere consape-vole che c’è un mondo “sanitario” fuori da esso che non solo è complementare, ma è essenziale per le performance ospedaliere.Questa epidemia lo ha evidenziato in modo chiarissimo. Certamente gli ospedali hanno dato il meglio di sé nel ricoverare e curare i malati più gravi che ad esso afferivano, ma al contempo le RSA hanno curato le perso-ne evitando ulteriore sovraffollamento e im-pedendo molta sofferenza con dei ricoveri non appropriati, curando a domicilio tutte le persone che necessitavano della assisten-za domiciliare. D’altra parte se, da subito, il vasto territorio fosse stato seguito dai MMG protetti con dei DPI come erano protetti i colleghi in ospedale, lo scenario senza alcun di dubbio sarebbe stato diverso.Ora questa esperienza ha dimostrato che ogni servizio e ogni professionista hanno pari dignità, e che ognuno, se assolve pie-namente e fa bene il proprio lavoro e il pro-prio mandato, aiuta considerevolmente gli altri protagonisti, non attori ma protagonisti del sistema. Quindi in primis la rete delle RSA dovreb-bero interfacciarsi con la rete ospedaliera, attraverso dei percorsi vecchi (le centrali di

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dimissioni da una parte e le centrali di acco-glienza dall’altra) e nuovi, tutti da definire, con l’obiettivo di applicare una “vera” con-tinuità assistenziale, quindi collaborazione con gli Ospedali.Le RSA d’altro canto dovrebbero sempre più farsi carico delle patologie croniche ri-ducendo il più possibile gli accessi ospeda-lieri ed essendo in grado di curare anche le patologie più impegnative ( neurologiche, scompensi funzionali di organo etc.)

Rete delle RSAL’epidemia Covid ha messo in luce le diffi-coltà già note nella gestione delle RSA. Per i motivi sopracitati, molte RSA avevano dif-ficoltà nella gestione economica, notevoli sono le spese fisse con introiti non modifi-cabili e con il maggior peso economico nel bilancio della spesa è del personale. Con questo punto di partenza è indubitabile che le RSA che maggiormente hanno sofferto in questa vicenda sono state le RSA picco-le e più delocalizzate rispetto alle città, con il pregio di essere ben distribuite nel terri-torio, soprattutto quello rurale, ma con lo svantaggio derivante da una gestione eco-nomica autonoma ma molto precaria.L’epidemia Covid non solo non ha aiutato, ma ha aggiunto notevoli pesi/spese e ridur-rà nei prossimi tempi gli introiti regionali e saranno a rischio le rette degli utenti.Quindi la soluzione di mettersi in alleanza in gruppi attraverso una attività di consor-zio: gruppi omogenei per numero, servizi offerti, territorio, ma con lo scopo princi-pe di acquisire maggiore forza contrattua-le con i fornitori. Si pensi ad alcune voci di spesa come le derrate alimentari, le spese farmaceutiche, i presidi, la formazione del personale. La condivisione degli speciali-sti, alcune professionalità di consulenza, condivisione di alcune specificità come i Palliativisti, pneumologi, nutrizionisti per citarne solo alcuni servizi. In questo modo

ogni RSA mantiene la propria autonomia e identità ma spalma molte spese con le altre. Si pensi ad una unica Direzione Generale strategica, Direzione Sanitaria, Accettazione degli utenti, la stesura di procedure e proto-colli, etc.. in questo modo si avrebbero delle competenze elevate con una riduzione dei costi e si otterrebbe quindi il duplice scopo di mantenere una buona qualità assistenzia-le contenendo il bilancio. E se l’unione fa la forza e la specializzazione è meglio della tuttologia, va da sé che nello sviluppo strategico di ognuna e del gruppo associato non si creeranno dei doppioni di servizi, ma ognuna svilupperà dei servizi adeguati alle proprie capacità e ai bisogni territoriali rappresentando il riferimento per quel servizio.La forza “contrattuale” e le specificità si ot-terrebbero anche con le ASST territoriali e le loro Centrali di Dimissione, con le ATS e con gli Organi Legislativi.Solo con queste soluzioni verrà salvaguar-dato il retaggio e la storia di ogni RSA e del suo territorio e non si creeranno le basi per essere fagocitate dei grandi player oggi pre-senti sul mercato. Quindi collaborazione tra RSA per essere di maggiore aiuto al ter-ritorio e per fornire servizi più attagliati ai bisogni della popolazione.Solo in questo modo con una forte allean-za si riuscirà a contrastare la colonizzazio-ne del nostro territorio da parte dei grandi players, le multinazionali che costruiscono RSA a scopo di investimento e profit e quin-di non saranno “ cannibalizzate”.

RSA e TerritorioSolo con delle risorse umane ed economi-che adeguate le RSA potranno volgersi ver-so l’esterno, producendo servizi, idee, attivi-tà e catalizzando un intero territorio, come?Sviluppando sempre di più la propria mis-sion, cioè l’attenzione ai bisogni non solo delle fragilità ma con una visione strategica

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lungimirante e con il focus alla prevenzione delle tematiche della popolazione anziana.Sviluppo e potenziamento dei servizi ter-ritoriali già in essere, ADI, ACP DOM, RSA Aperta, Residenzialità leggera, Co- Housing, per menzionarne solo alcuni. Sviluppo di altri servizi nuovi attingendo da altre realtà a livello internazionale e decli-nandole nella nostra società.Sviluppo di attività ambulatoriali finora non considerate dal SSN e più specifiche e ne-cessarie per la popolazione anziana, non solo CDCD, ma anche ambulatorio Psicoge-riatrico per le altre patologie minori come la depressione l’ansia, quindi superando le Demenze, ambulatorio per il Dolore Cro-nico, ambulatorio infermieristico, prelievi etc...Esportare la propria Know out all’esterno e strutturare in modo sistematico le terapie non farmacologiche a domicilio (Musicote-rapia, Doll Terapy per i Deterioramenti Co-gnitivi), consigli per una casa a dimensione delle persone anziane e disabili, fornire per-sonale formato per la compagnia, per sop-perire alle prime necessità ( spesa, farmaci, rapporto con il MMG), strutturare attività ludiche, relazionali educative nel proprio territorio mirate ai loro bisogni (spesso non similari a quelli della RSA).Tutte attività più sociali, volte alla conoscen-za delle persone del proprio territorio, e quindi con questa conoscenza proporre so-luzioni pratiche alle emergenze territoriali.La RSA del futuro deve rappresentare il cen-tro di un insieme di attività basate sui valori del nostro tessuto sociale, e dove esso si è scucito, saranno l’elemento di ricucitura ri-costruendo un canovaccio di valori, idee e attività.Parla chiave: capacità innovativa.

Collaborazione con i ComuniGià ora in collaborazione con i Comuni e la società civile le RSA hanno costruito la

società amica della demenza, le cosiddette Dementia Frendly Community e nel futuro daranno vita ad altre Comunità amiche di persone fragili o di contrasto a delle realtà negative, si pensi al Contrasto alla Solitudi-ne. Potranno coagulare i rapporti intergenera-zionali, attraverso la didattica a scuola, visite dei giovani all’interno, attività di svago pro-poste in e fuori dalla RSA.Svolgere il ruolo non solo di memoria sto-rica, ma di continuità con le giovani gene-razioni.Il mio sogno vede quindi anziani, giovani e bambini tutti insieme che riescono a trova-re elementi di comunicazione e relazione, in un rispetto reciproco, sotto l’egida di un politico locale, regionale, nazionale promul-gatore di questo risultato.Al contempo, nella sua componente sani-taria, può farsi carico di attività più colle-gate alla informativa di salute e malattie, a promulgare le attività di prevenzione, e di sviluppo di un invecchiamento di successo attraverso proposte innovative.Tutto questo è possibile se le RSA sono fornite di un personale in numero adegua-to, personale formato, motivato, ma soprat-tutto pagato adeguatamente alla propria professionalità. Non utilizzare personale di Cooperativa o dipendente con dei contratti collettivi che non rispondono alla professio-ne (penso ai sanitari, medici e infermieri) e all’impegno profuso (ad esempio alla forma-zione ECM e non solo).E qui si tocca un tasto dolente, come può essere attraente il lavoro in RSA se non è considerato un lavoro essenziale e utile dal-la collettività e dalla politica? Non esistono percorsi formativi professio-nalizzanti post laurea per gli infermieri ad esempio, il numero di borse di studio in Geriatria è già insufficiente per gli ospedali, per cui nessuno o pochi geriatri si cimente-ranno a costruire la propria professionalità in RSA.

MELANIA CAPPUCCIO

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Ma adesso è il momento di pensare, costru-ire, investire su un sistema sociosanitario, capace di rispondere ai bisogni attuali e di pensare strategicamente al futuro, non solo negativamente alle epidemie e alle emer-genze possibili, ma di pensare ad una socie-tà migliore, ricca di contenuti valoriali, per-ché i residenti delle future RSA potremmo essere noi e chi gestisce il sistema adesso.

«La politica dovrà avere il coraggio di invertire la rotta».

Credo che questo sia l’auspicio che tutti noi abbiamo, perché le morti dei colleghi, dei sanitari e di una intera generazione del no-stro popolo, quella dei vecchi malati e non, non sia accaduta invano. Si è parlato di guerra, ma questa non è sta-ta una guerra, purtroppo il nemico non era esterno a noi, è stato un cataclisma, uno tsu-nami, e tutti hanno cercato di fronteggiar-lo come potevano ma le risorse ed energie erano tali che non potevamo riuscire a sal-varli tutti. Nonostante fossimo organizzativamente de-nutriti e stanchi per la mancanza di risorse precedenti, senza le armi adeguate per fron-teggiare questa onda fortissima e violenta, ce l’abbiamo messa tutta, ognuno di noi, i colleghi in ospedale, i MMG nel territorio, in RSA tutto il personale socio-sanitario, ab-

biamo lavorato a spalla a spalla e di questo siamo orgogliosi e fieri.E, se alla fine ci diranno che non abbiamo fatto abbastanza, non importa, nel nostro in-timo, nella nostra coscienza ognuno di noi sa cosa è successo e cosa ha fatto.A Bergamo abbiamo avuto + 464% di de-cessi oltre i livelli “normali” , più che a New York.Nelle RSA bergamasche dal 1 Gennaio al 30 Aprile si sono avuti 1998 decessi pari al 32.7% della intera popolazione, 6.100 ospiti. Un numero pari ai decessi che si sono avuti in tutti e tre gli anni precedenti, 2017-2019.Da bergamasca e avendo vissuto in prima persona come Medico e Direttore Sanitario questa vicenda, dolorosissima, con una sof-ferenza psichica profonda, oggi da sognatri-ce e idealista confido e spero che la lezione venga capita da tutti e che nel futuro ci ven-ga data quella linfa vitale necessaria per es-sere in grado di costruire un futuro migliore per la noi stessi, per la nostra professione, per le persone anziane malate e fragili a noi affidate e quindi per il nostro sistema sani-tario nazionale.

“Se nessuno avesse mai avuto la follia di uscire dal gregge,

l’Umanità avrebbe fatto ben pochi passi in avanti”

(Albert Einstein)

L’EMERGENZA CORONAVIRUS E LE RSA

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 84-86

Un’esperienza difficile

CORRADO CARABELLESEBrescia

[email protected]

Le Residenze Sanitarie Assistenziali convenzionate dispongono del con-tratto e verifica con ATS Locale. Tra gli elementi previsti dal contratto è richiesto il protocollo della gestione delle malattie infettive.Contemporaneamente le strutture dispongono, per le norme legisla-tive di un responsabile della sicurezza e protezione (RSPP), che unita-mente al medico competente redige il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), che rappresenta l’identificazione dei rischi da lavoro e le attività messe in campo per il controllo e la tutela dei lavoratori. Entrambi i documenti in genere non approfondiscono o riportano la condizione dell’epidemia. Purtroppo, nel gennaio 2020, è stato emesso allarme dall’OMS, ma solo con il 23 febbraio20.20 si è iniziato ad affron-tarla con prime circolari trasmesse dalla Regione e ATS.Le strutture hanno dovuto attivare disposizioni man-mano che giunge-vano in progressione potremo ed altre in autonomia che si potrebbero rappresentare in:

- chiusura degli accessi ai familiare;

- attivare implementazione del protocollo per la diffusione droplets e da contatto Nuovi DPI;

- valutazione clinica dei sintomi respiratori con isolamento degli ospi-ti;

- linee guida terapeutiche;

- informazione costante ai familiari con telefono, videochiamate ecc.;

- informazione delle condizioni cliniche per eventuale trasferimento in PS;

- la disponibilità dei tamponi naso-faringei per la ricerca del Covid-19;

- la gestione della terminalità breve.

Il controllo delle malattie infettive si basa sulla diagnosi precoce per contenere la diffusione (Gandhi M. et al., 2020). Nelle fasi iniziali la viremia da Covid-19, che si trasmetteva attraverso le goccioline ed il contatto con superfici inquinate, si estrinseca con sintomi respiratori (febbre, tosse, respiro corto, astenia, perdita dei sapori, ecc) e per un

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85UN’ESPERIENZA DIFFICILE

periodo di incubazione di circa 5 giorni.La gestione degli ospiti sintomatici poggia sulle procedure dell’isolamento, che ha vi-sto diverse evoluzioni nel tempo, si partiva da nuclei con posti letto totalmente occu-pati e senza la disponibilità di camere vuote. L’isolamento avveniva nella stessa camera e successivamente con due ospiti nella stessa camera con sintomi respiratori. La maggior incidenza di ospiti con isolamento respira-torio ha richiesto la necessità di raggruppa-mento di coorte in un’area del nucleo con più camere che vedevano inseriti ospiti con sintomi respiratori ed un miglior utilizzo delle procedure dei DPI, che sempre più, l’approvvigionamento si rendeva difficile come anche il trasferimento in PS.L’isolamento veniva eseguito solo in presen-za di sintomi respiratori ed inizio dell’appli-cazione delle linee guida terapeutiche.La disponibilità di poter eseguire tamponi prima ai dipendenti e dopo agli ospiti ha permesso di verificare aspetti ipotizzabili, ma di difficile realizzazione senza l’esecu-zione della ricerca del Covid 19 attraverso i tamponi.La disponibilità dei tamponi ha permesso di confermare la natura della sintomatologia respiratoria e le prescrizioni terapeutiche, ma sia per i dipendenti che per gli ospiti ha messo in evidenza una piccola percen-tuale di portatori di Covid-19 chiaramente asintomatici. Fenomeno già documentato in letteratura da Arons M.M., et al. (2020), dove afferma l’esistenza di una fase pre-sintoma-tica con trasmissione virale.L’autore conferma l’importanza dell’esecu-zione di tamponi naso-faringei nelle comu-nità ed il costante controllo nel tempo al fine di identificare eventuali focolai sia per gli ospiti fragili ed a maggior rischio ma an-che verso i dipendenti.Test che risulta favorevole per iniziare a modificare l’organizzazione della vita nelle

diverse aree della struttura ma anche per riprendere gli accessi a nuovi ospiti in si-curezza per tutti, oltre all’adozione corretta dei DPI e comportamenti di vita dei dipen-denti all’interno ma anche all’esterno in re-lazione al proprio ruolo.L’articolo di Arons, mostra un ambivalenza attuale della RSA da un lato il rischio a ga-rantire il controllo della diffusione, tanto che l’articolo ipotizza anche la dimissione degli ospiti, e dall’altra, per l’impossibilità della dimissione, suggerisce azioni di con-tenimento della diffusione, azioni struttu-rali, comportamentali e diagnostiche degli asintomatici definendo l’asintomaticità il tallone d’Achille del controllo pandemico di Covid-19 nelle RSA e comunità in genere.Comunque gli ospiti asintomatici e sintoma-tici positivi al Covid-19 quando trattati se-condo le linee guida farmacologiche com-presa l’ospedalizzazione mostrano, dopo 14 giorni con l’esecuzione di un primo e secondo tampone a distanza di 24-48 ore, il ritorno alla negatività.La pratica clinica e virologica conferma per i dipendenti una sufficiente condizione per rientrare al lavoro e per gli ospiti la guari-gione e quindi la possibilità di inserimento in aree che accolgono ospiti con tampone negativo.La clinica, al contrario, mostra in rari casi ospiti che pur se diventati negativi esprimo-no sintomi e positività al tampone che ne-cessita di una sorveglianza aggiuntiva prima del trasferimento.Gli ospiti, con sintomi o asintomatici Co-vid-19 positivi pur se con un’incidenza alta di mortalità, possono guarire e tornare in aree più tranquille. Ritorno fortemente con-dizionato, anche’esso alla disponibilità di poter eseguire periodicamente i tamponi naso-faringei e si spera, nel futuro, l’indagi-ne sierologica.

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86 CORRADO CARABELLESE

Il tutto rappresenta il presupposto per pen-sare alla:

La ripartenza nella Fondazione Casa di Dio: percorso organizzativo dalla fase pre-corona, alle procedure dell’isola-mento e ritorno.

Rapporto tra diffusione e caratteristiche ambientali ed organizzative (Personale) Ormai è noto che i vettori che condiziona-no la diffusione sono molteplici:

- Disponibilità DPI.

- Miglior utilizzo dei DPI e rispetto delle in-dicazioni dei comportamenti da adottare.

- Possibilità di isolamento: camera singola, area specifica, percorsi diretti e senza com-mistioni, protocollo isolamento ospiti. Le indicazioni del miglior isolamento consi-gliano la camera singola in un area con una casistica omogenea con accessi dedicati e definizione area pulita ed area sporca. Le disposizioni ministeriali nei documenti sottolineano sempre che se non possibile esiste sempre una seconda scelta.

- Utile l’ipotesi di un nucleo covid 19 posi-tivi ad uso interno.

- Un ulteriore caratterizzazione più volte evidenziata è l’organizzazione del per-sonale: attribuire personale dedicato alla stessa unità evitando che lo stesso dipen-dente possa svolgere alcuni servizi in una unità ed altri in un’altra, ma anche nell’am-bito di uno stresso servizio il passaggio tra due aree che accolgono tipologie di ospiti è possibile ma contempla rischi.

La storia continua: ormai si discute della Fase Due. Esiste la fase due anche per le RSA?È possibile ipotizzare in chiave attuale e di sicurezza il percorso inverso?Outcome finale: trasformiamo le RSA in nu-clei che accolgono ospiti asintomatici?Ed i focolai?

Considerazioni per Elementi strutturali: ogni RSA (anche polo) dovrebbe dotarsi di un’area con camere singole per il pronto in-tervento di accoglienza di ospiti sintomatici o covid positivi.

Protocollo DPI ed isolamento: mantenere sempre alta la guardia al rispetto di comporta-menti e uso dei DPI. Oltre alle simulazioni per l’evacuazione bisognerebbe ipotizzare anche formazione per la gestione dell’epidemia.

Sorveglianza sanitaria: pianificazione ese-cuzione tamponi agli ospiti e dipendenti. La sierologia se autorizzata sarà un volano per la sorveglianza sanitaria per ospiti e dipen-denti. Linee guida farmacologiche.

La pianificazione delle procedure assisten-ziali: gli obiettivi assistenziali e gli elementi caratterizzanti dell’assistenza in questi mesi sono passati in secondo piano per far po-sto alla diffusione dell’epidemia. Oggi è ne-cessario per ripartire, porre attenzione agli aspetti tipici degli obiettivi assistenziali in RSA: igiene periodica, mobilizzazione dal letto 4 volte die, alimentazione fuori dal let-to, controllo peso, controllo PV, valutazione nutrizionale ed idratazione, disfagia, control-lo cute, lesioni da decubito, cadute, fratture, parrucchiere, pianificazione incontinenza cronica, pianificazione evacuazione, deam-bulazione assistita mattino e pomeriggio, terapia al bisogno, disturbi del comporta-mento, revisione terapeutica, iatrogenesi e deprescrizione farmaci (spero di non aver dimenticato qualche aspetto).

Nelle settimane scorse si è dato indicazione alle unità ed in particolare alle CSA che a loro veniva affidato il compito di pianifica-re le attività in rapporto alle risorse ed alle operazioni che via via si compivano a segui-to del contrasto della diffusione.

PI e PAI: la valutazione multidimensionale va oltre le procedure assistenziali, l’équipe coordinata dal medico attraverso le valuta-zioni compreso le attese dell’ospite e fami-glia (alleanza) determina i PI ed il PAI.

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 87-89

Un’esperienza veronese

MARIA BEATRICE GAZZOLAVerona

[email protected]

Quando la pressione del nuovo Coronavirus SARS-CoV-2, alias COVID 19, ha iniziato ad allentare la presa sugli Ospedali qualcuno, forse, avrà tirato un sospiro di sollievo. In realtà è iniziata la vera sfida per il ter-ritorio. Sono un medico ma non un clinico: ho scelto di organizzare servizi e di lavorare sul territorio, cosa niente affatto facile e scontata in un ambito molto lontano da quello ospedaliero. Dirigo un distretto di circa 240.000 abitanti, con un indice di dipendenza senile (popo-lazione over 65/popolazione tra 0 e 64 anni) del 36,1 per cento che, è evidente, ha rappresentato il terreno fertile per veder crescere e consolidare negli anni 32 Centri Servizi per anziani per un totale di 2600 posti letto. Sì, noi non parliamo come in altre realtà italiane di RSA e abbiamo da tempo mandato “in pensione” la definizione di casa di riposo. Noi definiamo queste strutture Centri Servizi perché ognu-na di esse col passare del tempo si è riorganizzata e specializzata ad offrire servizi diversificati ai suoi ospiti dalla residenzialità definitiva, al centro diurno, al servizio di riabilitazione cognitiva. Moltissime di queste strutture hanno avviato programmi di assistenza a domicilio in partnership con i Comuni e nella mia realtà anche collaborando per l’assistenza infermieristica domiciliare.Sono molto cambiate con il tempo: oggi accolgono pazienti spesso molto impegnati e complessi dal punto di vista sanitario, che magari provengono anche da periodi di lungo ricovero ospedaliero. L’assi-stenza medica è garantita dalla Medicina Generale, non da Specialisti dipendenti dall’Ente, come accade in altre realtà della Penisola. Ov-viamente questo presenta luci ed ombre anche solo per il limite di presenza oraria del professionista in struttura. D’altra parte, proprio per questo, il personale infermieristico ha sviluppata una forte autonomia e capacità decisionale.Le scelte della mia Azienda hanno sempre orientato verso una forte collaborazione con le strutture: un “uniamo le nostre forze” per dare la risposta migliore a chi ha bisogno. Da tanti anni si lavora insieme in quest’ottica; all’inizio è stato difficile, ci si studiava, si cercava di capire se ci si poteva fidare ed affidare reciprocamente. Poi il Distretto e le sue strutture sono cresciuti insieme, sviluppando tanti progetti più o meno ambiziosi. Ad un certo punto in questo cammino sulla loro strada si sono imbattuti nell’Ospedale, che, dapprima timidamente poi con sempre maggior entusiasmo si è lasciato coinvolgere nell’avventura.

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88 MARIA BEATRICE GAZZOLA

È così che è nato, dalle menti illuminate e lungimiranti del Professor Trabucchi e del Dottor Borin, il progetto ARCA, acronimo che sta per Assistenza Ricerca e Cura per l’Anziano, progetto che ormai da una deci-na d’anni ha reso possibile, attraverso una serie di percorsi, anche relativi alla forma-zione del personale, condivisi e congiunti una forte integrazione ospedale-territorio. Abbiamo sviluppato insieme collegamenti con il Laboratorio Analisi, la tele cardiolo-gia, l’ecografia in Centro servizi, solo per citare i più rilevanti. Sono state condivise tra ospedale e centri servizi procedure, li-nee guida, istruzioni operative. Altro punto forte, in cui la Regione Veneto ci ha aiuta-to: ogni Centro Servizi, in convenzione con l’ULSS, ha un medico ULSS di riferimento, il Coordinatore, a prescindere dal fatto che la struttura sia una Fondazione o un’IPAB. Ma qual è il suo ruolo? Fondamentalmente è un facilitatore, un punto di riferimento e di supporto fisso per la struttura in qualsi-asi momento. Il Coordinatore agevola i rap-porti tra il Centro Servizi e l’Ospedale, la Farmacia, il Laboratorio, la Radiologia. Ma il ruolo del Coordinatore è ancor più impor-tante nei momenti critici. E come possiamo definire questo momento per le strutture per anziani? Criticità? Oh, sarebbe riduttivo, un eufemismo! Direi piuttosto un allarme rosso, ecco. Credo che tutti noi che lavo-riamo a vario titolo con e per il paziente anziano abbiamo espresso già alla fine di febbraio tutte le nostre preoccupazioni ed ansie nel pensare cosa sarebbe successo nel momento in cui il “maledetto” Covid si fosse insinuato in una struttura silenzioso, subdolo, strisciante, sfruttando le gambe di un inconsapevole operatore che, suo mal-grado, si sarebbe trasformato in un untore manzoniano A febbraio siamo stati tutti travolti da un treno in corsa: eravamo impreparati ad un evento del genere… la Cina era lontana, ap-prendevamo con sgomento quello che vi accadeva ma certo non pensavamo che di lì a poco avremmo subito lo stesso destino.

Infatti COVID 19 viaggia, eccome se viag-gia! Ed è arrivato. Tra febbraio e marzo le strutture hanno iniziato a prepararsi: fin da subito hanno chiuso i battenti, speranzose che questo bastasse a tener lontana l’infe-zione. Il problema era di altri, dei reparti ospedalieri, delle malattie infettive, delle rianimazioni. Intanto ci si preparava quasi senza aver chiaro a cosa. Abbiamo vissuto l’affannosa ricerca dei dispositivi di prote-zione: mille erano le ricette casalinghe per confezionare mascherine peraltro tutte di comprovata efficacia. Sul mercato si cer-cavano semplici mascherine chirurgiche e sovra camici: introvabili come merce rara. Abbiamo vissuto fino alla seconda metà di marzo nella falsa speranza che il virus si fermasse lì finché, senza bussare, è entra-to nella nostra prima struttura. Devo dire che l’evento, pur nella sua drammaticità, ha fatto emergere tutto quello che è stato se-minato negli ultimi quindici anni. Le prime febbri sospette e la contemporanea positi-vità al tampone di un operatore hanno fatto scattare l’allarme. E allora cosa fa il Coordi-natore? Supporta la struttura e la sua Dire-zione nell’identificare la strategia migliore. Contribuisce a pianificare la riorganizzazio-ne interna degli spazi con l’identificazione delle aree dedicate all’isolamento, i percorsi pulito/sporco, contatta gli esperti affinché venga impostato il protocollo terapeutico più adeguato in base alle patologie preesi-stenti del paziente, si preoccupa di contat-tare la Farmacia Ospedaliera per verificare se ci sono farmaci a sufficienza a coprire il fabbisogno, verifica se la quantità di DPI in struttura è sufficiente prevedendo il largo utilizzo dei giorni a venire, supporta i Colle-ghi di Medicina Generale della struttura e... soffre. Sì, soffre perché in quella struttura ci entra da tanti anni, conosce la gran parte delle persone che vi lavorano, e ora si rende conto della grande fatica che li aspetta, dello sforzo immane che li attende nelle prossime settimane. Percepisce entrando in struttu-ra, in un silenzio surreale perché le attività di animazione sono sospese da settimane,

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89UN’ESPERIENZA VERONESE

una sensazione di paura nei confronti di un ospite sconosciuto e temuto che proprio si sperava di non ricevere. Qualcuno, esausto, crolla in lacrime ma è un pianto liberato-rio, costruttivo, fatto di lacrime che hanno il sapore di una vitamina che riesce a dare carica a chi si vede innanzi un percorso lungo e pesante. Non siamo in Ospedale qui, no. Il medico non è presente 24 ore su 24, l’urgenza viene gestita dalla Continu-ità Assistenziale che non conosce i pazienti della struttura. Alcuni tra gli infermieri e gli operatori sono risultati positivi, qualcuno è anche sintomatico. Si cercano dei sostituti, che non sempre hanno esperienza con il paziente anziano e che, pertanto, vanno for-mati. Finalmente, da qualche giorno, sono arrivati i dispositivi di protezione. Finalmen-te! Il tempo è poco e bisogna imparare le tecniche di vestizione e svestizione che par-rebbero banalità ma che sono cruciali per evitare di infettarsi e di infettare.E poi arriva la grande avventura dei tam-poni: come i dispositivi, per logiche incom-prensibili (economiche? organizzative?), dapprima difficili da ottenere con pochi laboratori in grado di processarli e reagenti spesso insufficienti, talvolta poco affidabili per ritardi nei referti o per sensibilità non ottimale. Poi d’incanto la situazione si sbloc-ca e, come uno di quei vecchi diesel che avevano bisogno di un lungo riscaldamento prima di partire, la macchina si avvia.Certo, ogni esperienza ci insegna qualcosa. Oggi, anche se sicuramente non sarò esau-stiva perché domani sarà diverso come pure le scelte per le quali opterò potranno essere differenti da quelle delle settimane passate, ho capito che con il Coronavirus:

- affidarsi in modo totale ai test di labora-torio, come è successo in molti casi per la pressione dell’opinione pubblica, della stampa e dei decisori, può diventare pe-ricoloso, specie se di quei test non co-nosciamo bene la sensibilità o ci viene descritta un’affidabilità superiore al reale;

- durante un’epidemia, le transizioni dall’O-

spedale verso i Centri Servizi, anche a fronte di una negatività di un tampone, sono fonte di pericolosi contagi in una popolazione fragile ed immunodepressa: in pratica devono essere evitati!

- che in questo ambito ogni ora di forma-zione vale oro. Neppure l’organizzazione ospedaliera era preparata sulle modalità di gestione di una malattia ad elevatissi-ma contagiosità e questo spiega anche i tanti contagi tra il personale sanitario. La stessa cosa è accaduta ovviamente nelle strutture, dove la carenza di personale ha rischiato di mettere in seria difficol-tà l’assistenza. Pensavamo che le malattie infettive fossero un retaggio del passato in realtà, è evidente, sono presentissime ed è necessario investire in formazione in modo organizzato e sistematico per il futuro;

- che investire su una forte integrazione Ospedale-Territorio è stata una scelta vincente: l’identificazione di sinergie e modalità di trasmissione di esami, ECG e radiologia. Non possiamo e non dobbia-mo fermarci. Bisogna avere la possibilità di utilizzare maggiormente le nuove tec-nologie informatiche, predisporre oppor-tunità di teleconsulto, trasmettere imma-gini a distanza in modo tale da evitare al massimo i trasferimenti di un ospite dalla struttura all’Ospedale, in particolare ver-so il Pronto Soccorso. Sì, perché i nostri fragili anziani, come delicate sculture di cristallo, ad ogni spostamento corrono un grave rischio, che diventa enorme durante un’epidemia.

La mia speranza è, che quando tutto que-sto migliorerà o passerà, la lezione che il Coronavirus ci ha impartito porti a ripen-sare l’organizzazione sia dell’ospedale che delle strutture, perseguire il cambiamento anche con l’utilizzo di nuove tecnologie a basso/medio costo, preparare tutti noi ad affrontare nuovi problemi e nuovi bisogni. Ma soprattutto ad essere migliori.

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 90-92

La forza della Tenerezza

RENATO BOTTURAMantova

[email protected]

Signor Coronavirus, ti scrivo una lettera.Lavoro da 41 anni come medico geriatra in una grande Casa di Riposo della città, la Fondazione Mazzali.Guardiamoci in faccia, io e te, giovane virus rampante, velocissimo, con-tagiosissimo, apparentemente neppure così cattivo (si dice che uccidi 10 persone su 100 che infetti). Questo è vero, ma gli Infettivologi , i Virologie pure gli Epidemiologi questa volta probabilmente non si sba-gliano. Gli scienziati, per fortuna, ti hanno già fotografato, sequenziato, radiografato nella tua struttura maleficamente bella e floreale, e pure studiato, inquadrato e sequenziato il tuo DNA. Ma hai ancora un po’ di tempo a tua disposizione per terrorizzarci.La tua arma principale infatti è infonderci paura, a volte panico, altre terrore. Ma sia la paura, sia il panico sia il terrore appartengono al tuo “regno del Male”. Noi invece, vogliamo accasarci nel nostro “Regno del Bene”. Ma come faccio a dire una cosa così assurda quando io stesso vivo pienamente l’emergenza Covid anche qui con i miei anziani che fra l’altro sono i più fragili e aggredibili da te? Quando i famigliari non possono purtroppo venire a trovarli? Quando a tutti gli anziani fragili è stato giustamente vietato di uscire di casa per colpa tua? È un para-dosso tutto questo! Come faccio a intravvedere Luce quando ci sono solo tenebre? Speranza dove c’è disperazione? In questi casi anche la mia fede vacilla. E ne ho tutti i motivi. Certo, se avessi una fede come le montagne non dubiterei un attimo, se la speranza fosse cristallina e piena e non solo uno sbiadito e irrealistico ottimismo, bè, già molto cambierebbe.Ma la tua forza, signor Coronavirus, è proprio quella di scoperchiare le nostre fragilità di Fede, di forza fisica e mentale, di Speranza vera e ma-tura. E ancor più di dividerci. E sembra che tu ci stia riuscendo.E allora che ci resta? Qualcosa ci resta! E cambia tutto.Ci resta la Carità, quella di cui dice la Parola “la più grande delle tre.”La Carità e la Tenerezza ci stanno salvando. Mi piace infatti scomodare quest’altra parola che amo, che come un satellite fedele ruota attorno a sua maestà l’Amore maiuscolo (Dio): la Tenerezza. I miei vecchi da sempre me la elargiscono a piene mani. Ma in questi giorni drammatici, pur nel crescendo del disagio e delle angosce di tutti, sembra che, no-

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91LA FORZA DELLA TENEREZZA

nostante tutto, la tenerezza cresca sempre di più.Infatti la solitudine dei vecchi sta diventan-do per chi è a casa l’opportunità ulteriore di dire un Rosario in più, di fare una telefonata all’amica lontana, o “coccolare i vasi di fiori sul piccolo davanzale di casa, o prepararsi un pranzetto speciale giocando con i fornel-li….Tutto questo perché viene a mancare il giretto fuori casa per comprare il pane o il giornale, o la gioia di prendersi un cappuc-cino caldo al bar, o la messa domenicale, o la gratificante seduta dalla parrucchiera, o l’incontro con le amiche sulla panchina…Ma i vecchi, appunto, sanno trovare fiori dal letame. C’è un altro aiuto potente che il Signore, con la Sua Tenerezza, ci dona: la preghiera per gli altri. Ho preso in mano il cellulare e ho mandato a tutte le suore , ordini religiosi, amiche, amici di preghiera, l’implorazione di pregare per questi straordinari operato-ri della salute e per i malati infettati ( ma anche per gli altri!!). Ho ricevuto risposte gioiose, una tenerezza di preghiera vera, co-stante, sicura, abbondante. Questa è la forza della Tenerezza!Ma ci manca anche la presenza fisica col ma-lato. Mascherina, guanti, divisioni fisiche per ridurre il contagio ci obbligano a ridurre i contatti di corpi e ad allontanarci di almeno di un metro ( tranne i “fortunati” come i me-dici, gli infermieri, le operatrici di reparto, i caregiver famigliari a casa, le badanti che devono usare per forza carezze, dolci mo-vimenti per cambiare posture o imboccare, o eseguire visite o manovre assistenziali). E si scopre così la potenza del corpo, che non solo parla con le parole, ma anche con i gesti, gli sguardi ( quelli sì, restano tutti!), i sorrisi, le battute, gli ammiccamenti, qual-che risata per detendere l’ansia reciproca. Tutto ciò è tenerezza.C’è pure un’altra tenerezza che prepoten-temente sta crescendo. Il sentirsi insieme,

capire quanto il mio collega sia importante, complementare, quanto sia bello prendere il telefono e avere un’intelligente risposta dello specialista dell’ospedale dall’altra par-te del filo…Ieri in Reparto, vedendoci lavorare insie-me, aiutandoci, confortandoci a vicenda, ci siamo sentiti una cosa sola. E così ho ricor-dato, come un flash d’amore, i miei africani poveri, che trovano senso e fiducia recipro-ca, pur nella penuria del vivere, dallo stare sempre insieme. Condividere la sofferenza insieme ne cambio segno e senso.Eppoi ci sono gli appuntamenti delle 12 e delle 18 sui davanzali a cantare, abbozzare una danza, esporre bandiere, salutarsi, a li-berare quella italianità generosa fatta di leg-gerezza e allegria.Ma pensate poi che i miei amati vecchi sia-no così soli al Mazzali? Signor Coronavirus, ne hai separate tante di persone, ma non i miei vecchi ricoverati. Un infermiere che passa, un educatore che ti fa parlare col ta-blet con i tuoi famigliari, un medico che ti ascolta, un giovane del Servizio Civile che spinge la carrozzina, un’operatrice che ti cambia il pannolone, la signora in carrozzi-na di fronte a te…C’è poi la tenerezza di migliaia di infermie-ri, medici, specialisti nelle rianimazioni, portantini che spingono i letti con le ro-telle da un reparto all’altro, volontari sulle ambulanze, o quelli che portano la spesa a casa di anziani soli, o rispondono al telefo-no per confortarti, o ti allungano i farmaci o le mascherine, Carabinieri che ti portano la pensione a casa e di questi nessuno più che guarda l’orario del cartellino ma solo il bisogno di chi soffre….Signor Virus, volevi dividerci (come ben sa fare il tuo maestro “ il Male”), ma mi sem-bra che non ti stia venendo bene. Perché ci sono le videochiamate, i telefonini, i mes-saggi verbali, e c’è pure tanta ilarità e co-micità che ti fa qualche sgambetto, e pure

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92 RENATO BOTTURA

sta nascendo una solidarietà transnazionale, come i cinesi che donano mascherine agli ospedali…Non sappiamo se tu avrai un colpo di coda per farci ancora del male. Ciò può accadere. Ma ci stiamo attrezzando bene: la Tenerez-za sta, pian piano, sottotraccia, riannodando legami, sprigionando solidarietà, regalando empatia a distanza, tirando fuori il meglio di noi.Lo sento, lo vedo, ne sono certo. Il tuo regno di terrore ha i giorni contati.Sta nascendo, se pure a fatica, l’ipotesi di un futuro nuovo: l’aria più pulita che ci hai regalato, tuo malgrado, a causa delle po-che macchine che ci hai costretto ad usar, ci fa capire che dopo di te dovremo anda-re meno in macchina, godere di più di ciò

che ci hai tolto, essere sempre pronti a tuoi eventuali ritorni di fiamma, sentirci più uni-ti, abbattere barriere, sentirci un popolo uni-co, spendere soldi per la salute e non per le armi, rimettere il debito ai poveri, condi-videre le conoscenze scientifiche, abbattere le reciproche diffidenze, mettere al bando le guerre, ridare valore ai migranti, abbattere le diseguaglianze, sentirci fratelli e non nemici, ascoltare di nuovo i Profeti dell’oggi, come Papa Francesco o il Presidente dell’ONU…. Basta retorica, mi avete capito.Tenerezza, il tuo potere è silenzioso, leggero, rispettoso, ma, come i fiumi carsici, avanza sotterraneo ma inesorabile, già rinfrescando e nutrendo le nostre radici del cuore che sta passando da pietra a carne.Questa sarà la tua vera definitiva sconfitta.

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 93-94

Le case di riposo: esperienze di crisi

ETTORE MUTIMantova

[email protected]

In questo arco di tempo che va dai primi di marzo al 20 aprile 2020, l’accavallarsi di situazioni, vissuti, riflessioni, tentativi è stato caotico e arrembante. Le Case di Riposo in Italia e in particolare in Lombardia si sono trovate, loro malgrado, nell’occhio del ciclone. Come fare ordine e al contempo offrire riflessioni e proposteCi provo.Intanto siamo di fronte ad un oblio generalizzato.L’etimologia delle parole però ci aiuta. Esperienza dice il vissuto men-tale, concreto di un evento accaduto. È la prima volta che una realtà ci si mostra così aggressiva e al contempo variegata e rapida nel suo disvelarsi.Variegata, perché il Covid ci ha costretto a rispondere contemporane-amente a situazioni così diverse: il numero delle persone coinvolte è stato massiccio ,la pandemia si è palesata in molti anziani contempo-raneamente, obbligando il Personale delle RSA a organizzare in tempi rapidi reparti Covid, reperire i DPI, gestire le complessità cliniche pre-cedenti (polipatologia e co-morbilità), allettamento, demenze, deliri… con in più il contagio virale del Covid, e dovendo controllare nello stesso momento parametri, sintomi nuovi e diversi, richieste numerose, inedite e contemporanee.Occorrevano risposte rapide a problemi numerosi che i malati presen-tavano, su piani diversi (polipatologia, sintomatologia, bisogni concre-ti e inediti, perdita di autonomia, terminalità), con nuovi strumenti (i DPI, procedure non conosciute prima, necessità di risposte in Equipe e spesso con tempi di programmazione ed esecuzione risicati).Occorrevano risposte rapide da dare ai famigliari, costretti fin da subito al distanziamento dai loro cari, hanno portato pesi psicologici onerosi, affamati di risposte, che non sempre il personale riusciva a dare loro (quante risposte al telefono delle IP, quanti Skype e Whatsapp degli educatori, che per questo a volte si contagiavano). Era necessario per-mettere agli operatori (medici, infermieri, ASA OSS fisioterapisti, edu-catori, operatori delle pulizie, dell’Amministrazione, delle cucine, dei Servizi di Manutenzione e del Guardaroba, nella polimorfa varietà dei servizi così diversificati tutti chiusi in questo periodo compresi i CDI le

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94 ETTORE MUTI

RSA aperte, l’ADI, gli ambulatori e il CDCD) quasi sempre in numero inadeguato, di or-ganizzarsi, e apprendere metodologie nuo-ve.E la rapidità ha costretto tutti i gli operatori a offrire attività frenetiche, perdita di luci-dità, qualità di lavoro a volte inadeguata e contraddittoria, orari di lavoro senza limiti. Al netto di tutto ciò va riconosciuto che l’impegno degli operatori nelle RSA è stata encomiabile, a volte eroico (ma questo lo si diceva solo per i medici ospedalieri e gli IP e noi medici di serie B della Geriatria siamo stati equiparati ad assassini?).Il Covid non era solo degli “altri” ma pote-va essere anche “cosa mia”. Per questo ab-biamo deciso di tamponare tutti gli Ospiti e tutti i Dipendenti che lo volessero. Ci è sembrata una scelta corretta e il punto di partenza di programmazione e diagnosi cor-rette. So che non tutte le RSA hanno fatto così, né spesso neppure l’Ospedale.Una doppia battaglia. E la buona volontà, la voglia di imparare e apprendere cose e pro-cedure nuove (vestirsi come gli astronauti!), l’abnegazione, la disponibilità non sono mai mancate, né si sono mai ridotte col passare dei giorni.Insomma, esperienze di caos, pian piano tra-sformate nella convinzione di fare tutto ciò che si poteva.Credo che la crisi, l’altra parola chiave, sia stata, nonostante tutto, affrontata e superata con grande capacità. Se è vero che la parola crisi significa “passaggio”, “crinale”, posso orgogliosamente affermare che gli operato-ri della RSA hanno superato la prova, “scol-linando” e passando dal caos, all’ordine, da un mix di problemi irrisolti, alla chiarezza di risposte chiare e consolanti. Dobbiamo ringraziare questa drammatica realtà del Co-vid, perché, paradossalmente, ha permesso ai medici di cercare soluzioni nuove (all’ini-zio senza DPI si inventavano protezioni con

cellophane, visiere rudimentali, frequente lavaggio delle mani… di serie B), geriatri infermieri Asa Oss tutti in trincea, per supe-rare gli ostacoli, trovare soluzioni nuove, la-vorare in équipe in modo ancor più serrato come mai era successo prima, adeguarsi a nuovi ritmi, organizzazioni, richieste.La vera vittoria però, dopo la crisi, ha due protagonisti: solidarietà e unione.La prima è stata il carburante necessario per scatenare generosità, gesti concreti, stru-menti di lavoro (quanti DPI sono stati dona-ti dai cittadini alle RSA!) e ciò ha permesso di lavorare meglio e insieme.Il secondo è stata la consapevolezza che il Covid sarebbe stato sconfitto, che la crisi sa-rebbe stata superata solo dall’apprendimen-to di un lavoro da svolgere insieme, unendo le diverse forze, competenze, talenti e pro-fessionalità. Siamo geriatri più competenti di prima. Tante riflessioni e studi ci vengono offerte per il futuro.Dobbiamo continuare ad essere angeli a fianco dei nostri “ultimi” anziani ammalati e dei loro famigliari, per caricarci delle loro sorti e del loro patire.Un’ultima riflessione di profilo etico me la concedo (al di là e oltre il tema RSA), che ha coinvolto tutti: il vissuto post-mortem.Il virus ci ha scippato anche questa decisiva esperienza umana che è il morire, la morte e il commiato per chi muore. Ci ha rubato la ritualità religiosa (l’incenso, la Messa e la Parola, la predica), o civica, il cordoglio, le lacrime, la solidarietà, la presenza al capez-zale, i ricordi condivisi, l’attesa più o meno lunga del suo morire, il lutto e la sua succes-siva elaborazione, la preghiera al suo fianco, la benedizione, l’accompagnamento al suo ultimo viaggio, alla sepoltura, il prete, i pa-renti, gli amici, le chiacchiere….. È la cosa più grave di questo dramma. Covid, cosa vuoi ancora rubarci?

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 95-99

Le Residenze per Anziani al tempo del Coronavirus

ERMELLINA SILVIA ZANETTIBrescia

[email protected]

Introduzione

La pandemia di COVID-2019 ha portato a una drammatica crisi del si-stema sanitario italiano, sia nelle cure primarie, a lungo termine che acute. La già fragile integrazione dei servizi di assistenza è completa-mente crollata sotto la diffusione del coronavirus. Gli ospedali hanno chiuso al loro interno per limitare la diffusione del virus, mentre le strutture di assistenza post-acuta/a lungo termine hanno ridotto i ri-coveri temendo la possibile contaminazione proveniente dall’esterno (Cesari M. e Proietti M., 2020).Nelle circa 4630 Residenze per Anziani italiane sono accolte oltre 300.000 persone caratterizzate da età avanzata (età media all’ingresso 86 anni), multimorbidità, disabilità, demenza e fragilità che vivono in stretta vicinanza l’una all’altra. La mission delle Residenze è accogliere le persone in un ambiente protetto e protesico, facilitare la socialità, gli interessi personali, le relazioni con i propri cari e il benessere e as-sicurare cure qualificate e costanti per gestire le malattie croniche ed evitare un eccesso di disabilità. Per le residenze per anziani, la pandemia COVID-19 ha richiesto rapi-di cambiamenti nell’organizzazione della quotidianità e dell’assistenza agli anziani fragili che hanno un rischio più elevato di esiti gravi e av-versi da COVID-19, a causa sia della loro età avanzata sia delle frequenti condizioni di salute croniche sottostanti (Dosa D. et al., 2020). I primi report documentano che il tasso di mortalità per le persone con più di 80 anni, che costituisce quasi la totalità dei residenti nelle strutture italiane, è superiore al 15% (McMichael T.M. et al, 2020).Secondo i risultati di una Survey promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, in un campione di 1.082 residenze per anziani per complessivi 80.131 residenti, dal 1° febbraio al 14 Aprile 2020, sono morti 6.773 (8,5%) anziani. In Lombardia la regione italiana con il maggior numero di decessi pari a 142/100.0001 abitanti, in un campione di 266 (su 668) Residenze e 24.100 residenti, sono deceduti nello stesso periodo 3.045 (12,6%) residenti. Di questi solo 166 avevano eseguito il tampone e

1 Dati forniti dal Ministero della Salute/Protezione Civile aggiornati al 4 maggio 2020

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96 ERMELLINA SILVIA ZANETTI

1.459 avevano sintomi di tipo influenzale per un tasso di letalità sul campione riferi-bile a COVID-19 pari a 6,7% (Istituto Supe-riore di Sanità, 2020). Il dato è certamente sottostimato: ad oggi conosciamo la morta-lità che si è verificata nelle 65 Residenze di Bergamo dove dal 1° gennaio sono morti 1.998 ospiti sui 6.095 totali, pari al 32,8%. Nelle 668 Residenze della Lombardia negli anni 2017 e 2018 il tasso annuale di decessi era pari al 21% (Monteleone A., 2019). Dati di letteratura documentano che negli Stati Uniti in un campione di 4.226 casi COVID-19, il 31% dei casi, il 45% dei rico-veri, il 53% dei ricoveri in terapia intensiva e l’80% dei decessi associati a COVID-19 si sono riscontrati negli adulti di età ≥65 anni, con la più alta percentuale di esiti gravi tra le persone di età ≥85 anni (CDC COVID-19 Response Team, 2020).Questa introduzione era necessaria per in-quadrare l’impatto della pandemia nelle Strutture per anziani. L’8 marzo il network di Aprire ha ricevuto da alcune strutture del nord Italia (Lombardia, Veneto, Trento) la segnalazione di difficoltà nel reperire in-formazioni utili a contenere la diffusione di COVID-19 nel contesto delle Residenze, e carenza di Dispositivi di Protezione Indivi-duale (DPI). Ci siamo attivati sia per tradurre le racco-mandazioni di agenzie Internazionali adat-tandole al contesto italiano2 sia per reperire (con grande difficoltà) i DPI. Successiva-mente ho avuto l’opportunità di entrare in alcune strutture bresciane come volontaria e da questo mio punto particolare di osser-vazione voglio narrare quanto è accaduto.

Vietato l’ingresso

Per la prima volta nella storia delle Residen-ze per Anziani le strutture vengono chiuse a

2 https://www.aprirenetwork.it/book/emergenza-covid-19-prevenzione-e-gestione-nelle-rsa/

parenti, visitatori e familiari. Cancelli chiu-si, avvisi perentori “Vietato l’Ingresso”. Le giornate si fanno più lente, più vuote di pre-senze che gli operatori cercano di colmare. Sono i primi giorni della pandemia, nei quali ancora tutti speravano che fosse “poco più di un’influenza”. L’Italia, e in particolare la Lombardia, dopo la Cina sono rispettiva-mente la prima Nazione e la prima Regione a fare conoscenza di SARS-Cov-2, un nemico subdolo ed invisibile che nei giorni a segui-re dimostrerà la sua capacità di stravolgere la vita di tutti.

Silenzio e solitudine

Ciò che più mi ha colpito entrando nel-le strutture è stato il silenzio, amplificato dall’assenza dei suoni della città deserta. Gli ospiti sono quasi tutti nelle loro stanze (molti isolati perché positivi o sintomatici), gli operatori parlano piano e poco: le ma-scherine rendono difficoltoso parlare e il suono è attutito. Gli spazi comuni e i giar-dini in piena fioritura sono deserti. Tutti gli spazi dedicati alle attività di gruppo, le sale da pranzo, i luminosi soggiorni perfettamen-te in ordine sembrano aspettare che un suo-no qualsiasi li abiti. Silenzio.Sono soli gli ospiti, in particolare coloro che sono isolati, e si sentono soli gli operatori. Dopi i primi giorni di grande operatività per riorganizzare la struttura e l’arrivo dall’e-sterno di tanti segni di incoraggiamento e ringraziamento, come i disegni dei bambi-ni con arcobaleni, fiori e parole di speran-za, adesso si contano i morti. Tanti rispetto agli stessi mesi degli anni precedenti. “Per noi non sono numeri, sono persone di cui conosciamo la vita, gli affetti, i nomi dei loro figli e nipoti” racconta una coordina-trice piangendo. Gli operatori in silenzio ricompongono le salme dei defunti: un telo intriso di soluzione disinfettante e un sac-co di plastica avvolgono le spoglie mortali, come da nuova triste procedura imposta

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97LE RESIDENZE PER ANZIANI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

dalla pandemia. Li accompagnano nella cap-pella o nell’obitorio dove gli operatori delle imprese funebri si occuperanno del resto. Nessun familiare cui esprimere il cordoglio: si va e si torna in silenzio. In un solo turno può capire più volte. Anche tra gli operatori alcuni hanno febbre, altri paura: con le prime assenze cresce il ti-more di chi è in servizio di non farcela ad ar-ginare il dilagare dell’epidemia e a risponde-re ai bisogni di cura e assistenza degli ospiti sintomatici. Si lavora anche 12 ore al giorno e alcuni decidono di non rientrare nella pro-pria casa per la paura di infettare i propri figli, i propri compagni. In una struttura la protezione civile porta delle brandine e al-lestisce un “dormitorio” che ricorda i vecchi convitti delle “scuole per infermiere”: ordi-ne e silenzio. Un isolamento forzato che per alcuni operatori durerà due mesi.

Difficoltà e sconforto

Arrivano i primi titoli sui giornali che parla-no di inchieste, di colpe. Gli operatori non sono arrabbiati, ma offesi. Hanno affrontato molte difficoltà e subito differenze che ai loro occhi appaiono come ingiustizie: per gli ospiti e per loro stessi nessuna possibi-lità di fare tamponi fino ad aprile inoltrato, nonostante le proteste delle associazioni dei gestori, dei sindacati e dei sindaci. Un grave errore che ha facilitato la diffusio-ne del virus nelle residenze e nel territorio. In alcune strutture gli ospiti hanno manife-stato i sintomi di COVID-19 un mese dopo la chiusura totale della struttura. Gli opera-tori sono consapevoli di essere stati loro involontariamente a trasmettere il virus ai loro ospiti. I pochi DPI che sono riusciti a recuperare non hanno protetto loro (il 40% scoprirà di essere positivo e qualcuno si am-malerà seriamente) e non hanno protetto gli ospiti: la mascherina chirurgica, inizial-mente raccomandata (World Health Orga-nization, 2020; Istituto Superiore di Sanità,

2020a), si scoprirà essere insufficiente in tutti i contesti caratterizzati da elevata diffu-sione del virus e dalla necessità di assistere la persona per oltre 15 minuti consecutivi a distanza ravvicinata (Istituto Superiore di Sanità, 2020b). Quasi tutti gli ospiti hanno bisogno di essere lavati, cambiati, mobilizza-ti più volte al giorno e ciò richiede tempo ed è impossibile mantenere la distanza fisi-ca raccomandata (>1 metro) per ridurre il rischio di contagio. Serve la semi maschera filtrante facciale (FFP2) (Istituto Superiore di Sanità, 2020b) che alcune strutture rie-scono ad avere a costi esorbitanti e in nu-mero non sufficiente per assicurarne la cor-retta sostituzione dopo un turno di lavoro. Gli ospiti con COVID-19 sono stati assisti-ti all’interno delle strutture, non vi era al-cuna possibilità di invio in ospedale per il noto sovra afflusso che si è verificato sin dai primi giorni di marzo. Una ennesima ingiu-stizia, una disparità di trattamento nei con-fronti degli ospiti che ha trovato un pò di conforto nella possibilità, per gli operatori delle strutture, di accompagnare gli ospiti fino all’ultimo respiro. Anche per i familia-ri, che dai media apprendevano della mor-te in solitudine di persone ricoverate negli ospedali, la certezza che accanto ai loro cari ci fossero gli operatori, volti e nomi a loro noti, ha reso meno drammatica l’impossibi-lità di potersi congedare. Non sappiamo se questo sia stato di conforto anche per gli ospiti, ma certamente sappiamo che coloro che li hanno assistiti sono rimasti loro ac-canto e li hanno chiamati per nome sino alla fine. Anche adesso, risolta la pressione sugli ospedali, molti familiari contattati dai medici in merito all’eventuale necessità di un ricovero in ospedale, chiedono che sia fatto tutto il possibile in struttura.

Un nemico subdolo

Nella ricorrenza del 25 Aprile alcuni ospiti scampati al contagio e riuniti, nel rispetto

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della distanza fisica, nel soggiorno di un nucleo “no Covid” indossando la mascheri-na chirurgica, hanno ripercorso gli eventi tragici che hanno preceduto la liberazione. Una signora con l’esperienza dei suoi 100 anni ha paragonato il nemico da combatte-re di allora con il coronavirus, affermando che quest’ultimo è più pericoloso perché invisibile e subdolo. E aveva perfettamente ragione. Pochi giorni prima il New England pubblicava l’articolo di Arons e l’editoriale di Gandhi che confermavano che anche tra gli ospiti, oltre che tra il personale, più del-la metà (56%) dei residenti risultati positivi al tampone erano asintomatici al momento del test e molto probabilmente avevano contribuito alla diffusione del virus. Sebbe-ne gli autori non siano stati in grado di chia-rire retrospettivamente specifici eventi di trasmissione da persona a persona, e sebbe-ne l’accertamento dei sintomi possa essere difficile in un gruppo in cui più della metà dei residenti ha un deficit cognitivo, questi risultati indicano che i residenti asintomati-ci svolgono un ruolo importante nella tra-smissione di SARS-CoV-2 (Arons M.M. et al., 2020; Gandhi R.T., 2020).Nelle strutture la ricerca dei casi e il loro successivo isolamento si basava sulle indi-cazioni della World Health Organization (2020) che dichiarava che pur essendo pos-sibile la trasmissione del virus da persone infette, ma ancora asintomatiche, ne sottoli-neava la rarità.

Un futuro da (ri)costruire

Mentre lentamente la situazione epidemio-logica sembra indicare la fine della pande-mia nel nostro paese, ci si chiede cosa ci riserva il prossimo futuro. C’è molto da fare a partire dal riprendere tutte le attività che caratterizzano le Residenze e le rendono luoghi di vita per le persone con gravi di-sabilità funzionali e cognitive. Appena pos-sibile si riapriranno le strutture ai familiari:

sebbene a distanza e con la mascherina sarà possibile sostituire le videochiamate, unico tramite oggi tra gli anziani e le loro famiglie, con gli sguardi, le parole, i sorrisi e le lacri-me di gioia. “Il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni” (Giordano P., 2020): ci sono da ricostruire le reti, di cui le Residen-ze hanno drammaticamente sperimentato l’assenza durante questa pandemia, e l’inte-grazione dei servizi di assistenza, già debole e completamente crollata sotto la diffusione del coronavirus.La proposta di chiudere le Residenze, po-tenziando le cure domiciliari ed erogando incentivi economici alle famiglie, pubblica-ta su più organi di stampa appare ad oggi poco realizzabile. Sempre più frequente-mente l’istituzionalizzazione arriva dopo l’attivazione di altri servizi (assistenza do-miciliare o assistenza privata, centri diurni e case-famiglia) e riguarda gli ultimi anni (circa due anni e mezzo) di vita. I bisogni degli ospiti sono sempre più complessi e ri-chiedono personale qualificato: oggi lo skill mix nelle Residenze della Lombardia preve-de 1 solo infermiere per 30, 40, 60 ospiti. Gli infermieri sono presenti nelle 24 ore, assi-curano la somministrazione delle terapie e, con la collaborazione di tutti gli operatori, l’assistenza e il monitoraggio delle condi-zioni cliniche degli ospiti. Ne servirebbero almeno il doppio e, tra questi, alcuni con formazione specialistica in geriatria per la pianificazione e la gestione dell’assistenza agli ospiti più complessi.In assenza del vaccino vi è la concreta pos-sibilità di una nuova epidemia nel prossimo autunno: abbiamo pochi mesi per preparar-ci e sarà una fase particolarmente delicata, per non ricadere negli errori commessi (Leung K. et al., 2020). Anche le Residenze si devono preparare, ma non lo possono fare da sole, ma all’interno di un progetto condiviso con le realtà del

ERMELLINA SILVIA ZANETTI

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proprio territorio che preveda la possibilità di eseguire il test (il più sensibile e specifi-co tra quelli che avremo a disposizione) a ospiti e personale, adozione di protocolli di isolamento e di trattamento dei casi con la possibilità di avvalersi della consulenza (an-che a distanza) di infettivologi e palliativisti, possibilità di rifornirsi di DPI come qualsi-asi altra struttura della rete, un ospedale di riferimento cui rivolgersi qualora vi fosse la necessità di un ricovero.

Le Residenze non vogliono più essere dei castelli assediati (Trabucchi M. e De Leo D., 2020), ma strutture pienamente inserite nel-la rete dei servizi.

Ore 18 di una bella giornata di maggio, una coordinatrice prima di lasciare la struttura dopo 11 ore di lavoro si prende cura dei vasi di fiori che ha posto su un muretto del chiostro: appartenevano agli ospiti che il COVID-19 si è portato via.

LE RESIDENZE PER ANZIANI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 100-102

3. I malati a casa

La cura dei malati a casa: luci e ombre. La prospettiva di un medico di famiglia

GERMANO BETTONCELLIBrescia

Mentre in Lombardia le cure primarie erano concentrate nella com-plessa attuazione della legge 23 di riforma della sanità regionale, volta a definire un nuovo modello di presa in carico dei pazienti cronici, improvvisamente un’acuzie di straordinaria e tragica violenza, la pan-demia da COVID-19, ha resettato le priorità di tutto il sistema sociosa-nitario. Quanto è accaduto e ancora sta accadendo, può essere oggi descrit-to solo in forma quasi esclusivamente narrativa, stante la perdurante estrema difficoltà di comprendere gli aspetti biologici e clinici della malattia, insieme all’incertezza delle istituzioni responsabili nel deline-are una chiara e razionale strategia di intervento.Il primo tremendo impatto si è abbattuto sugli ospedali, facendone emergere di colpo straordinari limiti di recettività a fronte di numero-sissimi pazienti gravissimi, acuiti improvvisamente, bisognosi di un’as-sistenza intensiva e tempestiva. Il tutto in assenza di specifiche terapie efficaci, ad esclusione delle cure di sostegno al respiro ed al circolo. Sul territorio, nel mentre, i medici di famiglia incontravano, soggetti senza sintomi ma con paura di ammalare, pazienti con sintomi lievi ma di incerta interpretazione, altri con sintomi COVID-19 compatibili e tra questi taluni in evoluzione rapida e gravissima. Il tutto sotto l’incombente minaccia del rischio personale per il medi-co stesso, con la necessità di disporre di adeguati presidi protettivi e la drammatica constatazione della loro indisponibilità. Una prima distri-buzione di dispositivi, consistente in 3 mascherine FP2, una scatola di guanti e 2 tute, è avvenuta quando già i casi noti o sospetti sul territorio erano molto numerosi. Il numero di medici morti per COVID-19 testi-monia quanto le conseguenze di questa ingiustificabile carenza siano state tragiche. La gestione a domicilio di questi pazienti, come del resto raccomandato dalle disposizioni delle agenzie sanitarie, è avvenuta prevalentemente per via indiretta, tramite contatti telefonici o per e-mail e con la tenuta di una scheda riportante i dati clinici più rilevanti, trasmessa giornal-mente al medico dal paziente e dal medico restituita con commenti e consigli. Contemporaneamente venivano attivati finalmente quei siste-mi di ricettazione elettronica, da anni promessi e finora mai realizzati.

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101LA CURA DEI MALATI A CASA: LUCI E OMBRE. LA PROSPETTIVA DI UN MEDICO DI FAMIGLIA

Il medico generale dispone, tradizionalmen-te, di due principali risorse per affrontare le condizioni cliniche che giungono alla sua osservazione, compreso il COVID-19: un’ac-curata anamnesi e l’esame obiettivo integra-to dalla rilevazione di alcuni parametri tra cui la saturazione di ossigeno. Purtroppo sia la sintomatologia accusata dal paziente, sia i segni rilevati all’esame obiettivo, a causa del carattere aspecifico dell’infezione da Covid19, non aiutano nella diagnosi. Infat-ti l’80-85% delle forme lievi di coronavirus non si discosta clinicamente dalla sintoma-tologia delle comuni sindromi influenzali stagionali: febbre superiore a 37,5°C, tosse secca, rinite, mal di gola, intensa astenia ecc..Alcuni pazienti, in genere anziani, specie se con comorbilità, hanno presentato un’evo-luzione incontrollabile della febbre, spesso altalenante, un peggioramento progressivo, talora repentino, della dispnea e della sa-turazione di ossigeno. In altri casi invece il calo pur marcato della saturazione non si accompagnava alla dispnea. Altri sintomi concomitanti all’infezione da COVID-19 hanno contribuito a complicare l’interven-to del medico di famiglia, rendendo intrica-ta la diagnosi e complesse le decisioni as-sistenziali: disturbi gastroenterici, cefalea e sintomi neurologici in particolare anosmia e disgeusia, disturbi psichici, metabolici... I farmaci inizialmente prescritti a questi pa-zienti sono stati soprattutto il paracetamolo per la febbre e alcuni antibiotici, ovviamen-te in grado al massimo di evitare sovrap-posizioni batteriche, ma non di influire sul decorso dell’infezione virale. La prescrizio-ne domiciliare di ossigeno di soccorso ha dovuto fare i conti con la scarsità di tale presidio presto registrata nelle farmacie. Nel contempo la letteratura medica sforna-va in continuazione le ipotesi, le proposte e i suggerimenti più disparati, il tutto acco-munato dall’assenza di consistenti evidenze scientifiche.

Nelle fasi di maggior accanimento della viremia non raramente la richiesta, anche pressante, di ospedalizzazione del pazien-te da parte del medico, non veniva accolta stante la completa saturazione dei posti let-to disponibili.Le conseguenze psicologiche registrate nel-le famiglie colpite dalla malattia e soprattut-to dai lutti sono state pesanti. Esse si sono manifestate con sentimenti di negazione, vere e proprie fobie, insonnia, ansia, depres-sione. Le prescrizioni di farmaci ansiolitici, in questi mesi notevolmente cresciute, rap-presentano l’indicatore di tale disagio. Il pa-ragone di quanto sta avvenendo con la guer-ra, il martellamento incessante dei media, il repentino stravolgimento delle abitudini sociali, hanno indotto, specie negli anziani, un profondo senso di precarietà esistenzia-le. Il senso di incertezza e di impotenza ha generato in alcuni atteggiamenti di caccia ad un ipotetico colpevole (il virus costruito in laboratorio), un “untore”, su cui scaricare le responsabilità. Il distacco dai propri cari deceduti, senza la possibilità di tributare un ultimo sguardo, un rito di commiato, il con-forto della partecipazione sociale al lutto, ha conferito ulteriore strazio a chi ha vissu-to questo dolore. Una delle conseguenze del dramma CO-VID-19 è l’interruzione della normale ge-stione programmata dei malati cronici, sia a livello di medicina generale che di assisten-za specialistica. Difficile prevedere le con-seguenze di questo calo assistenziale, che tuttavia non mancheranno e richiederanno una rapida pianificazione degli interventi di recupero con adeguata integrazione di tutti i livelli assistenziali. Una lettura esaustiva di quanto accaduto ri-chiederà tempo. Certamente il nostro siste-ma sanitario, sempre lodato ma negli ultimi anni progressivamente smantellato, si è mo-strato ampiamente impreparato ad affronta-re un evento di tale portata. In particolare

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102 GERMANO BETTONCELLI

nell’ambito delle cure primarie ha sofferto di una forte disorganizzazione e del manca-to utilizzo di risorse che meglio avrebbero potuto essere sfruttate con un più razionale raccordo tra tutti gli operatori dei vari settori. È certo difficile affrontare in poco tempo una emergenza globale come una pande-mia. Ma come si è programmato per altre emergenze, meteorologiche e ambientali, una serie di provvedimenti strutturati di protezione civile, periodicamente aggior-

nati, dovrebbero essere sempre disponibili per affrontare anche l’emergenza sanitaria da pandemie. È necessario da subito poten-ziare e rafforzare le strutture responsabili sul territorio (dipartimenti di prevenzione ed igiene con coinvolgimento operativo e strutturato della medicina territoriale), con l’obiettivo di individuare precocemente i potenziali positivi e i nuovi focolai, per una razionale gestione in sicurezza dei cronici e la separazione pazienti COVID-19.

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 103-106

Diario di un medico di base a Cremona

LUISA GUGLIELMICremona

[email protected]

Dopo più di vent’anni di lavoro in casa di riposo, da sei mesi lavoro a Cremona, in una medicina di gruppo con altri 6 colleghi. A inizio anno si comincia a sentir parlare di un nuovo virus che ha causato diversi morti in Cina. Ascolto al telegiornale le notizie con in-teresse professionale, ma senza un reale coinvolgimento emotivo: in passato ci sono state altre di epidemie simili a questa, nessuna ci ha riguardato da vicino.Ma le notizie sono sempre più allarmanti: si profila una vera e propria epidemia. La città di Wuhan, una metropoli, non un paesino sperduto nella campagna, viene messa in quarantena. Mi commuovono le im-magini delle persone chiuse in casa che cantano alla finestra. Una sera guardo con stupore la costruzione in tempi record di un intero ospeda-le: questo fatto, più di ogni altro, mi fa comprendere la reale portata del problema. L’inquietudine comincia a farsi strada nei miei pensieri: sono un medico di base, se l’epidemia dovesse arrivare in Italia sarò in prima linea. Sembra ancora un’evenienza impossibile.Iniziano ad arrivare alcuni comunicati dall’ATS: alcune stringate indi-cazioni, che raccomandano di tenere sotto controllo eventuali pazienti provenienti dalla Cina con sintomatologia simil-influenzale.Ascolto un’intervista ad Angelo Pan, primario infettivologo a Cremona, che mostra i provvedimenti intrapresi dall’ospedale per far fronte ad un eventuale arrivo del virus: sostanzialmente l’aumento di alcuni posti letto nel suo reparto. Sembra tutto sotto controllo. Eppure… Il 21 febbraio arriva la prima diagnosi: un paziente di Codogno, a pochi chilometri da Cremona, ha contratto il coronavirus.Il giorno dopo, un sabato, sono di turno in ambulatorio. Mi rendo conto di non avere nemmeno una mascherina a disposizione. Passo in farma-cia prima di entrare in servizio: il farmacista mi ride in faccia e mi dice che sono esaurite. Vado comunque al lavoro: la mia collega Donatella, con grande generosità, mi raggiunge con alcune mascherine chirurgi-che. Mi racconta che hanno già identificato un secondo caso nel repar-to di Pneumologia dell’Ospedale di Cremona, che i colleghi sono tutti in quarantena.Dopo circa mezz’ora arriva la prima paziente: una ragazza di 17 anni con febbre elevata da più di 5 giorni, mal di gola e tosse. Nella sua clas-se c’è un ragazzo di Codogno… Cerco di mettermi in contatto con il

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104 LUISA GUGLIELMI

numero verde, sempre occupato. Chiamo al-lora il 112: in genere rispondono dopo qual-che squillo… Questa volta resto in attesa per quasi 30 minuti senza ottenere risposta. Chiamo quindi direttamente il pronto soc-corso dell’ospedale, avvisandoli che arrive-rà la mia paziente, con una sintomatologia sospetta. Avviso la madre della ragazza di farsi riconoscere subito, senza restare in sala d’attesa, per evitare il rischio di contagiare altre persone; fornisco a madre e figlia due delle poche, preziose mascherine in mio possesso; raccomando di farmi sapere l’esi-to del tampone appena possibile.Resto chiusa in casa per tutto il weekend in isolamento completo, per paura di esser-mi contagiata e trasmettere a mia volta la malattia alle persone care. La notizia della negatività del tampone arriva la domenica pomeriggio, dopo una notte quasi insonne. Tiro un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Non immagino minimamente ciò che succederà nei giorni successivi, e cioè che l’esperienza vissuta quel sabato mattina si ripeterà di continuo, amplificata in modo angosciante.La settimana successiva inizia all’insegna della spasmodica ricerca dei DPI: insieme ai medici del gruppo chiediamo un aiuto all’ATS che dopo qualche giorno fornisce a tutti i MMG una prima partita di masche-rine, disinfettanti, camici monouso, guanti. Cerchiamo di integrare acquistando ciò che si trova in rete, a prezzi elevatissimi. Rior-ganizziamo lo studio: la sala d’attesa viene spostata in un vano che può essere ventilato facilmente; le visite vengono svolte solo su appuntamento e per urgenze; si inviano le ricette via mail o sms, cercando di evitare assembramenti.Mercoledì sera ricevo una telefonata che mi gela il sangue: Giancarlo, il collega prossimo alla pensione con cui divido lo studio (non-ché la scrivania, il mouse e la tastiera del pc …) ha la febbre a 39°. Mi rassicura: “non ho nessun sintomo, chissà…” Cominciano a fioccare le telefonate dei pa-

zienti. Stessa sintomatologia per tutti: febbre alta, persistente, tosse secca. Non ho armi per combattere: raccomando di prendere la tachipirina, di idratarsi, di mantenere l’iso-lamento. Domando se ci sono difficoltà re-spiratorie. Mi creo un file Excel con nome, telefono, qualche notizia clinica, e inizio un monitoraggio telefonico quotidiano.I primi colleghi, specie medici di base, cominciano a “cadere in battaglia”. L’ATS raccomanda di non esporsi, ma i Pronto Soccorso sono pieni, i numeri verdi sovrac-carichi…. I pazienti dopo giorni di febbre elevata vanno visitati! Non ci tengo a fare l’eroe, ho una paura terribile di ammalarmi, ma vado a visitarli. Come me, i miei colleghi dello studio. In tre si ammalano di polmoni-te, uno di loro è tutt’oggi in rianimazione. Il primo paziente che vado a visitare a casa è un avvocato settantenne, che ho conosciuto circa un mese prima in ambulatorio. Perso-nalità brillante, in ottima salute, affetto solo da ipertensione. Ha la febbre già da 5 gior-ni, non riferisce nessun altro sintomo. Per prima cosa, misuro la saturazione: 85%. Im-possibile! Il paziente non sembra in insuffi-cienza respiratoria: mi parla tranquillamen-te, forse una lievissima polipnea, ma nulla di più. Ausculto il torace, qualche crepitio. Controllo che il saturimetro non sia rotto, provandolo su di me: saturo 98%. Chiamo l’ambulanza che arriva da Crema dopo un’o-ra. Il paziente viene ricoverato all’ospedale di Mantova, perché l’ospedale di Cremona, dopo solo una settimana dalla diagnosi del paziente 1 di Codogno, è già saturo. Ricevo dalla moglie qualche notizia su WhatsApp, nei giorni seguenti: ossigenoterapia, Cpap, rianimazione… In quattro giorni il paziente muore. Erano questi gli anziani polipatolo-gici destinati a soccombere al virus? Sono una geriatra, abituata ai pazienti delle case di riposo, grandi anziani con grave polipato-logia. Questo paziente aveva davanti ancora tanti anni da vivere in salute. Non dite più che si tratta di influenza! Qualche giorno dopo mi chiama la nipote

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105DIARIO DI UN MEDICO DI BASE A CREMONA

di una mia paziente 84enne che vive sola: mi riferisce che ha trovato la zia, solitamen-te lucidissima e completamente autonoma, un po’ confusa e con difficoltà a camminare. Chiedo espressamente se ha la febbre o sin-tomi simil-influenzali, mi risponde di no. La mia esperienza di geriatra mi suggerisce di non abbassare la guardia. Prima di entrare indosso al volo una mascherina e i guanti. La paziente scotta, le misuro la febbre: ha 38,5°. La saturazione è 85%. Chiamo l’ambulanza: il giorno dopo avrò la conferma che si tratta di polmonite Covid 19. La paziente morirà in pochi giorni.Sono stata a contatto ravvicinato con lei, le ho tenuto il termometro sotto l’ascella… Quando arrivo a casa metto tutti i vestiti in lavatrice, faccio doccia, capelli, persino i gargarismi…. Ormai ho capito che non c’è da scherzare: la malattia è molto più diffusa di quello che si pensa, non ci sono categorie a rischio. La signora non è mai stata a Codo-gno, non si è mai mossa dal suo quartiere. Chissà da quanto tempo a Cremona il virus ha viaggiato sottotraccia… Da quel momento, inizio a considerare tutti i pazienti potenziali Covid. La mia bella borsa di cuoio viene sostituita da uno zainetto in tela lavabile. Al suo inter-no poche cose: il saturimetro, il fonendo-scopio, il ricettario, una penna, l’alcol per disinfettare tutto. Identifico nella mia auto-mobile dei “percorsi” ben precisi, per non creare commistione tra l’abbigliamento da “civile” e la “tenuta da guerra”. Prima di en-trare in casa di un malato faccio arieggiare la stanza, faccio indossare la mascherina a tutti i presenti, limito la visita al minimo in-dispensabile, poi esco e procedo ad attenta svestizione, disinfettando tutto. La settimana successiva è un incubo. Il lu-nedì 9 marzo, in particolare, è una giornata che non scorderò mai. Una raffica di telefo-nate: ne ho contate 120. Alle 12 ho la batte-ria del cellulare scarica.Il pomeriggio è dedicato alle visite domici-liari. Ricovero 5 persone in insufficienza re-

spiratoria. L’età: 38, 40, 57, 60, 80 anni.La prima paziente è una signora di 60 anni. Ha la saturazione a 89%. Chiamo il 118 che dopo una ventina di minuti mi dice che manderà l’ambulanza. Esco senza aspettar-la perché ho tante altre visite. Dopo circa mezz’ora mi chiama la volontaria dell’am-bulanza, dicendomi che ha ricevuto ordi-ne dalla centrale di riportare la paziente in casa, anche se l’aveva già caricata sul mezzo. Furiosa, telefono in centrale, investendo di improperi la persona che si è permessa di mettere in discussione da una scrivania una mia valutazione fatta sul campo, rischiando la pelle. L’operatrice rimanda l’ambulanza e la paziente viene ricoverata. Dopo due giorni viene intubata. Adesso è a casa ed è guarita. Il ragazzo di 38 anni ha appena perso il pa-dre per covid 19. Il giorno dopo ricovero anche il fratello. Entrambi vengono intubati, trasferiti uno a Trieste, l’altro a Varese. La te-lefonata con la madre, una signora che ha qualche anno più di me, è straziante. La sera arrivo a casa con la sensazione di non farcela più. La situazione sembra sen-za speranza. La notte non chiudo occhio, in preda a continue crisi di panico. No, decisa-mente non sono un eroe e sperimento tutta la mia umanità, i miei limiti, la paura di mo-rire, di perdere le persone care… Passo il poco tempo libero cercando febbril-mente su internet notizie sulla malattia. C’è un gruppo di medici su Facebook con cui posso scambiare opinioni, esperienze, stati d’animo.Cominciano ad arrivare notizie confortan-ti sulle prime terapie efficaci. Chissà: forse qualcosa posso fare anche a domicilio. Si parla del Plaquenil, dell’azitromicina, dell’e-parina... L’ospedale di Cremona organizza una video lezione rivolta proprio a noi medici di base, in cui Angelo Pan, primario Infettivologo e Gianfranco Bosio, primario pneumologo, danno indicazioni sulle terapie: si cerca una sinergia con il territorio, per trattare il pa-

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ziente precocemente. Illuminante la lezione del Prof Viale circolata su Internet, che spie-ga la necessità di intervenire già a domicilio con terapie volte a ridurre l’infiammazione e i rischi tromboembolici. Non c’è ancora una netta evidence su queste terapie, ma avere qualche arma a disposizione fa sen-tire meno la frustrazione e l’impotenza. Mi fa sentire di nuovo utile e riaccende la spe-ranza. Il lockdown fa il resto: con il passare delle settimane di distanziamento sociale, i casi si riducono progressivamente. Sono sempre meno coloro che devono ricorrere all’ospedale, ancor meno in rianimazione. L’ATS mette in campo le USCA, delle équipe con medici ed infermieri dotati di adeguati DPI che possiamo contattare ed inviare al domicilio dei pazienti febbrili per alleggeri-re il nostro lavoro e tutelarci. La tensione si allenta, ricomincio a dormire la notte. Nell’ultimo mese i riflettori si accendono sugli anziani morti nelle RSA. I numeri sono effettivamente terribili. Tuttavia credo di es-sere stata testimone di situazioni altrettanto angoscianti sul territorio. Un martedì mattina ricovero un signore di 80 anni che vive con la moglie. La coppia non ha figli, né parenti prossimi. Due giorni dopo la moglie non ha ancora avuto noti-zie. Nessuno la chiama, forse non ha lascia-to nessun recapito telefonico ai volontari dell’ambulanza, lei è anziana e non sa de-streggiarsi tra centralini e numeri verdi vari. Provo io a mettermi in contatto con i col-leghi dell’ospedale, ma sono giorni “caldis-simi”, i medici sono carichi di lavoro e non riesco a parlare con nessuno. Interesso del caso l’Ufficio Relazioni Pubbliche dell’ospe-dale. Il giorno dopo il medico del reparto te-lefona alla moglie del paziente e la informa sulle condizioni cliniche, non solo: va al let-to del malato, si accorge che ha il cellulare scarico, lo aiuta a caricarlo e a chiamare la moglie! Un gesto di tenera umanità che mi ha commosso. Una signora affetta da demenza vive con il marito, suo unico caregiver. Non hanno figli.

Il marito muore di Covid, e lei resta sola al proprio domicilio, per circa un mese, prima che una nipote si accorga della gravità delle sue condizioni. La donna è dimagrita 20 chi-li, non ha assistenza, ha atteggiamento ag-gressivo e minaccia di buttarsi dal balcone. Viene chiamata l’ambulanza per un ricove-ro coatto.Un giorno mi chiama l’agenzia di pompe fu-nebri: mi chiede se posso compilare un cer-tificato di morte per un signore anziano che è stato trovato morto nella sua stanza, non si sa da quanto tempo. Il paziente viveva con il figlio, malato di Covid, che, febbrici-tante nella stanza accanto, non si è accorto di niente. La salma rimane in casa per quat-tro giorni, non c’è un posto dove metterla, non c’è possibilità di anticipare il funerale, i morti sono troppi. Una domenica mi chiama il figlio di un no-vantenne affetto da demenza; l’anziano vive con due badanti che si alternano giorno e notte. Ha certamente una polmonite da co-ronavirus con una saturazione ancora accet-tabile, vista l’età e la comorbilità. Decidiamo insieme al figlio di tenerlo a casa, vista an-che la situazione negli ospedali. Il proble-ma compare dopo qualche giorno, perché entrambe le badanti si ammalano. Devo per forza ricoverare il paziente, perché altri-menti rimarrebbe senza assistenza. Non riesco nemmeno più a contare, infine, le telefonate che ricevo da persone anziane, rimaste per due mesi in balia della solitudi-ne, della paura, della sensazione di abbando-no, che mi cercano solo per un saluto o per sentirsi rassicurati dal suono di una voce amica. E questo mi porta a un’ultima riflessio-ne: se è vero che molti ospiti delle RSA si sono gravemente ammalati di Covid, spesso fino a morirne, in quelle strutture almeno hanno trovato terapie, ossigeno, sedazione, assistenza di base e, soprattutto, qualcuno accanto a stringergli la mano fino all’ultimo istante.

LUISA GUGLIELMI

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 107-109

La cura dei malati a casa: luci e ombre

FEDERICA GOTTARDIBergamo

[email protected]

La condizione di emergenza nella quale ci troviamo sta mettendo a dura prova la tenuta psicologica delle persone alle prese con una situa-zione straordinaria nella sua drammatica tragicità. Una lettura aristote-lica del dramma tragico ci esorta a ripensare alla tragedia quale azione compiuta, svolta a mezzo di personaggi che agiscono sulla scena, non semplici narratori.Ci scorgiamo oggi, noi tutti, protagonisti di un dramma che veicola ancora più di prima la riflessione sul contrasto tra necessità e libertà; tra bisogno e possibilità; tra vincoli e risorse.Le misure restrittive, tanto indispensabili sul piano sanitario, stanno avendo un forte impatto sul piano umano e psicologico nella sua com-plessità. L’attuale emergenza sanitaria sta cambiando il nostro modo di approc-ciarci alla vita quotidiana.Siamo esseri dotati di una innata capacità di adattamento e resilienza, che ci rende abili nell’affrontare le situazioni di stress, ma siamo anche esseri estremamente sociali. Come è possibile adattarsi ed abituarsi ad una condizione di costante paura e incertezza e di distanziamen-to fisico e sociale? Come possiamo adattarci ad una condizione così innaturale? Il timore del contagio, la paura per la propria salute e per quella dei nostri cari, l’isolamento forzato, il senso di solitudine, le incertezze eco-nomiche: condizioni che contrassegnano la nostra esperienza attuale, a prescindere dal ruolo sociale di ciascuno di noi, unitamente ad un profondo sentimento di impotenza. Risalgono a circa 40 anni fa i primi studi della psicologia cognitiva applicata al senso di perdita di control-lo e di impotenza, e ciò che ne apprendiamo ci aiuta a comprendere la conseguenza psicologica dell’essere esposti per periodi prolungati ad eventi negativi e spiacevoli. Il concetto di impotenza appresa ri-assume dunque tale conseguenza: la percezione di non poter agire un controllo attivo in una situazione apparentemente incontrollabile. Ecco che si realizza l’inevitabile senso di sconforto e di inefficacia che determina reazioni emotive quali stati depressivi e ansia. Forse è inutile sottolineare le conseguenze di secondo livello, sia per la cittadinanza generale che per gli operatori sanitari impegnati in prima linea.

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108 FEDERICA GOTTARDI

Indispensabile dunque, a fianco di medici, infermieri e operatori sanitari, l’intervento di supporto psicologico. Molti professio-nisti psicologi e psicoterapeuti stanno ap-portando il loro fondamentale contributo guidati dalle società scientifiche e dalle associazioni delle quali fanno parte al fine di attuare un intervento che sia supportivo ma allo stesso tempo preventivo nell’ottica di un migliore adattamento, minore impatto post-traumatico e di ripresa.Nel supporto alla popolazione stiamo osser-vando soprattutto i riflessi sulle dinamiche famigliari, sui cambiamenti nell’attribuire si-gnificato alla vecchia e ad una futura ‘nuova’ normalità e, ultimo ma non per importanza, sulla capacità di elaborare le perdite. Sul pia-no psicologico l’elaborazione di un lutto è determinata in particolare dalla ritualità, a prescindere dal credo religioso. La ritualità del commiato, la vicinanza al defunto e agli altri componenti della famiglia, la cura e l’ac-compagnamento che oggi ci sono negate. Ci si sta focalizzando in modo importante sul supporto alla collettività ma un’attenzio-ne particolare va data alle persone fragili, agli anziani soli e a coloro che conoscono il senso di impotenza, la sofferenza e la solitu-dine da prima. Per le persone anziane e fra-gili sole si palesa oggi uno scenario contras-segnato da una mancanza incolmabile. Tra questi ci sono le persone affette da demen-za e i loro familiari per i quali l’impossibilità di uscire e le severe disposizioni governa-tive pesano in particolar modo. Per molte persone affette da demenza poter uscire di casa non è solo una necessità, ma una com-ponente fondamentale dell’approccio tera-peutico nella gestione dei sintomi psico-comportamentali, in particolare dell’ansia e dell’agitazione. In queste famiglie, in un momento di estremo disagio, i sentimenti di frustrazione, di sconforto e di abbandono rischiano di prendere il sopravvento. Ven-gono meno infatti quegli aiuti riservati ai

caregiver che hanno un’importante e rico-nosciuto effetto benefico nel processo di assistenza per chi si prende cura della per-sona malata a casa. Tra questi i Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (CDCD), i Centri Diurni Integrati e i Caffè Alzheimer che oggi hanno visto sospese le loro attività in quanto luoghi di aggregazione e assem-bramento. Molte strutture territoriali stanno impie-gando le proprie risorse per garantire la continuità di cura in un periodo nel quale anche l’assistenza domiciliare integrata ha risentito delle fatiche organizzative dettate dalle misure cautelative. Per le persone con demenza e le loro famiglie è però indispen-sabile più che mai un intervento di suppor-to e di continuità della presa in cura.Viene chiesto, in particolare a noi psicolo-gi, di entrare in un luogo domestico che diviene un non-luogo poiché caratterizzato da una presenza virtuale e non fisica. La te-lemedicina, le linee telefoniche di suppor-to, modalità on-line di relazione in un set-ting che spesso non viene percepito quale luogo sicuro. In uno spazio vitale vissuto frequentemente da queste famiglie come una prigione all’interno della quale dover gestire una quotidianità pensando in primis al familiare malato. Sappiamo bene oggi, gra-zie alla moltitudine di studi in letteratura scientifica, quanto sia importante supporta-re i caregiver nel percorso di cura poiché lo stato psico-emotivo di quest’ultimo ha un ruolo fondamentale nella manifestazione o nel contenimento di sintomi psicologici e comportamentali manifestati dalla persona affetta da demenza. Il supporto al caregiver non si limita dunque all’intervento psicolo-gico ma anche all’offrire loro la possibilità di affidare il proprio caro alle cure di per-sonale competente, regalandosi uno spazio e un tempo di decompressione oggi negato dall’assenza di continuità dei servizi territo-riali sopra citati. È doveroso poi aggiungere

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109LA CURA DEI MALATI A CASA: LUCI E OMBRE

la completa assenza di una socialità, di uno stare insieme, che sappiamo essere prero-gativa di tutti quei servizi dedicati alla cura delle famiglie colpite dalla malattia.La situazione si fa ancora più gravosa quan-do sono le stesse persone con demenza, o un loro familiare, a risultare positivi al Co-vid-19 e non sono in grado di mettere in atto le misure di distanziamento o di utiliz-zo dei dispositivi atti a prevenire il contagio. Il ruolo dello psicologo impegnato nel ter-ritorio e nel lavoro con le persone affette da demenza e dei loro familiari non si limita però solo all’utilizzo di modelli e tecniche di supporto e consultazione psicologica per alleviare la sofferenza emotiva ma, oggi come ieri, deve essere una figura centrale nella rete dell’assistenza. Unitamente all’in-tervento sul piano psico-emotivo e psico-educativo, al fornire strategie utili all’orga-nizzazione di una nuova ma non troppo modificata quotidianaità, lo psicologo deve essere attore protagonista nell’analisi dei bisogni contingenti e nell’orientare le fa-miglie relativamente ai servizi presenti sul territorio, oggi diversi e focalizzati forse più sull’offrire servizi domiciliari pratici e di prima necessità, ma sempre operativi. In un’ottica di rete tra i servizi per le persone affette da demenza, questa situazione pan-demica ci ha messo nuovamente, e ci mette-rà ancor più in futuro, di fronte all’urgenza di una forte connessione (virtuale e reale) tra servizi e professionisti della cura. Una connessione che sappia superare i confini tra le diverse figure che ruotano attorno ai

pazienti e alle loro famiglie per far sì che si possano scongiurare in futuro esperienze di solitudine come quella che stiamo attra-versando.Ci sentiamo impotenti di fronte alla diffi-coltà di garantire servizi adeguati a queste famiglie, ma allo stesso tempo stiamo impa-rando modi nuovi di avvicinamento socia-le con l’aiuto della tecnologia e attraverso la tanto demonizzata connessione virtuale. Ciò che apprendiamo dalle famiglie che stiamo supportando, seppur a distanza, è ancora una volta l’importanza della vicinan-za emotiva, della condivisione, del supporto competente e professionale, ma soprattut-to la sensazione di non essere abbandonati indipendentemente dalla modalità di con-nessione. Mi chiedo dunque, a prescindere dalla possibilità di riorganizzare le attività in vivo secondo nuove linee guida, quanto e quando saremo in grado di essere presen-ti in modo continuativo e organizzato per ricreare una comunità reale anche attraver-so modalità virtuali. Qualcuno ha definito questo mio quesito il futuro della cura, ma il futuro va pensato oggi, e oggi la cura ri-mane ancora estremo bisogno di con-tatto. Da tempo la comunità scientifica impegnata nella cura della demenza sostiene che l’ap-proccio vincente sia mettere la persona al centro, esplicativi a tal proposito i diversi modelli person centred, ma la sfida per certi aspetti più grande e motivante sarà traccia-re percorsi nuovi e utilizzare veicoli diversi e innovativi perché si possa continuare a mantenere questa direzione.

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 110-117

Il futuro dei servizi del territorio: dai CDCD ai Centri Diurni, ai Caffè Alzheimer

STEFANO BOFFELLIBrescia

[email protected]

Introduzione

I primi di marzo 2020, in ambulatorio CDCD, stavamo sperimentando le prime misure restrittive con l’uso dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuali) per le visite. Era in corso la ricerca sugli MCI, il nuovo pro-gramma delle attività dei Caffè Alzheimer, la preparazione al Convegno AIP di aprile, il mese dell’Alzheimer a settembre, dopo l’Alzheimer Fest. Ma nessuno osava pensare che dopo una settimana avremmo chiuso. Tutto. E abbandonato ogni processo organizzativo a favore dei malati e dei loro familiari, costruito con fatica e costanza nel corso degli ultimi venti anni (Rourke E.J., 2020). Per noi operatori, un cambio di identità e di marcia: una sola patologia, urgente e grave, da curare con il massimo delle energie fisiche e psicologiche, fino a quando ce ne avevi. Nessuna distrazione. Nessun altro pensiero (Castelletti S., 2020). Ma anche per i malati a casa, ed i loro familiari, il passaggio al medioevo: dall’attività piena ed aperta, extra domiciliare, alla chiusura in casa. Dal contatto umano, per noi tutti parte importante della cura, alla quarantena. Dal counseling e le attività cognitive, al monitor della televisione. Non è stato facile, per nessuna dalle due parti, non lo è ora, che l’apertura programmata induce pensieri di preoccupazione per tutti, soprattutto per le persone più fragili (Wang H., 2020).

La risposta all’emergenza

Nonostante gli avanzamenti della medicina moderna (terapia intensiva, ventilatori, extracorporeal membrane oxygenation - ECMO, etc.), è tri-ste pensare che coloro che hanno affrontato l’ultima pandemia da gio-vani nell’influenza del 1968, siano ancora le principali vittime, dirette o indirette, di quella odierna. Anche perché l’unica modalità di sopravvi-venza fisica, oggi come allora, restano l’isolamento ed il distanziamento sociale. Con le conseguenze che vediamo, sulle persone affette da de-menza ed i loro familiari (Christian M.D., 2014; Hick J.L., 2020). Infatti, dai primi di marzo tutti a casa. E in casa. E dei malati chi ha po-tuto, è rimasto in casa con un parente o l’assistente privata. Altrimenti, trasferimento forzato da un figlio o figlia. Cambiamenti importanti di vita, e di routine. Per noi, operatori ma anche familiari, un cambiamenti

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111IL FUTURO DEI SERVIZI DEL TERRITORIO: DAI CDCD AI CENTRI DIURNI, AI CAFFÈ ALZHEIMER

di modi, non facile ma adattabile. Per i ma-lati di demenza, un cambiamento epocale. “Perché non si può uscire? Perché non vi vedo più? Dove sono i miei (operatori ed amici) del Centro Diurno?” Sono queste le domande che spesso hanno fatto i mala-ti, che hanno dovuto riadattarsi ad una vita diversa (contro quella che noi predicavamo: mantenente una routine, la vita all’aperto, le passeggiate…).C’è chi ha dovuto ricorrere alla terapia se-dativa, perché se la nostra ansia è gestibile, quella del malato qualche volta no; e non si tratta solo di ansia, l’arcobaleno dei sintomi neuropsicologici è ampio: da quelli che si sono accentuati, a quelli che sono comparsi ex novo (insonnia, apatia, wandering, irrita-bilità).Centri Diurni, Caffè Alzheimer, ambulatori CDCD chiusi. Proprio nel momento in cui i familiari ed i pazienti avevano più bisogno di aiuto per affrontare la nuova situazione.Ma non tutto è andato perduto. Caparbia-mente, medici e psicologi hanno mantenu-to una rete di collegamento: i Centri diur-ni, i Caffè Alzheimer, i CDCD hanno avuto contatti informali e personali con i familiari, ma anche formali in alcuni casi. La disponi-bilità, e la fantasia di ciascuno ha permes-so di mantenere anche a distanza una rete informativa e formativa, di counseling e di sostegno psicologico. Nuovi familiari sono stati raggiunti, ed il loro dubbi, problemi, dif-ficoltà, affrontati se non direttamente risolti (Padovani A. e Trabucchi M., 2020).Come è stato possibile? I familiari “tecnolo-gici” non solo hanno avuto contatti rapidi (telefonate, messaggi singoli o su gruppi di whatsapp), ma anche possibilità di contatti e consigli con mezzi che concedono mag-gior tempo (mail, videochiamate). Alcuni professionisti hanno attivato mail speci-fiche (come il gruppo dei caffè alzheimer della lombardia orientale: [email protected]) per raggiungere più

familiari possibili, al di là della stretta cer-chia di ognuno.È stato fatto di più, quando possibile: medi-ci e psicologi di alcuni CDCD hanno per-sonalmente tenuto i contatti coi familiari telefonando a casa. Metodo dispendioso temporalmente, ma con ampia e positiva ri-caduta sui familiari: costoro non si sono sen-titi abbandonati, ed hanno trovato risposte a domande sui nuovi problemi creati dall’e-mergenza (comportamentali, gestionali); quesiti che per ritrosia, o mancanza di punti di riferimento, non avrebbero mai posto a nessuno (Wang H., 2020).

La malattia, le nuove solitudini e povertà

La pandemia ha creato, e determinerà, serie conseguenze sulla salute individuale ma an-che pubblica: non solo sulla salute somatica, quanto sulla sicurezza psicologica e sociale, sulla rete dei servizi ed il loro accesso. Familiari e pazienti affetti da demenza sono stati in questo periodo, e saranno a rischio di maggiore insicurezza, confusione, iso-lamento sociale, stigma; condizioni che si renderanno più evidenti e pesanti per una minore disponibilità dei servizi (a seguito della perdita economica, o della difficile ri-distribuzione delle risorse). È evidente, da ogni situazione di distress (epidemie, terre-moti, guerre), che a pagare le maggiori con-seguenze sono i gruppi della popolazione con poche risorse e minore capacità di re-silienza). Ansia, depressione, angoscia, sono i sintomi più riferiti dai familiari in questo periodo. I sintomi neuropsicologici sono spesso aumentati, per la quarantena di casa, nei malati (Pfefferbaum B., 2020). Inoltre, non dobbiamo trascurare la com-parsa del distress emozionale anche nel personale socio-sanitario: lo sconvolgimen-to della routine, il rischio di esposizione al virus, il pensiero di infettare ma anche la necessità di prendersi cura della salute dei propri familiari, lo stress per la mancanza

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dei dispositivi di protezione individuale, gli orari allungati di lavoro, il coinvolgimento emotivo per la cura e l’allocazione delle ri-sorse (Brooks S.K., 2020).E un altro gruppo non dobbiamo dimenti-care, quello delle persone che stanno svi-luppando, talora anche in assenza di deficit cognitivo, sintomi di stress legati alla qua-rantena: motivi comprensibili, al di là della malattia stessa, sono la durata dell’isola-mento, la mancanza di supporto sociale, gli aspetti legati alla reperibilità di farmaci ed alimenti. E, più di tutti, il lutto: il decesso di un familiare, già difficile di per sè, è aggrava-to dalla mancanza dei sistemi di aiuto (sono mancati i funerali, il cimitero, la messa, gli amici ed i parenti). Queste persone hanno un dovuto pagare un pesante tributo, sulla propria pelle. Infine, non vanno dimentica-te le conseguenze sulle persone già affette da disturbo neurocognitivo e che hanno sviluppato la malattia virale: quali bisogni si sono modificati in queste persone, in sen-so di comorbilità somatica (conseguenze pneumologiche post-polmonite), perdita funzionale (ospedalizzazione, allettamento prolungato), necessità assistenziali (ricove-ri in aree post-Covid, allontanamento dalla famiglia)? La pandemia determina, quindi, allarman-ti implicazioni per la salute individuale e collettiva, e per il benessere psico-sociale. I servizi per le demenze, in aggiunta alla cura della malattia somatica e cognitiva, dovran-no rinforzare l’attenzione ai bisogni psico-sociali: sia dal versante della valutazione che dell’intervento, favorendo la nascita, o l’im-plementazione, di sistemi di supporto psi-cologico e sociale integrati nel sistema glo-bale delle cure della pandemia. Nuove sfide, che si scontrano con la difficile situazione della ripresa (Rosenbaum L., 2020).

Le difficoltà del ripartire

Come per molte malattie (basti pensare alle cure delle persone affetta da neoplasia), an-

che nella demenza la necessità di un sup-porto fisico e psicologico è fondamentale: atteggiamenti di amore ed affetto, il sorriso, la gentilezza, sono cura oltre che disponibi-lità d’animo. “Come sarà possibile coniu-gare la cura con le attuali e necessarie restrizioni? Chi vedrà il mio sorriso die-tro la mascherina? Chi riconosceranno i malati, nella maschera che ci protegge dal virus ma non dalla confusione? Come fa-remo ad abbracciarci, nel distanziamento sociale? Quante persone potrò curare nei servizi? La metà di prima? Avrò abbastan-za spazio per tutti? “Queste sono le domande che emergono da un gruppo di collaboratori dei Caffè Alzheimer della Lombardia Orientale, ed hanno significato per tutti i servizi territo-riali. L’Umanità nelle cure è fondamentale: voce, linguaggio, posizione corporea. Chi è cognitivamente integro elabora la distanza e comprende le limitazioni, pur soffrendone. Rischiamo però che il distanziamento non sia ben compreso da chi presenta un deficit cognitivo, che quindi la efficacia del nostro lavoro venga dimezzata (RosenbaumL. e Ma-lina D., 2020).Cosa dovrebbero offrire i diversi attori del-la rete delle cure nelle demenze, dai CDCD ai Centri Diurni ai Caffè Alzheimer? Il mes-saggio che va trasmesso è che, Covid o non Covid, siamo qui per prenderci cura di voi. Ma vanno considerati e sottolineati alcuni punti: aspetti pratici ed organizzativi, per-ché molto probabilmente sono cambiati sia il personale che i malati ed i familiari.

1) Certamente, la sicurezza sanitaria in que-sto momento ha preso il sopravvento. I messaggi di salute sociale vanno ripetuti, anche se semplificati: abbiamo bisogno di regole semplici, applicabili a tutti i setting, per malati e familiari. Per non rischiare la recrudescenza epidemiologi-ca e la richiusura. Quindi, messaggi chia-ri e brevi sulla distanza sociale, l’igiene delle mani, l’uso delle mascherine.

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2) In secondo luogo, prima di riaprire i ser-vizi dobbiamo sapere come sta il perso-nale di cura: se ha sofferto (nella salute fisica o psicologica, o negli affetti), è in grado di prendersi cura o ha bisogno di un periodo di convalescenza? È fon-damentale conoscere le energie su cui contare, perché nel sistema di cura sono compresi non solo i farmaci, ma soprat-tutto le persone.

3) Il sistema dei CDCD, diagnostico/tera-peutico e di follow up deve riprendere, considerando che 3 mesi sono stati persi a causa del lockdown. Non si tratta solo di ripartire con i malati ex novo, ma di recuperare tutti coloro che non hanno avuto la possibilità di essere visitati o ri-valutati in questo periodo. Come coniu-gare professionalità e le lunghe liste di attesa che si creeranno alla riapertura è una scommessa da vincere, organizzati-vamente.

4) I servizi semi-residenziali e territoriali (Centri Diurni, Caffè Alzheimer) sono fondamentali per la gestione socio-sani-taria ma anche assistenziale delle perso-ne affette da demenza o anche da altri bisogni clinico-funzionali. Con la ripresa dell’attività lavorativa dei parenti, a mag-gior ragione i Centri devono ritornare ad essere il supporto diurno o settimanale al familiare, non solo per un meccani-smo custodialistico, quanto per alleviare lo stress della continuità di cura. Sapere coniugare distanziamento sociale ed ac-coglienza diventerà un punto di forza.

5) La cura e le cure: il monitoraggio dello stato di salute fisica e psicologica del malato diventa mandatario, oltre a quel-lo cognitivo. Non solo informalmente, ma anche con strumenti di assessment geriatrico. E deve essere esteso anche al familiare. Non solo in presenza, ma con tutti gli strumenti possibili, dalla teleme-dicina all’uso del counseling a distanza:

per esempio, nelle ISRAA di Treviso il mese di maggio vedrà la nascita di un Caffè Alzheimer virtuale (via web) che andrà ad aggiungersi agli altri strumenti elettronici di aiuto ai familiari.

6) Le nuove fragilità: i malati la cui salute (somatica/psicologica/cognitiva), si è aggravata in questo periodo, avranno bisogno di ambulatori dedicati e di ser-vizi. In particolare, andrà sorvegliata la gestione delle “nuove” diagnosi: depres-sione, ansia, disturbo post-traumatico da stress, lutto, deficit cognitivo iniziale. Per esempio, il recente impegno di un Prete negli alberghi che ospitano i malati post-Covid è stato rivelatore. Lì sono presenti i malati dopo la fase acuta, che non pos-sono tornare a casa perché già soli pri-ma della pandemia, o lo sono diventati adesso adesso perché il Covid ha ucci-so la loro famiglia. “La prima volta (dice Don Roberto all’Eco di Bergamo), sono uscito sudato da capo a piedi, a livello emotivo è devastante. Non hai parole, il silenzio è la parola più bella in questi casi.” Dobbiamo preparare il personale socio-sanitario, perché apparentemente tutto, ma nella realtà niente, sarà come prima (Pfefferbaum, 2020).

Aspetti pratici

Il personaleObiettivo: una premessa per il ritorno in pi-sta efficace ed efficiente, è che il personale sia pronto ad affrontare le nuove situazioni. Quindi:

- è fondamentale in questa fase di ripresa dare supporto al personale che ha lavo-rato tanto e sotto condizioni stressanti (quindi: ferie, supporto psicologico, tem-po per risoluzione dei conflitti o delle problematiche personali, familiari);

- va garantita la guarigione al personale che

IL FUTURO DEI SERVIZI DEL TERRITORIO: DAI CDCD AI CENTRI DIURNI, AI CAFFÈ ALZHEIMER

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si è ammalato (fisicamente, e con le sue conseguenze psicologiche);

- va combattuta la solitudine degli operato-ri, anche e soprattutto se inespressa;

- incontri di supporto psicologico: sono già attivi in molte aree socio-sanitarie, e molti sono stati attivati a livello Regionale o Nazionale (soprattutto telefonici). Ma è fondamentale che il responsabile di ogni servizio si accerti dello stato di salute del personale, per eventualmente indirizzarlo al sostegno psicologico, premessa per un buon lavoro di équipe;

- creare condizioni di sicurezza sia ambien-tali che psicologiche. In primo luogo, ga-rantendo spazi fisici e libertà personali, pur nel rispetto delle regole di distanzia-mento sociale. Inoltre, garantendo i DPI. Infine, creando e condividendo linee gui-da semplici sulla gestione della sicurezza: vedasi per esempio il semplice ed afficace leaflet del CDC di Atlanta sulla sicurezza nelle long term care units and community facilities, (CDC, 2020);

- aggiornare linee guida e di comportamen-to quando cambieranno, nelle diverse fasi di riapertura, da condividere fra operatori e pazienti/familiari. Se le guidelines diven-tano mindlines, l’adattamento sarà più ra-pido e meno stressante.

I setting diagnostici e di cura (CDCD, Centri Diurni, Caffè Alzheimer)

Obiettivo:

- riprendere in cura pazienti e familiari;

- preparare metodi per individuare e cura-re le nuove solitudini e le nuove povertà (pazienti, parenti, operatori).

I CDCD

- la riapertura: deve prima di tutto affron-tare l’emergenza delle visite programmate ma non effettuate nei mesi del lockdown.

Contemporaneamente, garantire gli aspet-ti burocratici (rinnovo dei piani terapeu-tici dei farmaci ex-nota 80, certificazioni per invalidità, etc), anche se in alcune Re-gioni le scadenze sono state rinviate a fine giugno;

- cadenza e numero delle visite: i primi mesi di riapertura sono necessariamente quelli più difficili, a meno che si opti per cadenze differenziate in base alle carat-teristiche dei pazienti. Ad esempio, quel-li cognitivamente e clinicamente stabili potrebbero eseguire controlli annuali, gli altri a 6 mesi come di abitudine. Diventa a questo punto necessaria una selezione anche solo telefonica delle necessità di visita a breve o lungo termine. Questo permetterebbe di riaprire gradualmente l’attività ambulatoriale, che certamente partirà con volumi ridotti per garantire la sicurezza;

- non sprecare quanto guadagnato finora: per effettuare la visita periodica del ma-lato, in presenza del familiare, è possibile continuare ad avvalersi dei mezzi di comu-nicazione alternativi alla presenza fisica (videochiamate, mail, telefonate). Questo permette di fare il punto della situazione in condizioni stabili, o minimamente mo-dificabili. Inoltre, aumenterebbe sicurezza al malato ed al familiare che hanno paura nell’uscire di infettarsi, o di infettare. Sono le condizioni che emergono instabili alla chiamata, andrebbero poi indirizzate alla visita personale in ambulatorio;

- rivalutare pazienti e familiari: dare op-portunità di aiuto ai nuovi problemi che insorgeranno (definibili Covid-related?) significa valutare i nuovi bisogni psico-sociali, utilizzando strumenti che siano meno time-consuming, ma sufficienti a fare uno screening per eventualmente approfondire il bisogno. Se non si ricor-re a scale di valutazione dell’ansia o della depressione e/o della qualità della vita,

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potrebbe essere sufficiente creare una check list che valuti: I fattori correlati allo stress da Covid (esposizione a persone infette, infezione nei membri della fami-glia, recente lutto familiare, sensazione di isolamento da distanziamento sociale); i fattori economici secondari al Covid (per esempio, perdita economica o del lavoro); i sintomi psicologici (depressione, ansia, sintomi psicosomatici, insonnia, etc);

- riprendere l’attività neuropsicologica: vanno valutati tre aspetti, che sono valu-tazione neuropsicologica, trattamento co-gnitivo non farmacologico, ed infine sup-porto psicologico ai familiari o caregiver formali ed informali.

I primi due necessitano della presenza fisica, almeno sicuramente il primo. Per-tanto, è necessaria una programmazione a numeri ridotti che garantisca la sicu-rezza, ma permetta di proseguire con gli aspetti diagnostici delle demenze. Sul se-condo punto (trattamento cognitivo non farmacologico), in sicurezza, potrebbero riprendere le attività di training cognitivo ambulatoriali: per ora sarebbero possibili quelle singole, forse solo successivamente quelle in gruppo. Infine, il supporto psico-logico rimane importante per i familiari: a distanza, se non possibile nelle prime fasi in presenza fisica, garantirebbe la continu-ità di cura e la riduzione dello stress del familiare. Il sistema di aiuto psicologico si deve avvalere di supporti telematici (tele-fono e videochiamate).

- La formalizzazione e regolarizzazione delle attività: che siano ambulatoriali o a distanza, le visite devono concludersi con un referto (che può anche essere inviato per mail al medico curante ed al familia-re). Ma soprattutto, le Aziende Sanitarie devono riconoscere il lavoro svolto, in termini di professionalità, tempo dedica-to, riconoscimento economico. Alla visita deve corrispondere infine un’adeguata

remunerazione del lavoro svolto, anche tramite ricetta dematerializzata;

- applicabilità del sistema al futuro: se venisse dimostrata la sua efficacia, il si-stema dei controlli periodici telematici (telemedicina) potrebbe venire integrato formalmente ed in modo definitivo nel si-stema delle cure, anche alternato a quello classico ambulatoriale: per esempio, in un anno solare una visita ambulatoriale ed un controllo semestrale telematico;

- la riapertura completa del servizio dei CDCD (diagnostico e terapeutico, com-presa l’attività neuropsicologica) richie-derà molti mesi, ma non possiamo negare ai cittadini la presenza dei servizi di so-stegno al deficit cognitivo, in modo misto. La previsione non è solo nazionale: molti sistemi di cura, anche quello nord-ameri-cano, stanno pensando ad un sistema di cura misto (ambulatorio e telemedicina), purché venga garantita la sostenibilità economica del servizio (Barnett L. et al., 2020).

I Centri Diurni e Centri Diurni Integra-ti (CDI)

- la riapertura: ogni distretto ATS o Dire-zione Regionale darà a breve le regole per la riapertura in sicurezza (distanziamento, norme preventive, DPI). L’impressione è che non vi sarà spazio fisico né disponi-bilità di tempo per tutti i pazienti che fre-quentavano i servizi prima del lockdown. Tuttavia, le soluzioni vanno trovate. Va ri-cordato che in questi mesi questi malati sono diventati “invisibili”, perché affetti da demenza e senza positività per il Co-vid. Non hanno smesso di soffrire, e nem-meno le loro famiglie. Diventa strategico riorganizzare l’assistenza in segmenti, che possano coesistere ed integrarsi le cure delle persone, indipendentemente dalla positività al Covid (Lee T.H., 2020);

- la riorganizzazione: ad esempio, ove

IL FUTURO DEI SERVIZI DEL TERRITORIO: DAI CDCD AI CENTRI DIURNI, AI CAFFÈ ALZHEIMER

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possibile, le Aziende Sanitarie che si oc-cupano di servizi multipli (Centri Diur-ni, RSA, ma anche assistenza territoriale) dovranno integrare i ridotti servizi re-sidenziali come i Centri Diurni con una maggiore attività domiciliare. Il tutto, con-siderando che la coperta è corta, e non si potranno all’inizio garantire numeri ed orari assistenziali completi e pre-Covid. Ma è una modalità per coniugare sicurez-za sanitaria e disponibilità assistenziale;

- le attività: il distanziamento sociale deter-mina una minore possibilità di attività di gruppo. Tuttavia, la disponibilità di spazi (sale, palestra, soggiorni) può permette-re di differenziare le attività per piccoli gruppi, in aree differenti. Questo richiede flessibilità del personale e riadattamento dell’organizzazione, non più per orari ma per attività, che potrebbero essere ripetu-te più volte al giorno, con diversi e piccoli gruppi di persone;

- lo screening: l’adozione della telematica (telefonate, videochiamate) permettereb-be anche al personale del CDI di identifi-care precocemente le necessità (cliniche, funzionali, comportamentali) da casa at-traverso un colloquio col familiare. Que-sta attività periodica rappresenterebbe un metodo di screening sia sanitario (febbre, sintomi di malattia virale) che socio-assi-stenziale (sintomi neuropsicologici, mo-dificazioni funzionali), utile per segnalare i problemi in tempo reale al medico cu-rante. La razionalizzazione del servizio di cura, in tempi di ristrettezza di spazio e tempo, avrebbe l’innegabile vantaggio di intervenire rapidamente sulle modifica-zioni cliniche del malato, senza ripercus-sioni organizzative sul CDI (Artandi M. et al., 2020).

I Caffè Alzheimer

- un sistema che non ha mai chiuso. Co-munque lo si definisca (servizio, organiz-

zazione), il sistema dei Caffè Alzheimer è rimasto “clinicamente” aperto durante il lockdown. Chiuso fisicamente, ogni Caffè ha mantenuto stretti contatti coi familiari, ma anche coi malati, grazie alla comunica-zione a distanza. Il contatto ed il supporto psicologico non sono mai mancati, per fortuna dei familiari che già frequentava-no un Caffè;

- la riapertura: come già per i servizi più formali, anche i Caffè riapriranno, seguen-do le regole. Anche se non vi sarà spazio fisico né disponibilità di tempo per tutti, il vantaggio dei Caffè risiede nella loro flessibilità ed adattabilità, non essendo progetti istituzionali formali. La possibilità di suddividere gli incontri, per esempio (da uno a più la settimana, in orari anche diversi), è una modalità per contempera-re le regole alla cura. Necessariamente, i Caffè non devono essere abbandonati dai loro sostenitori (Enti, Fondazioni, As-sociazioni, Comuni), perché l’adattabilità richiede maggiori risorse;

- le attività: anche qui, come per i CDI, il distanziamento sociale determina una mi-nore possibilità di attività di gruppo. Tutta-via, l’elasticità di spazi e personale, tipica di ogni Caffè, può permettere di interve-nire sui malati, sia con attività singole che di gruppo. Idem per il sostegno familiare (Boffelli S. e Trabucchi M., 2019);

- il caffè elettronico: funziona finchè ser-ve (e forse, per lungo tempo). Non vi è ragione per impedire il mantenimento e la crescita dei gruppi di sostegno familiare con i mezzi elettronici (videochiamate di gruppo o individuali, Whatsapp, etc). Molti sono attivi, in sostituzione di quelli di pre-senza fisica sospesi con il lockdown, altri stanno nascendo come nel Veneto. È mol-to probabile che in futuro i due sistemi, supporto di persona ed a distanza possano coesistere, integrandosi in modo efficace e time-effective. Come sosteneva recente-

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mente un nostro collega americano: “Be-cause we have no other option, we will experiment, we will learn, and we will transform” (Herrera V. et al., 2020)

Conclusioni

Alcuni appunti finali per non restare impre-parati, alla ripresa.

1) La pandemia è una catastrofe. Come quella degli anni ’60, e degli inizi del ‘900. Ma non siamo del tutto imprepa-rati. Una catastrofe l’abbiamo avuta di recente, quella del terremoto. Le scelte sanitarie difficili, le conseguenze della catastrofe sugli anziani ed in particola-re quelli affetti da demenza, la risposta organizzativa, le conseguenze a breve e lungo termine sul personale sanitario e sui caregiver. Tutto è scritto, documenta-to. E sappiamo di aver superato l’evento, almeno nella sua fase acuta e post-acuta (AIP e Sindem, 2018). Quindi, se siamo stati in grado di elaborare un piano per superare una catastrofe, è indubbio che sapremo farlo una seconda volta. Ma va usata la testa, oltre al coraggio.

2) La speranza va coltivata. Il libro Le Gra-titudini di Delphine de Vigan, da poco pubblicato, è una lettura da era post-Co-vid. Ci riporta a pensare positivo, a ricon-siderare (se mai ce ne fossimo dimenti-cati) sentimenti e nobiltà, che spingono il nostro essere curanti e cura. Mentre scrivo qualche rumore inizia, dopo due mesi di silenzio assordante, a rientrare dalla strada nella mia casa: mi affaccio alla finestra, vedo un signore davanti alla vetrina del negozio che solleva la saraci-nesca ed inizia a pulire i vetri. Era chiuso da due mesi, sta preparandosi alla riaper-tura del 4 maggio. Sono felice della sim-patica combinazione, il negozio che sta riaprendo si chiama Metafore…

3) La richiesta dei malati non cambia: il loro bisogno è di cure, attenzione, rivalutazio-

ne. In questo periodo dobbiamo mante-nere le nostre conoscenze ed abilità, ma adattandoci organizzativamente per rag-giungere lo scopo attraverso nuovi stru-menti. La storia della paziente Sally, nar-rata con dolcezza ed entusiasmo da una brava collega, ci insegna come è possibi-le ritornare a curare con efficacia e con beneficio anche durante la tempesta, che rischia di disperdere i nostri malati (Aronson L., 2020). Una cura che, noi lo sappiamo, identifica obiettivi e percor-si in base alle caratteristiche, ma anche alle scelte personali del malato. E che non riclassifica gli anziani in base all’e-tà o come “second-class patients”, come spesso è stato fatto in questo periodo.

4) La pandemia ha creato confusione. Vi sono nuove categorie di malati (somatici e psicologici), e peraltro sono stati tra-scurate, per necessità, molte persone. Il sistema di valutazione e cura ha iniziato ad apprezzare metodiche alternative a quelle della visita ambulatoriale. Inoltre, la ripresa della cura per i malati con de-menza, che si basa sulla presenza ed in-terazione fisica, sta subendo una rapida trasformazione. In tempi normali, avrem-mo impiegato anni a pensare, program-mare, attuare queste trasformazioni. Se pensiamo solo alla telemedicina e a tutti gli altri strumenti comunicativi, abbia-mo superato di un balzo tutti gli impe-dimenti che in tempi normali avremmo affrontato: gli aspetti pratici (la scelta dei programmi elettronici), quelli normativi (il consenso informato), quelli organizza-tivi (gli orari dei consulti, la programma-zione). Questa rapidità e flessibilità fanno parte dei tempi della pandemia. Ma dob-biamo prepararci a quello che succederà nelle fasi di transizione, e nel dopo Covid (Hollander .JE., 2020). In questo periodo di incertezza, una sola cosa è certa: il si-stema di cura socio-sanitario sarà diverso. Sta a noi iniziare a prepararci.

IL FUTURO DEI SERVIZI DEL TERRITORIO: DAI CDCD AI CENTRI DIURNI, AI CAFFÈ ALZHEIMER

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 118-128

La cura degli anziani in tempo di Covid-19: un diario dalla geriatria

ANDREA FABBOModena

[email protected]

La crisi legata all’epidemia da Coronavirus ci ha “travolto” come uno “tsunami” che irrompe in maniera violenta nella vita delle persone e nella organizzazione dei servizi. Il problema principale era il “tempo”: avevamo sempre “poco tempo” per prendere delle decisioni che riguar-davano le chiusure dei servizi, la possibilità di trovare delle alternative, la necessità di garantire servizi essenziali ma in maniera diversa, l’im-possibilità a sostituire in pochissimo tempo gli operatori che si amma-lavano e soprattutto controllare, monitorare e supportare i nostri an-ziani con le loro famiglie, sia quelli che erano a casa (malati di Covid e non) sia quelli che erano nelle strutture. Il tempo era cruciale: decidere, decidere, decidere con la paura di sbagliare, di poter verificare le cose, di cercare di garantire sempre quello che era giusto in quel momento e per quella determinata condizione.Da sempre (dalla mia formazione universitaria e poi sempre sul campo ) mi occupo di anziani ( con la demenza e non ) non solo dal punto di vista clinico (ho cercato sempre di continuare a fare il medico e di mantenere la diagnosi e cura ) ma anche dal punto di vista gestionale cercando di supportare l’organizzazione dei servizi nel garantire offer-te adeguate ai bisogni di una popolazione “fragile” bisognosa di ascolto e attenzione.Oggi si parla tanto di “fragilità” ma quanti, soprattutto nel campo dell’anziano, la conoscono davvero e soprattutto quanti conoscono i bisogni reali e la necessità di garantire in questo campo azioni veloci, utili e concrete ? Quanti hanno veramente le competenze, la formazio-ne e la “passione” (perché sappiamo che la competenza e la cultura non bastano) per trattare una materia così complessa che fa domande ma che soprattutto vuole risposte rapide ed efficaci ? Non so rispondere : di sicuro l’emergenza Coronavirus ha dimostrato che forse il bisogno c’è e che forse occorrerà “rivedere” qualcosa in una sfida che è quella degli anziani e dell’invecchiamento della popolazione che fino ad ora ha avuto nella maggior parte dei casi soluzioni incomplete ed inade-guate e “liquidata” troppo spesso con soluzioni superficiali.“Velocità” e “condivisione” sono le altre parole che forse fanno capi-re l’azione di un geriatra che lavora in questo contesto : velocità nel prendere le decisioni, velocità di fare la cosa giusta con la paura di

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119LA CURA DEGLI ANZIANI IN TEMPO DI COVID-19 : UN DIARIO DALLA GERIATRIA

sbagliare, velocità di dare risposte concrete a persone e a familiari che ci chiedono aiu-to, velocità nell’ascoltare e nel condividere soprattutto con gli altri operatori che sono tanti (di area sociale e sanitaria) ogni pic-cola azione e decisione. La condivisione è la chiave per ottenere fiducia e per fare in modo che le decisioni anche difficili siano accettate; la condivisione (che ho imparato dai miei colleghi che si occupano delle cure palliative e dagli operatori che lavorano in RSA) ti permette di “reggere il peso” e di far-ti capire che non sei solo ma che sei parte di un gruppo che si supporta che si aiuta e che se si condividono le scelte si ottengono risultati migliori.Questa è la base del nostro lavoro difficile e al tempo stesso “delicato” , una base che però mi ha aiutato in un periodo difficile come questo a cercare di fare le cose fatti-bili (non ho la pretesa di definirle “giuste” o “migliori” ) per i nostri anziani.Gli anziani hanno sofferto e stanno soffren-do moltissimo in questo periodo: quelli ospedalizzati (che sono riusciti a sopravvi-vere e che erano “coscienti” ) hanno vissu-to un isolamento terribile e l’angoscia della morte imminente, quelli nelle strutture l’al-lontanamento dai familiari e la sofferenza di scelte che hanno fatto fatica a compren-dere e forse ad accettare, quelli a casa l’in-certezza del futuro, la paura di ammalarsi e di “aver bisogno di tutto” e soprattutto lo stigma dell’ essere “persone a rischio” più di altri che vanno “confinate” ed isolate ancora di più e come tali da evitare.Ho letto da qualche parte che la pandemia da Covid-19 avrebbe decretato la “fine” del-la geriatria che non sarebbe stata in grado (non solo in Italia) di dare risposte effica-ci e soprattutto di non avere trasmesso in maniera adeguata cultura e competenze per gestire al meglio gli anziani ammalati. Non sono d’accordo: in ogni setting in cui c’era un geriatra o un sanitario che in molti

casi è stato anche un medico di medicina generale o un infermiere abituato a gestire le problematiche degli anziani con le lo-giche della “geriatria” i risultati sono stati evidenti compatibilmente con l’entità del fenomeno che stavamo vivendo. Come sem-pre non si può generalizzare: ci sono stati episodi anche drammatici ma legati più alla rapidità del susseguirsi degli eventi (ripren-do il tema del “tempo”) e alle “incertezze” legate all’inizio della epidemia che al fatto che non ci siano competenze e cultura ge-riatriche. Queste ci sono e sono radicate in tante realtà e sono convinto che molti (anche chi ha ruoli istituzionali) lo sanno: il problema è che siamo di fronte ad un mon-do talmente complesso che a volte negare questa complessità o cercare di semplificar-la è un modo per non entrare in un campo minato e oneroso (dal punto di vista econo-mico, socio-sanitario e psicologico). La sfida è questa e credo che passata l’emergenza ci sia un modo per affrontare e dirimere la questione.Ho avuto la fortuna (come tanti colleghi di-rettori in questo periodo) di avere un grup-po di medici, psicologi ed infermieri che, condividendo con me la responsabilità del-le scelte, non si sono risparmiati: ovunque siano andati (in ospedale, nelle strutture, a domicilio) hanno dato un contributo impor-tante all’assistenza nella logica della “veloci-tà” e della “concretezza” di cui parlavamo sopra, contributo che è stato apprezzato an-che da chi non conosceva il nostro modo di operare e lavorare.Per esempio la testimonianza dei geriatri operativi, per l’emergenza Covid, nei reparti di Medicina dei nostri ospedali è esplicativa: “…L’assenza di medici ed infermieri, ri-sultati a loro volta positivi ed il contempo-raneo aumenti dei ricoveri hanno messo in difficoltà i reparti di Medicina. Noi ge-riatri ci siamo offerti ma non siamo soli: lavoriamo al fianco di oncologi, nefrologi,

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diabetologi, endocrinologi, chirurghi, ga-stroenterologi.. Una bellissima catena di solidarietà in un momento estremamente difficile… Una delle nostre attività è tele-fonare ai familiari che non possono en-trare in ospedale e non sanno nulla dei propri cari.. A volte le nostre sono telefo-nate di sollievo, a volte difficili. Di solito le telefonate avvengono dopo il giro visi-te, intorno a mezzogiorno, un giorno si e uno no, o prima se il paziente “cambi” molto. Questa fase richiede molto tempo, ma è importantissima dal punto di vista umano. Al pomeriggio scendiamo negli ambulatori dove continuiamo a fare il nostro lavoro perché proseguono le telefo-nate di familiari di pazienti con demenza che hanno bisogno di consulenze. I colle-ghi sono stati molto disponibili ad aiu-tarci. Li conoscevamo già da prima per-ché entravamo nei reparti per consulenze o dimissioni protette. Ora però lavorare fianco a fianco nell’emergenza è una espe-rienza utile perché, in un contesto diverso da quello abituale, dobbiamo aggiornarci e studiare linee guida e protocolli. Questo ci porta a metterci in gioco e a diventare umili verso i colleghi più esperti di noi..Ci sono occasioni di gioia intensa come vedere i pazienti riprendersi. Nelle scorse settimane un anziano di 80 anni dopo 10 giorni ha iniziato a respirare meglio e, in visita, è stato finalmente possibile rimet-terlo in piedi. Era così felice di essere fuori da letto che ha fatto una videochiamata con la moglie che si è commossa…”.Ci sono poi altri esempi che raccontano le esperienze vissute da parte dei medici geriatri nel contesto ospedaliero: “…sono ormai il medico dedicato all’area sospetti-covid MPA, ovvero una area di sette letti che accedono per lo più direttamente da PS per sospetta infezione da coronavirus. Il reparto è ovviamente chiuso, le stanza sono singole e le porte delle stanze sono

sempre chiuse. Chi sa suonare il campa-nello è fortunato….I pazienti qui degenti rimangono fin tanto che non faccio dia-gnosi, ovvero covid si/no, per poi essere mandati in reparti covid o in reparti pu-liti, quindi restano al massimo 5-6 giorni. I pazienti non vengono mai mobilizzati, perché essendo la porta chiusa, non pos-sono essere sorvegliati dal personale, per cui l’allettamento è quasi scontato. Chia-ramente vedono solo, e soltanto poche vol-te durante la giornata, gli operatori, che si presentano mascherati anche se da pochi giorni è attivo il servizio di videochiama-te su tablet…Il mio essere geriatra in que-sto contesto sembrerebbe pressoché annul-lato, ma cerco comunque di fare di tutto, ovvero inviare i pazienti quanto prima in aree pulite dove possano essere mobi-lizzati, far portare da fuori oggetti perso-nali o altro in modo che possano sentire i famigliari vicini, parlare e scherzare (per quanto possibile) con loro se ho del tempo, evitare di utilizzare le contenzioni fisiche cercando di sfruttare ogni accorgimento possibile e naturalmente ricorrendo alle terapie necessarie (anche palliative se ce ne fosse la necessità)…”Ma oltre alle testimonianze dei geriatri del territorio che hanno lavorato per circa 2 mesi in ospedale durante l’emergenza Co-vid-19 ci sono le testimonianze dei geria-tri dell’ospedale con cui ci integriamo co-stantemente: “……Per quanto riguarda il personale del territorio l’impatto è stato sicuramente violento, soprattutto per chi è abituato a fare l’attività del medico in sede ambulatoriale, essere catapultato in un ambiente con regole e orari spes-so quasi militari, in cui sai quando devi entrare ma non sai mai a che ora potrai uscire… Questo evento penso che possa essere ricordato come un grande passo avanti tra il mondo dell’ospedale, spesso chiuso e arroccato tra le mura delle corsie

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e il mondo un po’ più aperto e tollerante del territorio. Un passo che segna la rea-le possibilità di collaborazione tra questi due mondi distinti ma che entrambi mira-no allo stesso obiettivo ovvero la salute e il benessere delle persone. Non posso fare a meno di ringraziare i colleghi geriatri del-la disponibilità, per il tempo che ha messo a disposizione, per la attività in ospedale, affrontando situazioni difficili dal punto di vista dell’acuzie e della complessità.. Non hanno avuto paura di affrontare le difficoltà, né hanno mai recriminato sui turni e sugli orari che gli sono stati richie-sti. Credo che quando avremo finalmente superato questo periodo, di cui si inizia forse a vedere un po’ il miglioramento, ci potremo veramente ringraziare recipro-camente per avere affrontato una grande sfida che ha solamente rinforzato la colla-borazione tra operatori della salute..”Tutta l’attività ambulatoriale dei CDCD (Centri Disturbi Cognitivi e Demenze) è stata sospesa pur mantenendo solo le visi-te urgenti che con estrema difficoltà e nel rispetto delle indicazioni sono state garan-tite ; i Centri Diurni sono stati chiusi con tutti gli anziani a casa nelle condizioni du-rissime imposte dal lockdown; gli acces-si nelle strutture bloccate, la possibilità di organizzare dimissioni protette legata alle difficoltà di entrare nei reparti per le valuta-zioni, l’organizzazione dei Nuclei Alzheimer completamente stravolta nelle sue logiche essenziali e la impossibilità di ricoverare le persone (le cui famiglie chiedevano aiuto) in questi contesti.Alcuni geriatri hanno lavorato nell’ Ospe-dale di Comunità, una struttura intermedia che si occupa di gestire la fase post-acuta e la riabilitazione di anziani prima del rientro a domicilio; anche in questo caso mi hanno inviato una bella testimonianza che condi-vido: “…la mia esperienza da geriatra ai tempi del Covid è iniziata in un reparto di

riabilitazione. Già dal primo giorno era evi-dente che anche l’attività di un normale re-parto di riabilitazione, tanto “normale” non era. Essere geriatra al tempo del Covid è un mestiere mutilato perché ben presto mi sono resa conto che mi mancava un pezzo … il caregiver! Al tempo del COVID non è consentito ai famigliari di entrare in una qualsiasi comunità residenziale per cui gli anziani ospiti nel nostro reparto passavano il loro tempo da soli, senza i famigliari né affetti. Oltre a ciò, senza le conoscenze tecnologiche per collegarsi con loro, senza volti conosciuti intorno, senza volti da riconoscere dietro le ma-scherine chirurgiche apparivano ancora più soli … Ho capito che essere geriatra in questo tempo vuol dire sapersi rinno-vare e rinunciare alle convenzioni e alle regole conosciute fino a quel momento. Es-sere geriatra al tempo del Covid vuol dire introdurre la tecnologia delle video chia-mate per poter mettere in comunicazione l’anziano con i loro famigliari o per fare addestramento sulla mobilizzazione o l’u-so degli ausili, vuol dire accettare la torta fatta in casa per festeggiare i 90 anni di una nostra paziente in videoconferenza, vuol dire passare più volte nella stanza oltre al giro visita per fare due chiacchie-re, vuol dire urlare più forte perché dietro la mascherina la voce si sente poco, vuol dire organizzare incontri di carrozzine nel corridoio, alla distanza consentita, per non sentirsi soli, vuol dire non rinunciare alle carezze e al tocco grazie ad un paio di guanti… Essere geriatra al tempo del Covid è inventarsi un nuovo modo di la-vorare ma con un obiettivo sempre chiaro in mente, che è quello che mi ha fatto sce-gliere questo lavoro, pensare sempre al be-nessere dell’anziano come primario obiet-tivo di cura, un benessere fatto di empatia e vicinanza, che non può sottostare alle regole di anonimato, freddezza, paura e

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distanza sociale dettate da questo terribi-le Coronavirus. Non si può morire di soli-tudine prima di morire di coronavirus…”L’emergenza sui disturbi comportamentali è stata gestita grazie alla presenza nella nostra rete di un reparto riabilitativo tutto dedica-to alla demenza (il Nucleo Ospedaliero De-menze ad alta intensità assistenziale presso la Casa di Cura Villa Igea) che è stato man-tenuto Covid-free (con decisione difficile in un contesto che chiedeva di destinare i po-sti letto disponibile alla emergenza stessa) proprio per rispondere a questa esigenza. Perciò la testimonianza che i miei colleghi geriatri di Villa Igea è preziosa:“Appare paradossale parlare di isolamen-to e di una malattia grave quale il Coro-navirus riferendosi ad una categoria di pazienti affetti da una malattia altrettan-to grave come la demenza che, a causa di disturbi del comportamento gravi , co-stringe al ricovero in un reparto chiuso che possiamo definire già di per sè isolato. Tuttavia, come i nostri anziani ci inse-gnano, è proprio da queste situazioni che dobbiamo saper trarre preziosi insegna-menti e così è stato . Al Nucleo Ospedaliero Demenze ad Alta Intensità Assistenziale, (NODAIA) sono state applicate repentina-mente severe disposizioni di isolamento sin dall’inizio della pandemia , facendo sì che i familiari ed il personale non ne-cessario all’unità operativa non vi potesse accedere. Le persone con demenza seppur non completamente consci della gravità della situazione si sono comportati in modo davvero “speciale” perché non han-no causato particolari problemi ed hanno continuato a parlare coi propri familiari utilizzando le nuove tecnologie mediati-che fornite dalla Casa di Cura adattan-dosi al loro utilizzo pressoché immediata-mente. La cosa veramente meravigliosa è stata anche quella di far risaltare, ancora di più, quei sentimenti di amore ed assi-

stenza verso il prossimo che non sempre si tendono a considerare nella routine quotidiana. Con il trascorrere dei giorni l’alzarsi alla mattina e recarsi al lavoro al NODAIA è diventata una necessità sia per continuare a garantire l’assistenza e l’incolumità dei pazienti , sia per rifu-giarsi quasi in un “isola felice” , rallegrata anche dai valori e dall’operato prezioso degli infermieri, dei terapisti occupazio-nali del fisioterapista e degli OSS che oltre al loro prezioso lavoro non hanno mai fatto mancare un sorriso ed una battuta scherzosa a tutti. L’operato attento e vigile della caposala e dei medici ha anch’esso contribuito a mantenere la giusta vigilan-za facendo sì che non fosse “espugnata” la sicurezza di questo luogo. Ad oggi siamo orgogliosi di poter dire che non abbia-mo avuto casi di positività da COVID 19 e siamo vicini ai colleghi e pazienti che hanno dovuto lottare con questo terribile virus. Siamo certi che l’epidemia passerà e anche se nel prossimo futuro la demen-za non sarà debellata questa esperienza ci ha reso più forti e convinti che questa malattia pur facendoti dimenticare prati-camente tutto si giova della vicinanza e della solidarietà del prossimo che sicura-mente vale più di tante terapie e metodi di cura. Un ringraziamento particolare va rivolto anche ai familiari che non hanno intralciato le disposizioni attuate e hanno riposto cieca fiducia nel nostro operato..”. La chiusura dei Centri Diurni ha determi-nato oggettive difficoltà per la gestione de-gli anziani a domicilio in modo particolare quelli con problemi cognitivi e comporta-mentali che chiedono di “uscire; in molti casi li abbiamo supportati con le certifica-zioni per dargli la possibilità di “girare” alme-no intorno alle case e di poter dare sollievo ai caregiver sempre più esasperati. In molti casi il personale dei centri diurni ha avuto la possibilità di recarsi a casa degli utenti per

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poter svolgere alcune attività e mantenere la possibilità di “sollievo” alle famiglie. Molto interessante a questo proposito la testimo-nianza di un operatore del Centro Diurno Alzheimer che dice molto dell’approccio che noi pratichiamo per mantenere e stimo-lare le capacità conservate : “…il mio lavo-ro di sorveglianza attiva sulle persone con disturbi cognitivi, che sto seguendo, inizia nel momento in cui salgo in macchina e mi concentro pensando alla persona speci-fica che vado ad incontrare. Quando entro in casa la prima cosa che mostro è un bel sorriso (ovviamente sotto la mascherina) e un buongiorno a voce squillante. Devo dire che non mi risulta difficile dato che il mio carattere è piuttosto positivo e solare ma adesso ritengo utilissimo comportarsi in questo modo. Durante gli appuntamen-ti del mattino inizio sempre la sessione con un momento che può andare dai 20 ai 30 minuti di risveglio muscolare. Que-sto momento viene accolto molto bene e tutti mi seguono, più o meno, ma mi se-guono. A questo abbino anche l’esercizio del contare. Ogni sequenza di esercizi ar-riva fino a 10 o 20 e insieme a me con-tano anche loro. In seguito inizio con le varie attività. Cerco di strutturare attività che non vadano mai oltre la mezz’ora per evitare di stancarli e annoiarli. In genere porto con me tante cose diverse poi cerco di capire cosa, in quel momento, può es-sere più appropriato…Mi piace proporre attività cognitive, di reminiscenza e crea-tive. Con i miei utenti cerco di instaurare un rapporto di fiducia e di comprensione tanto che se in un determinato giorno non hanno voglia di fare niente di quello che propongo, allora andiamo in cucina e impastiamo una bella torta che poi man-giamo insieme, con un’ottima tazza di tè oppure sfogliamo un vecchio album di foto di famiglia. In questo genere di servi-zio bisogna essere pronti a cambiare con-

tinuamente direzione e programma adat-tandosi alle situazioni. In realtà è la cosa che mi piace di più. Sono loro che mi in-dicano la strada da seguire. Io arrivo con il mio bagaglio di esperienza e di oggetti/attività e loro mi danno la direzione in base a come mi salutano, a come stanno in piedi o seduti, se sono accigliati o sere-ni ecc.…. In macchina mi porto di tutto. Dalle palle in spugna di ogni grandezza, ai birilli, a tutto l’occorrente per le cure estetiche, all’attrezzatura per colorare pa-sta cruda e altri oggetti con i colori a tem-pera, ho tutto un immenso campionario di disegni da colorare con i pastelli o i co-lori a cera o da ritagliare. L’occorrente per confezionare collanine, un gran numero di oggetti di diversi colori per l’attività di riconoscimento dei colori e delle forme. Le lettere per il gioco del “Paroliamo” con tanto di clessidra per misurare il tempo e i numeri per fare i calcoli. Ho il gioco del “Memory” con immagini a colori e im-magini in bianco e nero e diversi libri da cui leggo piccole parti e le sottopongo alle persone più performanti sotto forma di dettato. Prima li faccio leggere poi li faccio scrivere. In questo momento storico non è possibile avvicinarsi più di tanto ma lavo-randoci insieme ho visto che un semplice abbraccio può cambiare radicalmente il loro umore tanto che dopo diventano più sereni e disponibili. Passa tanto attraverso il contatto fisico e quello che non sono più in grado di cogliere con la parte cognitiva la colgono con la parte emozionale. Quin-di cerco di fare questo: trasmettere emo-zioni tenendo vive e attive le loro abilità residue sfruttando tutti gli strumenti che ho a disposizione. Devo dire che l’attività a domicilio mi ha stupita positivamente perché mi ha dimostrato che su tante per-sone è possibile lavorare con un’intensità maggiore ottenendo ottimi risultati. Alcu-ne persone che in gruppo hanno timore

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di mostrarsi, individualmente si lasciano maggiormente andare e lavorano di più. Sono molto soddisfatta del lavoro che sto facendo e avverto che ci sto mettendo tan-to di me. È un servizio in divenire continuo che sto costruendo e adattando giorno dopo gior-no insieme a tutti loro… “Sempre e continuamente i pazienti e le loro famiglie sono state raggiunte telefoni-camente per avere informazioni sullo sta-to di salute, le difficoltà, le problematiche; sempre e continuamente c’è stato il rac-cordo telefonico e digitale (e-mail, skype, lifesize, teams e persino whatsapp che si è rivelato di grande utilità) fra i servizi (in primis il medico di medicina generale) , gli operatori, le famiglie per cercare di suppor-tare ed aiutare e soprattutto far capire che distanziamento fisico fra le persone non è il distanziamento sociale che è un concetto ben diverso. Abbiamo avuto anche la possi-bilità di poter effettuare alcune valutazioni in modalità di call telefonica o di videochia-mata e di attivare, soprattutto per le strut-ture residenziali, il percorso di telemedici-na che auspicavamo da tempo ma che per, vari e complessi motivi, non siamo stati in grado di attivare prima. L’emergenza e la crisi come sempre (e come è stato anche nel periodo del terremoto) diventano una straordinaria occasione per fare cose di cui non avevamo il coraggio, la forza e forse la “volontà” di fare.Gli psicologi dei CDCD ci hanno aiutato nel supporto alle famiglie che avevano necessi-tà di essere rassicurate e informate sulla ge-stione dei problemi quotidiani grazie ad un numero telefonico dedicato a cui potevano rivolgersi per avere questo tipo di supporto; lo stesso numero è stato messo a disposizio-ne delle associazioni dei familiari, da sempre abituate a lavorare con la rete istituzionale, per condividere le stesse modalità di sup-porto e le attività da proporre per le persone

con disturbi cognitivi. Grazie ad un costante lavoro di equipe e alla multidisciplinarietà delle figure professionali coinvolte, i servizi territoriali specialistici hanno attuato delle modalità alternative per supportare le fami-glie attraverso videochiamate, l’invio di foto e video tramite whatsapp per condividere e fare sentire i familiari partecipi della quoti-dianità dei loro cari anche a distanza, l’invio di vademecum e videomessaggi che forni-scono suggerimenti pratici per una migliore gestione domiciliare, un costante supporto psicologico telefonico settimanale per mo-nitorare la situazione, evitare l’isolamento e gestire il disagio psicologico, le paure e le ansie dei familiari rispetto ad un presente che li espone a delle difficoltà significative e ad un futuro incerto. Inoltre, i servizi terri-toriali stanno rinforzando l’assistenza domi-ciliare per andare incontro a tante famiglie che hanno bisogno di un aiuto pratico e concreto a domicilio. E all’interno dei servi-zi è presente, inoltre, un costante supporto psicologico anche verso gli operatori che hanno lavorato stanno lavorando in prima linea per affrontare questa emergenza sani-taria.Un fronte importante è stato quello delle RSA (che in Emilia-Romagna si chiamano CRA “case –residenza”) dove i geriatri, insie-me ad altri specialisti quali infettivologi, me-dici palliativisti e medici dell’emergenza – urgenza sono stati chiamati ad operare per supportare i medici di struttura in quelle, per fortuna non la maggioranza, in cui c’e-rano da gestire casi Covid che non richie-devano la necessità di ospedalizzazione sia perché c’erano le condizioni per eseguire i trattamenti e l’assistenza in sede sia perché vi era la necessità di mettere in campo cure palliative che gli ospedali in questo con-testo di emergenza non sarebbero state in grado di erogare. Per quest’ultimo aspetto strategica è stata l’alleanza e la condivisione con le famiglie (anche a distanza e con con-

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tatto continuativo) sulle scelte da adottare, scelte che hanno sempre cercato di rispet-tare i bisogni e i desideri delle persone pur in contesto di emergenza. Questo forse è stato il lavoro più difficile come di evince da alcune testimonianze : “l’organizzazio-ne del nucleo è stata stravolta.. tutto è di-ventato come un vero reparto con regole rigide e protocolli ben strutturati.. Nulla è più lasciato al caso.. Più volte al gior-no si fa il giro visite, si chiedono esami, si tengono monitorati i parametri, si fanno terapie infusive e quant’altro, si richiedo-no i tamponi e soprattutto si cerca di non lasciare gli anziani soli cercando là dove è possibile di tenere informati i familiari e dare loro la possibilità di parlare con il loro caro anche in situazioni di gravità. Non potrò mai più dimenticare un anzia-no che “accarezzava” il tablet mentre salu-tava la moglie o i figli…Nella maggior parte delle CRA della nostra provincia che non hanno avuto casi Covid (grazie ad azioni di chiusura tempestiva al mondo esterno e di controlli a tappeto sul personale e all’uso di dispositivi di protezio-ne anche a scopo preventivo) i medici di struttura mi riportano : “le infezioni si sono praticamente azzerate.. Non abbiamo più le tante infezioni respiratorie, urina-rie e persino congiuntivali che avevamo costantemente… Sarà stata la chiusura all’esterno o gli operatori sono diventati più consapevoli ed attenti a pratiche es-senziali come il lavaggio delle mani ? .. E poi.. Da quando i familiari non sono presenti in struttura abbiamo notato una riduzione drastica dei disturbi comporta-mentali.. Sono tutti più sereni e partecipa-no a tutte le attività senza problemi ! Sarà un caso ?..”Tutti riconosciamo l’importanza della rela-zione fra gli ospiti ed i familiari e la stessa importanza della loro presenza nella strut-tura ma verrebbe da chiedersi: questo è

sempre un bene specialmente per chi ha problemi cognitivi come la maggior parte degli ospiti delle strutture ? Forse avremo da riflettere su questo nel prossimo futuro e valutare anche la possibilità di modelli e strategie assistenziali che tengano conto di questo.Nelle strutture con casi Covid (insorti nella struttura ma non trasferiti da altri presidi as-sistenziali ) ci ha aiutato molto la possibilità di supportare l’equipe assistenziale non solo telefonicamente ma anche con atti concreti: la reperibilità costante (anche nei festivi) o la presenza in loco, la disponibilità di tutti i dispositivi di protezione per gli operatori (che finalmente siamo riusciti a far avere in tutte le situazioni) , le modalità veloci per richiedere tamponi ed esami, il collegamen-to con il Pronto Soccorso attraverso la tele-medicina (per esempio la possibilità di mo-nitorare la saturimetria e decidere subito il trasferimento in ospedale), il collegamento pressoché costante fra i presidi dell’azienda sanitaria e la struttura. Alcuni pazienti delle strutture sono deceduti ma tanti altri, gestiti in loco, sono “guariti”, guarigione accertata con la doppia negatività del tampone che , insieme alla assenza di nuovi casi, ci fa ben sperare , senza abbassare la guardia, che for-se l’emergenza si stia risolvendo anche se avremo bisogno di tempo per “ricostruire” ed analizzare.Non posso non citare l’esperienza di alcuni geriatri nelle USCA, le Unità di Continuità assistenziali, attivate per gestire, anche pre-cocemente, le persone Covid- positive a do-micilio sia dal punto di vista terapeutico che di prevenzione e monitoraggio. Le equi-pe territoriali composte da medici ed infer-mieri sono attivate dal medico di medicina generale con cui poi sono in stretto contat-to per la gestione ed il monitoraggio dei casi. Riporto dal diario di Vanda Menon, da sempre impegnata nel raccontare le storie legate alla sue esperienze di medico e di ge-

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riatra che fa capire molto bene di quanto sia elevato l’impegno dei servizi per garantire questa attività: “..Ore 8.30: ci si ritrova alla 216, sede operativa da cui partono gli equipaggi per le visite domiciliari, ci si ag-giorna sulle telefonate ai MMG pre parten-za e sui casi in follow up. Nell’altra stanza il telefono fa uno squillo, la Collega corre a rispondere: è la linea dedicata esclusiva-mente alle segnalazioni di casi da parte dei MMG. L’infermiera entra e porta, oltre a un bel sorriso di buongiorno, i kit per l’uscita della mattinata. Poi ci si prepara, si guardano di nuovo le schede dei pazien-ti compilate dai Colleghi che fanno triage telefonico e che visiteremo stamattina, si controlla che i dati siano tutti presenti nel modulo di uscita: nome e cognome del pa-ziente, indirizzo e numero di telefono, cel-lulare del MMG. Poi si parte. Il mio Collega stamattina è Francesco, un ragazzo pieno di buonumore e competenza professiona-le. Il compagno di lavoro ideale: capace di suggerirti le manovre più utili per la pro-tezione individuale (oltre a quelle impa-rate al corso USL) ma anche di farti sorri-dere con una piccola battuta che stempera la tensione. Si parte alla volta del primo paziente, lui guida, io faccio la telefonata: “Buongiorno, siamo i medici dell’USCA, stiamo arrivando a casa sua per visitarla come d’accordo col suo dottore… Si ricor-di di indossare la mascherina senza val-vola e di arieggiare la stanza in cui si tro-va...” .Piccoli consigli dati al telefono, a uno sconosciuto, a cui si chiede se ha avu-to la febbre in mattinata, se la tosse è cre-sciuta, se fa fatica a respirare, cercando di infondere nella propria voce qualcosa di umano e rassicurante, perché dall’altro capo del telefono, oltre all’affanno a ogni parola, si percepisce un misto di paura e ansia. Siamo arrivati davanti alla casa. Inizia la vestizione coi DPI; è il turno di Francesco, lui indossa i vari dispositivi di

protezione ed entra in casa del paziente, io resto fuori e registro tutti i dati clinici della visita e, all’occorrenza, parlo con la centrale operativa dell’USCA. Sì, perché chi entra non può poi toccare più niente, nep-pure una biro o il cellulare. Una volta fini-ta la visita Francesco esce e inizia la sve-stizione, che richiede ancora più attenzione a ogni passaggio, per il perico-lo della contaminazione in caso di contat-to coi materiali usati. Intanto Angela, l’in-fermiera in turno con noi, sanifica ogni singolo oggetto utilizzato a contatto diret-to col paziente: termometro, saturimetro, fonendoscopio, sfigmomanometro… Ange-la è una bella ragazza dai colori mediter-ranei, carnagione ambrata, occhi e capelli neri, sguardo intenso e con una risata contagiosa. Riesce a farti sorridere e mette allegria, pur non perdendo di vista nes-sun dettaglio durante la sanificazione. Una volta usciti dalla casa del paziente si fa sempre una telefonata al MMG per raggua-gliarlo sullo stato di salute attuale del suo assistito, ci si confronta, si concorda cosa fare. E’ un bello scambio, fatto di fiducia re-ciproca: lui ti affida il suo paziente, che co-nosce, tu gli restituisci il tuo giudizio clini-co di cui lui non dubita. Ci si saluta come tra camerati, sperando di aver fatto la cosa giusta. Si risale in auto, nuovo indi-rizzo, nuovo paziente da andare a visita-re. Stavolta a entrare in casa sarò io, Fran-cesco resterà fuori a registrare i dati; tutto come prima ma, come in uno specchio, i gesti saranno uguali ma opposti: io mi ve-stirò e lui mi dirigerà nella giusta sequen-za. Sono fortunata, lui mi guida con sicu-rezza e attenzione. Mi sento al sicuro. Suoniamo il campanello della piccola pa-lazzina in fondo alla via. Ci risponde una voce affannata di donna. “Terzo piano, vi apro”. Saliamo col nostro armamentario, pronti a entrare nella vita di questa giova-ne donna di cui non conosciamo nulla se

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non le poche, essenziali note della sua scheda: Maria C., diabetica, tosse e febbre da 3 giorni, da ieri dispnea. Maria ci apre con la mascherina fin sotto agli occhiali, spessi, tipici da miope. E’ in tuta, magrissi-ma, le maniche le “ballano” sopra le brac-cia che si intuiscono sottili come stecchini. La saluto, mi fa un piccolo cenno del capo. Anche col volto per più di metà coperto si intuisce il suo nervosismo, la sua paura. Probabilmente non tanto di noi, “Marzia-ni dell’USCA” ma di ciò che potrebbe emer-gere dopo la visita: un eventuale ricovero? Qualche parametro pericoloso? Ormai ri-conosciamo la tensione e la paura che queste persone avvertono al nostro ingres-so. Le spiego che per prima cosa le misure-rò la temperatura. Fa un piccolo cenno d’intesa col capo. Lo sguardo di Maria è vigile, attento a ogni mio movimento, ca-pisco che vuol collaborare eppure istinti-vamente il suo piede sinistro indietreggia appena io mi avvicino per misurare la temperatura con il termometro a infraros-si. “37 e 6” urlo al mio Collega fuori dalla porta dell’appartamento, sul pianerottolo. “OK, annotato”, mi conferma con la sua voce calma. Intanto spiego brevemente a Maria come procederemo. Sempre dire un comando alla volta, mi ripeto mental-mente mentre cerco di modulare la mia voce in un tono rassicurante. Le manovre si susseguono. Francesco registra i dati che gli trasmetto, Angela sanifica ogni stru-mento. “Ecco Maria”, le dico alla fine della visita “Ora abbiamo finito”. Le spiego bre-vemente cosa risulta dalla visita, cosa le proponiamo come terapia di supporto al domicilio, le insegno come usare il saturi-metro che le lasceremo in consegna, cosa dovrà fare lei in caso di cambiamenti del quadro. Infine la salutiamo, la sua voce ora è più tranquilla, nessuno ha parlato di ricovero per ora! Si riparte e di nuovo si va verso un nuovo paziente da visitare.

Così si susseguono le visite di questa mat-tinata… Nel pomeriggio altri Colleghi fa-ranno un nuovo turno, con nuovi casi da valutare al domicilio, alcuni di noi saran-no di nuovo al triage telefonico coi MMG, altri Colleghi faranno un nuovo turno coi pazienti da monitorare telefonicamente, attenti a ogni eventuale segnale di peggio-ramento. Il significato di tutto questo lavo-ro d’equipe? Capire tempestivamente, sia nei pazienti covid positivi che in quelli con sospetta infezione da coronavirus, quale tipo di intervento attuare, deciden-do se inviare in ospedale o se aspettare, mantenendo però un controllo stretto del-la situazione, con un continuo passaggio di informazioni sia dal paziente che dal MMG. E poi c’è il lavoro di altri Colleghi USCA per sapere in tempi velocissimi i ri-sultati dei tamponi, in modo da poter eventualmente intervenire precocemente sui malati positivi con i farmaci messi a disposizione dai protocolli appena studia-ti. E la corsa verso il PS per la verifica degli esami strumentali appena richiesti per i malati fatti trasportare dal domicilio all’ospedale dall’equipe in uscita… Alla regia di tutto i due Medici di organizza-zione che ogni lunedì mattina accolgono “quelli dell’USCA” con un briefing nel cor-ridoio. E noi, Usca-team, siamo tutti lì ad ascoltare, alla giusta distanza di sicurez-za gli uni dagli altri, ragionando su pro-blematiche e nuove indicazioni, condivi-dendo decisioni ponderate sulla base di ragionevoli modifiche rispetto a quel che succede nel nostro distretto, ai dati dell’o-spedale, alle notizie di nuovi approcci dia-gnostici e terapeutici. Si ascolta, si impara, si danno e si ricevono input, tra Colleghi che solo fino a poche settimane prima co-noscevi a volte solamente per nome. E ora invece sono i tuoi compagni di lavoro e affideresti la tua vita nelle loro mani per-ché hai imparato a riconoscerne il valore,

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la dedizione, l’impegno nello svolgere ogni singola manovra. … Sono grata ai miei compagni di viaggio, medici e infermie-ri… Sono consapevole sia della paura che ognuno di noi si porta dentro ogni volta che entra in contatto con la malattia, ma anche del grande coraggio e della profes-sionalità che anima e governa ogni gesto compiuto. E sì, mi sento anche orgogliosa di poter contribuire, nel mio piccolo, a svolgere un buon lavoro collettivo, come una macchina ben oliata, che produce ri-sultati e fa sentire i singoli come parti im-portanti del tutto….Che dire di più ? Spero di aver contribui-to, con le riflessioni ed i diari (che stiamo raccogliendo per cercare di portare una testimonianza concreta dell’esperienza che ci ha “arricchito in questi mesi”) a dare un’idea del lavoro svolto nell’assistenza agli anziani in periodo di emergenza Covid-19 dal punto di vista chi lavora in un sistema a” rete” (fra ospedale e territorio , fra medici di medicina generale e specialisti, fra servizi sanitari e socio-sanitari, fra servizi di assi-stenza e prevenzione) che dimostra tutto il suo valore e la sua concretezza in situazioni di crisi come questa che la possono mettere a dura prova.

Vorrei citare tutti i miei colleghi per ringra-ziarli (non ho avuto ancora il tempo di farlo pubblicamente) del lavoro che hanno svolto negli ultimi 3 mesi e che hanno contributo con le loro testimonianze : Lucia Bergami-ni, Sonia Bertoli, Elisa Casali, Lucia Feder-zoni, Maria Elisa Finelli, Barbara Manni, Massimo Mannina, Vanda Menon , Giu-liana Micale, Rocco Marra, Antonella Pel-litta, Consiglia Presicce, Teodosio Pafundi, Andrea Toschi, Marina Turci, Antonella Vaccina, Mara Veschi, Davide Zaccherini, Andrea Zanasi, Patrizia Zucchi ; i colleghi geriatri di Villa Igea: Roberto Chiesa, Lin-da Morselli, Valentina Guerzoni, Adriano Tarozzi; le psicologhe: Annalisa Baglieri, Petra Bevilacqua, Chiara Galli, Silvia Ma-garelli, Simona Moscardini; le infermiere: Lucia Contrucci, Antonella Florini, Patri-zia Gasparini, Giusta Greco, Francesca Manicardi, Katiuscia Monari, Teresa Or-landini, Barbara Palladini, Adriana Ron-catti, Cesarina Santinelli, Annamaria Tur-turici.

Un ringraziamento particolare all’opera-trice OSS a domicilio : Federica Malagoli.

ANDREA FABBO

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 129-132

4. Verso il futuro: le ferite provocate dal virus e la rinascita

Tra congiunti e affetti stabili, andrà tutto bene.

DIEGO DE LEOBrisbane

[email protected]

Francamente, aldilà dell’ottimismo d’ordinanza, non so si possa ancora dire che “andrà tutto bene”. A me il futuro appare piuttosto incerto; molte le questioni aperte capaci di influenzare grandemente ogni svi-luppo: quale l’origine del virus? La sua possibile persistenza e le pro-babili mutazioni? Si attenuerà? Tornerà in autunno? Quali ripercussioni a livello sociale? Andremo incontro ad un periodo di forti tensioni e di irreversibile recessione economica?

Non è andata bene

Intanto, si può abbozzare qualche iniziale, amaro bilancio. Di certo non è andato tutto bene per chi la COVID-19 l’ha vissuta sulla propria pelle, soffrendone i sintomi, subendo magari un ricovero ospedaliero, perdendo una o addirittura più persone care. Al momento di scrivere questo pezzo (4 Maggio), gli italiani che hanno perduto un proprio caro sono quasi 30.000. Questo dato è notoriamente sottostimato, dal momento che nel marasma generale degli ultimi mesi non c’è stata la possibilità di verificare le cause di morte di tutti i deceduti, soprattutto di quelli a domicilio, negli istituti per disabili e in quelli per anziani. Non è andata bene per quelli che, nelle sancite condizioni d’isolamen-to sociale e quarantena, chiedevano notizie dei propri cari ricevendo solo vaghe risposte. Non è andata bene per chi non ha avuto l’opportu-nità di un ultimo saluto ne’ la possibilità di organizzare o partecipare a un rito funebre. Non è andata bene per chi ha dovuto fare inaccettabili ricerche per sapere dove fosse finita la salma del proprio congiunto, o per chi ha avuto difficoltà di ottenerne l’urna con le ceneri.Poteva andare molto peggio a chi di coronavirus si è ammalato e ha avuto molta paura di non farcela. Penso a chi questo timore se l’è porta-to dentro mentre cercava di aiutare gli altri. Penso ai molti colleghi che si sono spesi fino allo sfinimento per dare sollievo a pazienti dai destini molto incerti, in assenza di un protocollo valido con cui operare ma in presenza di un numero insopportabile di decessi tra i ricoverati. Così come intollerabile è il numero di colleghi che non ci sono più, oltre al personale sanitario che ha pagato con la vita l’esercizio della professio-ne in condizioni di insufficiente protezione e sicurezza.

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130 DIEGO DE LEO

Una parentesi personale

Durante questi mesi, alcuni miei amici e co-noscenti si sono ammalati; con apprensione, ho seguito a distanza i loro sintomi e i loro timori. All’inizio, Skype mi ha dato l’illusio-ne di comprendere sofferenze e caratteristi-che della malattia. Poi, per il tramite di mia madre (classe 1928), con badante positiva al virus e marito di lei ricoverato per lo stes-so motivo, ho cominciato a capire meglio di che cosa si trattava. Con angoscia crescen-te ho atteso l’insorgere dei sintomi in mia madre, temendo di non poterla rivedere più nel giro di pochi giorni. Ho quindi avuto esperienza diretta dell’assistenza sanitaria approntata per l’emergenza. Breve resumé di quei giorni: dopo molte telefonate a vuoto, riesco a prendere con-tatto con il medico di base di mia madre. Questi s’impegna a fare la doverosa segna-lazione all’Ufficio Igiene. Dopo 36 ore dalla prima telefonata al medico di base, ricevo in effetti una chiamata da parte di un’inca-ricata dell’Ufficio Igiene che, pur rifiutando-si di fornire il proprio nome, mi garantisce l’esecuzione del tampone al domicilio di mia madre entro un giorno. Perplesso ma fiducioso, attendo. La località in questione è Rovigo (mia città natale), la più meridiona-le del Veneto e la meno contagiata di tutta la regione. Nonostante numerosi solleciti, il tampone a mia madre si ferma alle buone intenzioni. Non verrà mai eseguito. Miracolosamente (non mi viene altra paro-la), mamma è ancora al mondo, passata in-denne da un’occasione di contagio sicuro che data 23 marzo, ultimo giorno in casa della possente badante ucraina. I contatti con quest’ultima li ho avuti anch’io, e di fat-to per diversi giorni bene non sono stato, ma il tampone non l’ho ottenuto, formal-mente perché un’altra voce anonima – cre-do dello stesso ufficio di cui sopra – mi sot-tolineava che la mia temperatura non aveva ancora raggiunto i fatidici 37 gradi e mezzo.

La mia segretaria, infermiera professionale in condivisione part-time con una frequen-tatissima UTAP con sei medici di base, pur tossendo come una tubercolotica della Giu-decca e pur confidando italianamente in una corsia preferenziale (essendo maritata a primario ospedaliero), otteneva il tampo-ne solo 10 giorni dopo l’inizio di inquie-tanti sintomi febbrili e respiratori. L’esito si faceva attendere per altri dodici snervanti giornate, per risolversi in un verdetto di test ‘contaminato’, non utilizzabile. Con la lettera di un legale alla direzione sanitaria, la mia segretaria otteneva in giornata un nuovo tampone, con esito fortunatamente negativo. Quanto sopra nel Veneto felix, quello dei test a (quasi) tutti. Ovviamente queste espe-rienze personali – di cui mi scuso - non sono generalizzabili, ed è davvero buona sorte che derivino dalla regione che in patria ha rappresentato uno dei migliori modelli di reazione alla COVID-19.

Che cosa è successo

Delle differenze regionali si è detto e scrit-to molto; a me pare comunque presto per trarre conclusioni lontanamente definitive. Di certo ha fatto molta impressione la gi-randola di esperti e di opinioni, spesso pre-sentate come evidenze incontrovertibili nei vari canali televisivi. Se da un lato appare comprensibile la ricerca del maggior effetto mediatico con l’esperto che ha capito tutto, dall’altro un più corretto approccio scienti-fico avrebbe dovuto suggerire maggior cau-tela nelle spiegazioni, connotandole come semplici ipotesi interpretative. E’ chiaro che l’esperto che dice ‘non so’ non torna in te-levisione; a quanto pare, tutti vogliono tor-narci. Così, anche contraddicendo proprie precedenti apparizioni televisive, alcuni grandi esperti di SARS-CoV-2 hanno finito per alimentare fantasie complottistiche da far impallidire i più ostinati terrapiattisti,

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131TRA CONGIUNTI E AFFETTI STABILI, ANDRÀ TUTTO BENE.

in definitiva screditando la scienza in toto. Questo lo ritengo un danno importante per una nazione che tradizionalmente investe assai poco per la ricerca scientifica, e che dall’esperienza tragica di COVID-19 poteva invece individuare opportunità per motiva-re una generazione di nuovi ricercatori.Vero è che nemmeno calibri del tipo di Sir Patrick Vallance (Regno Unito) o Anthony Fauci (Stati Uniti) hanno avuto o hanno vita facile nei rispettivi paesi. E nemmeno l’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità esce bene dal giudizio sulla gestione di COVID-19, tra le molte incertezze (vedi oltre) inspiega-bilmente dichiarando lo stato di pandemia solo l’11 marzo. Dall’8 dicembre, data del primo caso diagnosticato a Wuhan dall’or-mai celebre Dr. Li, era intercorso molto tem-po per permettere adeguate preparazioni e approvvigionamenti. E anche se i dati asiati-ci ci fossero stati presentati con grossolane minimizzazioni, è evidente che paesi come Cina e Corea del Sud abbiano reagito molto prontamente all’epidemia, dimostrando una capacità di reazione e di organizzazione an-cora irraggiungibili per gli standard di casa nostra. Ad oggi, a Hong Kong sono riportati quattro morti per COVID-19, mentre nella Nuova Zelanda di Jacinda Ardern (balzata alle cronache internazionali per la tempesti-vità degli interventi di contenimento) i de-ceduti sono 19 (Hong Kong ha sette milioni e mezzo di abitanti, la Nuova Zelanda meno di cinque milioni). Come detto, l’OMS non ha certo ben figu-rato, anche la stringa quasi inarrestabile di suggerimenti contraddittori sull’uso delle mascherine e per l’enfasi posta sui casi gra-vi, una linea di condotta purtroppo seguita ampiamente in Italia, da ritenersi però un tragico errore. A parte l’iniziale condanna degli otto medici (tra cui il Dr. Li) convinti della presenza cli-nica di un nuovo virus e bollati come diffu-sori di false notizie e delatori, in Cina si è ca-

pito molto rapidamente che era necessario testare e monitorare tutti i casi, soprattutto quelli lievi, e tutte le persone che avevano avuto un contatto diretto - specialmente se protratto - con soggetti infetti. Inoltre, a Wuhan ogni otto ore più di duemila ope-ratori s’incaricavano della tracciabilità dei contagi. Nel giro di pochissimi giorni, a test con sensibilità del 30% si sovrapponeva il blocco totale della città, una strategia che è già una pagina di storia del public health management.

What next?

Non so se raggiungeremo l’immunità di gregge, ma ho la sensazione che il virus ci lascerà vivere. Riprenderemo, più disin-cantati di prima. Certo, governi che hanno gestito con tempestività ed efficacia il con-tenimento della pandemia otterranno l’am-mirazione dei loro cittadini; al contrario, per altri governi ritardi organizzativi e mortalità elevate metteranno ancora più nudo pro-blemi cronici preesistenti e difficoltà am-ministrative. È possibile che il successo di gestioni regionali e locali nel contenere la pandemia aumenti il senso di appartenen-za dei collettivi di quelle realtà e stimoli la frammentazione, cioè la separazione da am-ministrazioni percepite come meno virtuo-se. Un po’ quello che sembra stia accadendo all’Europa. Ecco quindi che un problema di salute pubblica e di gestione sanitaria come quella della pandemia da SARS-CoV-2 po-trebbe diventare il trigger di modificazioni sociopolitiche importanti. Seguo con la poca attenzione di cui sono capace le vicende americane. Le divisioni e le disuguaglianze che stanno emergendo come corollario della pandemia a volte mi suggeriscono l’ipotesi che anche gli Stati Uniti possano diventare un giorno meno Uniti e dar luogo a processi di frammenta-zione che potrebbero condurre a forme oli-garchiche di controllo estese ben oltre gli

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attuali confini nazionali. Penso allo strapo-tere attuale di giganti come Amazon, Micro-soft, Apple, Google: non necessitano più di alcuno stato… Come ricordato da me e Marco (Trabucchi) in un recente Commento su International Psychogeriatrics (2020), la pandemia da SARS-CoV-2 ha messo in atto una cinica operazione di chirurgia demografica, fal-cidiando selettivamente la popolazione di ultrasettantenni, che nel nostro paese – ma non solo - si è trovata a contribuire per qua-

si l’85% al numero totale dei decessi. Nel suo discorso di presentazione del Global Financial Stability Report del Fondo Mone-tario Internazionale del 2012, Christine La-garde ebbe a dire, “Old people live too long and this is a risk for the global economy. We must do something, urgently” (Lagarde C., 2012). Fosse vivo, Andreotti non manche-rebbe di suggerire che “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”…

Ad majora.

DIEGO DE LEO

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 133-136

Quali le conseguenze dell’epidemia sugli operatori sanitari?

FABRIZIO ASIOLIReggio Emilia

[email protected]

Introduzione

Non è troppo complicato individuare quali sono i fattori stressanti che hanno messo a dura prova gli operatori della sanità impegnati ad affrontare l’emergenza che si è verificata nel nostro Paese. È invece più difficile immaginare le possibili ripercussioni future sui singoli individui, provocate dall’impatto con gli stressor specifici di questa esperienza, sia nel breve che nel lungo periodo. Non riuscire a deli-neare con precisione queste ricadute, rende di conseguenza arduo il tentativo di fare previsioni sugli effetti che potrebbero determinarsi. Questo perché, mai come nelle situazioni più drammatiche e di stress intenso e prolungato, le “risposte” individuali tendono a differenziarsi. Anche di molto. Ciò a testimonianza che, di fronte agli stessi eventi e ai medesimi insulti emotivi, la vera differenza la fanno alcuni requisiti individuali che sono in grado di renderci capaci di maggiore o minore resilienza. Una ragione che infatti determina risposte tanto diverse fra gli individui riguarda alcune caratteristiche strutturali della personalità, la principale delle quali è la capacità di adattamento di cui è dota-to quell’individuo. Questa attitudine è molto variabile da soggetto a soggetto: ad un estremo ci sono persone dotate di maggiore duttilità; all’altro, invece, soggetti che utilizzano strategie molto più rigide per confrontarsi con le avversità.

La ricerca dell’omeostasi

L’incessante impegno di ciascun essere vivente a preservare sé stesso è una componente fondamentale dell’esistenza che viene definita col ter-mine omeostasi. Esiste cioè una attitudine biologica a mantenere il pro-prio equilibrio interno e relativamente costanti le caratteristiche che lo contraddistinguono. Questa capacità di autoregolazione degli orga-nismi, vitale per la sopravvivenza, si attiva in difesa degli stimoli provo-cati dai continui cambiamenti interni che si verificano come riverbero delle sollecitazioni provenienti dall’ambiente circostante. Inizialmente limitate al corpo, in tempi più recenti le osservazioni sull’omeostasi hanno mostrato una piena validità anche in ambito psicologico. E’ infat-ti possibile osservare, in molte e diverse circostanze, l’emergere di una certa tendenza della mente a mantenere costanti e stabili sia stati inter-

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134 FABRIZIO ASIOLI

ni (psichici) che esterni (comportamentali). I fenomeni della costanza percettiva degli oggetti e degli ambienti, della persistenza dei tratti del carattere, degli atteggiamenti e dei sentimenti, o delle abitudini, sono esem-pi di quanto anche la nostra mente tenda - almeno entro certi limiti - a difendersi da una eccessiva stimolazione e dall’intrusio-ne delle sollecitazioni ambientali. Tuttavia, in direzione del tutto opposta, è possibile anche osservare come, proprio le condizio-ni di omogeneità, di uniformità, di ordine e di ripetitività – quando troppo accentuate - possano condurre ad una forma specifica di saturazione della mente, quando costitu-iscano un aspetto sistematico e dominante della vita, sia interna che esterna. La mono-tonia e la noia rappresentano esperienze conseguenti, che sono diffuse e conosciute da tutti noi e dalle quali tendiamo compren-sibilmente a rifuggire. Dunque la mente ha bisogno di difendersi anche da questo tipo di eccesso e introduce in modo attivo, cam-biamenti, novità, discontinuità, anche con-flitti. In psicologia l’esistenza di questa pa-rallela tendenza apparentemente opposta alla omeostasi non è interpretata necessaria-mente come una tendenza antiomeostatica, quindi pericolosa per la sopravvivenza. Al contrario, il bisogno di variazione dell’espe-rienza interiore e del comportamento, rap-presenta un aspetto costitutivo del (buon) funzionamento della mente. Questa attività viene sostenuta da meccanismi e da proces-si che garantiscono la ricerca dell’instabilità, dell’eterogeneità, e che conducono a modi-ficare, sovvertire, rompere stati costanti ed equilibri persistenti. Sembrerebbe quindi che la vita psichica si declini fra la capacità di adattamento all’ambiente e l’attitudine ad esserne anche – almeno in qualche misura - indipendente. L’una o l’altra di tali opposte tendenze possono emergere con maggiore vivacità anche in funzione di esigenze più generali, legate al patrimonio istintivo, alle esperienze ambientali o a determinazioni ed influenze contingenti.

La capacità di adattamento

La adattabilità all’ambiente è una funzio-ne fondamentale degli esseri viventi che permette di accrescere le probabilità della loro sopravvivenza e riproduzione. A parti-re dalle osservazioni di Darwin, questa ca-ratteristica è stata ampiamente studiata so-prattutto in campo biologico ed ha messo in evidenza le sorprendenti capacità degli organismi viventi di mutare i processi meta-bolici, fisiologici e addirittura morfologici al fine di adattarsi alle condizioni circostanti. Anche in campo psicologico i concetti di adattamento e capacità di adattamento han-no cominciato, in tempi più recenti, ad ave-re via via un uso sempre più esteso. Oggi, ad esempio, il termine di dis-adattamento descrive ed esprime in modo piuttosto ef-ficace le caratteristiche di una relazione disfunzionale individuo-ambiente dove la mancanza di un sufficiente equilibrio può manifestarsi con sofferenza e/o comporta-menti inadeguati. Il concetto di resilienza, al contrario, indica la capacità dell’individuo di adattarsi anche a condizioni esterne par-ticolarmente sfavorevoli.Vale la pena di puntualizzare che il concet-to di adattamento psicologico non va inteso solo a senso unico, come capacità dell’in-dividuo di adeguarsi all’ambiente attraver-so la modificazione dei propri schemi di comportamento (in questo caso si parla di adattamento passivo), ma anche come ca-pacità di operare sull’ambiente per trasfor-marlo, realizzando condizioni più adeguate alle proprie necessità (adattamento attivo). In questa accezione risulta più chiaro per-ché la capacità di adattamento viene spesso messa in relazione al concetto di plasticità. Questa nostra capacità viene particolarmen-te sollecitata e messa alla prova dalle situa-zioni di discontinuità e di fronte alle novità, soprattutto a quelle di segno negativo.

L’onda d’urto del coronavirus

L’impatto della infezione da coronavirus su

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135QUALI LE CONSEGUENZE DELLA EPIDEMIA SUGLI OPERATORI SANITARI?

medici e infermieri è stato paragonato, per violenza, a quello provocato da una guer-ra e molti hanno descritto l’impegno e le energie impiegate dai sanitari assimilandole a quelle necessarie a combattere un nemi-co. I primi a ribellarsi a questo paragone (fuorviante) sono stati proprio i medici. Essi hanno colto subito le profonde differenze esistenti – anche rispetto alle caratteristiche e alle conseguenze dello stress - fra ciò che avviene in un conflitto bellico e ciò che sta accadendo a loro. La differenza più macro-scopica è determinata dalla invisibilità del nemico con cui i sanitari si confrontano oggi, rispetto alla visibilità dei comportamenti e della violenza esplicita del nemico in una guerra. Quando il nemico è visibile è più fa-cile difendersi. Non solo sul piano militare, ma anche da quello biologico e psicologico. Nella attuale situazione di emergenza sanita-ria, ad esempio, i sensi non possono aiutare ad identificare l’avversario, né a mantenere alto lo stato di vigilanza e la prudenza con cui affrontare il virus. In queste situazioni, a causa soprattutto della stanchezza, è mol-to più facile abbassare progressivamente la guardia e far aumentare conseguentemente i livelli del rischio (Rozzini R., 2020a). La seconda caratteristica di questo life event è la sua perduranza nel tempo. Come tutti gli studi sull’argomento ci dicono, un even-to puntiforme, che avviene in un periodo circoscritto nel tempo – per quanto grave – è meno traumatico per i nostri meccani-smi difensivi. Invece nello stress cronico, dal punto di vista psicologico, viene continua-mente rimandata e rinviata la possibilità del-la nostra mente di potere elaborare quanto successo (in quanto sta ancora accadendo); sul piano biologico, le sollecitazioni stres-santi, influiscono sul cervello che, attraverso l’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene, determina una risposta ormonale consistente in un in-nalzamento permanente dei livelli di adre-nalina e cortisolo i quali che determinano ricadute, in particolare, sul sistema cardiova-

scolare e sul cervello (soprattutto sul tono dell’umore e l’ansietà). Una terza caratteristica riguarda la fatica, fisica e psicologica (di Diodoro D., 2020). La prima, sulla quale non aggiungo nulla più di quanto non si sappia già, è determinata dal “non fermarsi mai”, da turni che si pro-lungano per giorni interi ed oltre, etc. Piut-tosto evidente, ma meno esplicita, la fatica psicologica sulla quale invece conviene sof-fermarsi, data la sua poliedricità. Il termine inglese con cui si definisce la fatica emo-zionale è compassion fatigue, espressione che rende subito evidente, rispetto all’ita-liano, il problema emotivo che si determi-na nel medico, dovuto alla frustrazione per la apparente inutilità dei suoi atti compas-sionevoli, al senso di impotenza e al timo-re della inefficienza delle cure erogate, ciò che determina il dubbio di non avere fatto tutto il possibile per chi è morto (Rozzini R., 2020b). Nelle situazioni di grande emer-genza vissute dal personale sanitario sono completamente “saltate” la separazione fra mondo lavorativo e famigliare, fra vita pub-blica e privata, fra lavoro e riposo. Con la conseguente rottura di ogni barriera e di ogni limite, che rappresentano invece un importante elemento per la salute mentale (e anche fisica) dei professionisti (Nahon L., 2020). Limiti e barriere costituiscono ele-menti – poco evidenziati (forse perché non appartenenti ad una visione “romantica” del-le professioni di aiuto) ma indiscutibilmen-te utili - che permettono la “sopravvivenza” mentale (oltre che fisica) degli operatori i quali, nel loro lavoro quotidiano “norma-le”, sono chiamati a fare i conti, senza tre-gua alcuna, col il dolore dei pazienti e con il proprio dolore, quello che la sofferenza dei pazienti evoca in ciascuno di loro. E poi l’esposizione massiva con la morte, a causa dei tantissimi pazienti deceduti, evento che ogni giorno si è ripetuto in spregio alla fati-ca assistenziale (a volte addirittura sacrifica-le) profusa. Questo imponente contatto con

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la morte non può non avere contribuito a ridurre (e, in alcune persone, a disintegra-re) la “normale” propensione che gli uomi-ni di oggi hanno ad utilizzare la rimozione della morte, nel tentativo di scacciarla dalla propria esistenza, come se fosse questo un evento che non li riguardasse. Infine la pau-ra. Quella paura, peraltro del tutto “giustifi-cata” (diversa da quella incontrollabile, pani-ca, patologica insomma), determinata dalla natura e dall’entità dell’epidemia. Paura che si presenta come una doppia lama tagliente: quella del venire infettati, quindi di essere vittime del proprio lavoro e della propria dedizione; e quella del poter infettare i pro-pri cari, diventando responsabili e, pertanto, colpevoli della loro malattia. Questo è un elenco, abbreviato, semplificato, didascalico, del coacervo di problemi e del loro impatto emozionale sulle menti degli operatori, con cui essi sono chiamati a fare i conti.

Rischi e fattori di rischio futuri

I sentimenti sopra descritti, in particolare fa-tica, senso di impotenza e solitudine (anche isolamento, quando sul lavoro non si sono verificate le condizioni di solidarietà che per fortuna hanno invece caratterizzato la stragrande maggioranza di situazioni) pos-sono rendere i professionisti più vulnerabili al burn out che è un termine – generico – con cui si descrivono situazioni di sofferen-za che possono originarsi nell’ambiente di lavoro. Le conseguenze psicologiche riscon-trabili nei medici che si sono occupati di pa-zienti affetti da Covid-19 in Cina sono state descritte in un articolo comparso di recente su JAMA (Jianbo Lai N., 2020). Come già pe-raltro descritto in studi precedenti nel cor-so dell’epidemia SARS del 2003, si possono determinare reazioni psicologiche avverse negli operatori sanitari: dai timori ossessi-vi di contagio per sé, i propri famigliari e gli amici, al senso di incertezza o di rifiuto del lavoro, che include anche fantasie di

dimissione e abbandono della professione. Possono inoltre manifestarsi sintomatologie specifiche: ansia persistente, insonnia, de-pressione. L’elemento psicologico scatenante è costi-tuito dalla perdita di senso per ciò che si sta facendo e per la fatica che si sta soppor-tando. Da questo punto di vista, il riconosci-mento pubblico per il ruolo cruciale avuto dai sanitari in questa circostanza e le mani-festazioni generalizzate di riconoscenza che essi stanno ricevendo costituiscono, con-temporaneamente, un segno di vicinanza e anche un fattore protettivo per la loro salu-te mentale. Proprio a questo proposito può nascere un timore. Va ricordato che questo atteggiamento di solidarietà della popola-zione è in netta controtendenza rispetto a quanto si poteva rilevare prima dell’epide-mia. Il sistema sanitario, i medici, le persone che vi operavano erano molto criticati, addi-tati talvolta come responsabili, spesso a tor-to, di ritardi, inefficienze o della morte di un paziente da parte dei famigliari, in altri casi oggetto di insulti o di violenza. La strage di anziani avvenuta nelle RSA è una delle con-seguenze più evidenti dell’epidemia. Molti famigliari si sono detti pronti a denunciare (quando non l’hanno già fatto) eventuali errori o omissioni assistenziali, compiuti in queste strutture e anche negli Ospedali. Si può temere che l’attuale clima di solidarie-tà e affetto nei confronti dei sanitari, potrà risultare molto avvelenato da questi eventi, e in futuro trasformarsi completamente. Se ciò dovesse sciaguratamente accadere, il rischio è che i-non-più-eroi (medici e infer-mieri), i quali erano sicuramente presenti nei luoghi della assistenza, siano chiamati a pagare per errori e inadempienze di altri. Nel caso che l’attuale senso di solidarietà e di gratitudine dovesse trasformarsi in un cli-ma connotato da ingiustizie e aggressività, è chiaro che ciò costituirebbe non solo una beffa ma un elemento di rischio aggiuntivo per la sofferenza degli operatori.

FABRIZIO ASIOLI

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 137-143

Appunti di psichiatria del pandemonio

LEO NAHONMilano

[email protected]

Il “ritorno alla normalità” assume a volte tinte surreali. Il giorno 24 apri-le 2020 la psichiatra di guardia dell’Ospedale Niguarda a Milano viene chiamata in Pronto Soccorso alle 7,30 del mattino per vedere un giova-ne paziente che , per mezzo di un’ambulanza fino a pochi giorni prima appartenente a un mondo imprenotabile, viene trasportato a Niguarda perché angosciato dal fatto che dopo aver preso tre (diconsi tre) com-presse di sertralina, nei tre giorni precedenti, è angosciato per aver verificato la propria… impotenza (“Non riesco più ad avere erezione, sono state quelle pastiglie…”). La psichiatra vorrebbe intervistare gli ambulanzieri, per chieder loro se aveva senso trasportare d’urgenza in ospedale una situazione come questa, ma questi se ne sono andati.Il desiderio di “fase 2” gioca a volte brutti scherzi.Nelle visite a domicilio, l’universo delle monodiagnosi di Covid 19 ri-schia di dare qualche abbaglio ai colleghi. Esasperati dal dover diagno-sticare (o differenziare) ogni giorno quasi solo questa malattia, un col-lega di Medicina Generale, mi confida di essersi sbilanciato in qualche diagnosi “rassicurante” di troppo: “Ma no, probabilmente è solo un raf-freddore, stia in casa riguardato..” - Ma ho la febbre…!” – “Si ma è ancora febbricola…”. Il paziente verrà ricoverato una settimana dopo con una brutta polmonite da Covid 19. L’insopportabilità della monodiagnosi pandemica, porta a volte a un paradossale underdiagnosing. La rassi-curazione del paziente, che è radicata negli abituali riflessi condiziona-ti del medico, diventa autorassicurazione, con una specie di miraggio cognitivo alla rovescia di origine emotiva: “Eh no eh..!, non ancora un altro, sarà pur finita…”.

I malati e l’infezione

Nelle prime settimane l’angoscia di morte da contagio esplode al ral-lentatore anche nei portatori di un disturbo psichiatrico. La negazione all’inizio predomina e, non differentemente dalla popolazione generale, i pazienti tendono a escludere dalla loro mente la scena del infezione mortale: è comunque qualche cosa che riguarda gli altri e non se stessi. Già prendere atto che questo evento possa riguardare un Altro reale, una delle persone conosciute davvero, richiede una propensione all’a-

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nalisi di realtà non tanto comune quando il pericolo è così estremo: finché non accade qualcosa di diretto, finché il mio parente, il mio vicino, o finché una celebrità che io conosco, non viene colpita, io non mi figu-ro questa malattia come qualche cosa che davvero possa avere effetti realmente cosi fatali, e soprattutto immediati. Nel momento in cui effettuo il collegamento il cerchio si chiude e si chiude su di me. La prossima vittima di quel virus divento Io e tutto passa da un’estrema distanza a un estrema vici-nanza. La difficoltà a distinguere tra fantasie e realtà e a mettere a fuoco i particolari (co-munque sempre non facile) viene elevata alla ennesima potenza nelle persone predi-sposte a un qualunque disturbo mentale e il tema della morte esplode in maniera spesso incontrollabile. Il me immaginario in chi ha meno strumen-ti di controllo della propria identità diven-ta esposto in maniera devastante a questa patologia che si presenta come cieca, egua-litaria ma nelle fantasie spaventosamente mirata a sé. E spesso non solo nelle fantasie.

Ortopedia

“È il sesto defenestrato che vedo in pochi giorni: è vero che c’è il cambiamento di sta-gione ma la frequenza è tripla, forse qua-drupla rispetto al solito. La disperazione e la frattura psicotica sono in agguato.…”mi dicono due colleghe ospedaliere. I tentativi di suicidio che sono sempre an-che tentativi di rottura di una prigione in-sopportabile qui riemergono nel loro signi-ficato di anticipazione onnipotente di una morte che appare inevitabile. Per fuggire dall’angoscia mi ci getto incontro: è il mec-canismo controfobico di chi vince il proprio terrore con un atto di “eroismo”, ma qui l’at-to travolgente colpisce la propria vita.Per contro gli operatori dei servizi psichia-trici faticano anche loro, come tutti gli altri operatori sanitari a pensare il loro malato

come prevalentemente affetto da coronavi-rus. La patologia psichiatrica resta e non è subito chiaro a quale rischio dare la prece-denza e soprattutto non è chiaro come si presenterà la nuova organizzazione esterna, materiale, della psichiatria e come si pre-senteranno i cambiamenti della patologia. Tutto il mondo è paese, si diceva una volta; la globalizzazione, così oggi si dice, mostra quanto sia simile (entro certi confini) la re-altà. Ecco il report della collega Emmanuel-le Corruble (2020) da Parigi (Bicetre), che sembra descrivere la situazione di uno qual-siaisi dei nostri servizi psichiatrici “…..all hospital units will have COVID-19+ patients. The wave is here. Unfortunately, the supplies are lacking: hydroalcoholic gel, nose-mouth masks, gloves, protective clothing, and artificial breathing devices. And the staff are afraid. Some are angry and argue for their right to withdraw or resign. Others argue mainly for their pro-fessional duty regarding patients. All fear becoming contaminated and/or contami-nating their family and others. The major-ity of meetings, especially crisis meetings, have been changed to video or phone conferences. In this context, as has been described during periods of war, there are few patients with mental disorders in the emergency department. But we are be-ginning to face the mental health conse-quences of confinement and stress related to fear of contamination and death, with acute episodes of mental disorders, such as psychotic episodes, addictive behaviors, mood episodes, and suicide attempts. We expect a significant inflow of patients in the coming days and weeks. In the psychi-atry department, through teamwork, my colleagues and I have quickly introduced changes in our professional practices to try to adapt to this situation”.Infatti dopo una irreale contrazione inizia-le dell’espressività psichiatrica l’effetto sui gravi pazienti si comincia a percepire.

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139APPUNTI DI PSICHIATRIA DEL PANDEMONIO

Confinamento

Curiosamente esiste una quota di disturbi psichiatrici in cui i pazienti sembrano assor-bire meglio la situazione per lo meno per quanto riguarda il confinamento: chi è già predisposto in senso psicopatologico al ri-tiro e l’isolamento sembra capace di adatta-mento o sta addirittura meglio: “vedere che fuori anche tutti gli altri sono fermi non mi fa più sentire incapace...” e “Tutto som-mato anche prima non facevo una vita troppo differente...”. Curiosamente sono le stesse cose che dicono la maggior parte degli artisti intervistati alla radio e alla tv: musicisti, pittori, scrittori, confermano la di-mestichezza con questa vita di isolamento e centratura su di sé. Alcuni pazienti rivedono la loro inerzia e stasi depressiva come qual-che cosa che ora si rivela addirittura vitale; una specie di capacità di riserva, cui final-mente il mondo deve riconoscere valore e alla quale deve dar ragione: “Avete visto che anche quella di stare isolati, in letargo, senza far nulla che aspettare può rivelarsi una capacità necessaria e utile, e non solo un sintomo? Che questo atteggiamento di stasi strategica può diventare addirit-tura d’esempio per gli altri? “In uno stato d’animo quasi di sorpresa alcuni pazienti si scoprono più normali dei normali nella loro capacità di adattamento a una condizione di assedio universale che ciascuno di loro ha sin troppo conosciuto individualmente. L’idea di un potentissimo nemico che si annida all’ interno, invisibile e potenzial-mente letale non è ignota a quei milioni di persone che hanno sperimentato i più gravi disturbi psichiatrici. Essa potrebbe rappresentare il grave disturbo depressivo, come il terrore schizofrenico, la minaccia suicidaria come l’ossessione intrattabile. È un virus che nessun tampone può dimostra-re e curare se non la capacità e la sensibilità dei curanti e della comunità che sta attorno a questi pazienti .

I sanitari

“Sono andato in PS per una consulenza e ho visto i colleghi piangere come dei bam-bini, eppure li conosco tutti da tanti anni. Quelli reggono davanti alle situazioni più spaventose…”.La collega psichiatra mi riferisce questo con tono solo per un attimo “psichiatrico”… È comunque un tono totalmente solidale, ma anche un po’ clinicamente allarmato: guarda, giustamente, la cosa come un sintomo che affligge i suoi colleghi legato al sovraccarico lavorativo-emotivo di questo periodo. Nelle parole di altri colleghi ho sentito stra-zio e rabbia (apparentemente) rassegna-ta nella la durezza dell’ insulto quotidiani dell’esposizione alla morte dei pazienti .In effetti una delle cose che ci manda avan-ti nel nostro lavoro è sempre stata una ver-sione attenuata e bonaria del “Mors tua,vita mea” o del “Malattia tua, salute mea”. Una delle spinte a curare l’altro credo sia questa specie di illusione di salute (fisica e psichi-ca) che curare l’Altro ci dà. Finché mi ado-pero per il mio malato sto dimostrando a me stesso che sono sano (e salvo).Nella sua malattia specchio la mia salute e la ragione del mio curare. Malgrado la sua morte io sono ancora vivo e questo moltiplica le mie energie a dispetto del l’amputazione che ogni perdita di paziente ci può dare. Que-sta è forse una versione benigna dell’onni-potenza da cui ci mette in guardia Fabrizio Asioli (2020):“Quanto questa epidemia ci sta costrin-gendo a vivere, costituisce (o dovrebbe co-stituire) una grande lezione di umiltà. Sia-mo stati messi di fronte a tutta la nostra impotenza. Come medici e come uomini. Quando sui giornali leggo una narrazio-ne che invece ci descrive che è in corso una battaglia fra la vita e la morte (o che siamo chiamati a combattere qualcosa del genere), mi pare che in questa descri-zione, peraltro epica, faccia di nuovo ir-

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ruzione il vizio (così diffuso, umano, ma così pericoloso) dell’onnipotenza e della negazione della morte e della sua potenza sbaragliante. Fra la vita e la morte non esiste competizione: vince sempre la mor-te, in quanto siamo mortali. Quello della lotta è una descrizione di ciò che avviene, che tende a crearci illusioni e ad essere fuorviante. Anche la Medicina “migliore” non sarà mai in grado di sconfiggere, de-finitivamente, la morte. Molti, anche oggi, pensano che la morte sia il fallimento del-la cura o delle mancate cure”.Forse esiste una sensazione di onnipotenza benigna che verosimilmente è anche alla base dell’eroismo diffuso, che mi sembra apparentato con un altro aspetto poco stu-diato della vocazione terapeutica ovvero la sacrificalità. È difficile spiegare milioni di comportamenti sanitari al limite della so-pravvivenza (ma anche solo al limite della fatica assurda) se non con il reclutamento di una strana propensione a rovesciare le priorità vitali abituali: in presenza di tanta morte e tanto dolore non posso far altro che buttarmi anch’io nella mischia senza badare come al solito all’ordine naturale dei gesti.Non credo che si tratti solo del senso di col-pa (ricordate il Posto delle Fragole di Ing-mar Bergman? “Il primo dovere del medico è chiedere perdono”) anche se certamente la pulsione aggressiva con cui la spinta a cu-rare è fusa lo evoca. La presenza del sentimento di un danno originario è verosimilmente alla base del-la spinta a curare e la ricerca di una ripara-zione si costituisce come impulso vitale che sostiene l’atto del curare cercando di riman-dare la morte... È un compromesso, minimo, con la morte: non potendola abolire, tentia-mo di rimandarla con le cure. E ben vero che nulla possiamo contro alla ineluttabilità della morte ma è altrettanto vero che alme-no un gesto dobbiamo farlo per testimonia-re che non ci arrendiamo subito.

Credo ci sia questa specie di ribellione vi-tale contro il principio di capitolazione alla morte alla base dell’avversione istintiva dei medici all’eutanasia o alla rinuncia alle cure indipendentemente dall’età e dalle condi-zioni del paziente. L’impulso è di tentare co-munque un gesto di riparazione. A sua volta questa spinta è così forte e radicata perché deve opporsi ad altra e più tremenda pul-sione distruttiva che l’umanità ha migliaia di volte sperimentato nella sua storia. Le ri-flessioni su Istinto di vita e Istinto di morte di Freud sono una delle concettualizzazioni di qualche cosa che l’umanità, a partire dai tragici greci, ha sempre più o meno oscu-ramente saputo su se stessa. Tanto ineludi-bile è la spinta a proteggere la vita, quanto spaventosa è l’esistenza di una spinta ugua-le e contraria in forza della quale sono stati commessi assurdi assassini e impensabili ge-nocidi. Tanto oblativamente tende l’uomo a difendere la vita anche a costo della propria, quanto ciecamente è capace all’occorrenza di dare la morte in situazioni sia individuali, che collettive che di massa.

La scelta di Sophie

In tempo di pandemia si coagula la direzio-ne di vita e gli sforzi si unificano perché il nemico è lo stesso. Apparentemente il virus non divide ma unifica l’umanità: ma la scis-sione, la divisione (diabollein) tende a re in-sinuarsi sempre. Ad esempio nel modo più o meno equo di erogare le terapie disponi-bili (e sorvoliamo sulle risse tra le nazioni per l’accaparramento dei presidi terapeuti-ci, mascherine, respiratori ecc.) e vedremo cosa accadrà per eventuali vaccini. Di fron-te a lotte per l’accaparramento esclusivo o prioritario il mercato sarà davvero quella mano invisibile che diventa un equo regola-tore per il soddisfacimento dei bisogni della collettività?.In queste settimane tanti colleghi si sono trovati in terribili situazioni. A volte le scelte

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sono diventate draconiane e apparentemen-te simili alla scelta di Sophie, il personaggio del film di Alan Pakula che all’ingresso in campo di concentramento nazista viene messa di fronte alla scelta di dover tenere in vita solo uno dei suoi due figli: come è pensabile una scelta del genere? Come sce-gliere quale figlio sacrificare?.In realtà dover dare delle valutazioni clini-che relative e comparative fra due pazienti diversi ha sempre fatto parte del ragiona-mento e della difficile prassi clinica quoti-diana. Quale paziente devo dimettere, a ri-schio di dimissione precoce, per liberare un letto necessario per un caso gravissimo in arrivo? Quale paziente rimando a casa per mancanza di posti letti in reparto, tra i due o tre pazienti in attesa in PS? Quale paziente opero prima di un altro malgrado la simile urgenza e gravità dei due? A quale paziente destinerò questa terapia più impegnativa soppesando rischi e benefici e scegliendo di non praticarla all’altro? In molte urgen-ze soprattutto chirurgiche, ma non solo, si presentano scelte alternative di vita o di morte che richiedono opzioni istantanee: praticare o non praticare certe manovre o interventi estremi; ammettere un altissimo rischio operatorio o perdere il paziente. In tutti questi casi, anche senza essere costret-ti alla scelta binaria alternativa, il Medico è abituato a dover calcolare, anche brutal-mente, se e cosa vale la pena o non vale la pena fare. E la pena a volte può essere pro-prio di vita o di morte. Ma queste sono eve-nienze particolari di un paradigma medico che è sempre poggiato su una quota più o meno alta di aleatorietà e rischio. Ogni pre-scrizione terapeutica ha in realtà al suo in-terno la struttura di un esperimento e i suoi esiti vanno dall’estremo della guarigione del paziente a quello opposto della sua morte. Valutare a quale paziente proporre/som-ministrare questo esperimento e quale pa-ziente escludere è una scelta che il clinico

compie di default nel suo lavoro anche in presenza di risorse ampiamente disponibi-li. Ma quello che si è presentato nel corso di questa pandemia spesso è andato al di là dell’immaginabile. Pazienti e medici e infer-mieri si sono trovati mescolati nello stesso gorgo, unificati paradossalmente al di la dei ruoli: i malati dovevano a volte addossar-si scelte impossibili sulla propria salute e i sanitari chinarsi su un paziente che con probabilità spesso imponderabile avrebbe rovesciato la posizione terapeutica trasmet-tendo a loro la propria malattia, o deprivato inconsapevolmente della vita un altro pa-ziente.

Pandemonio

Data la nostra età abbiamo dovuto imparare che curare vuol dire anche organizzare le cure, e abbiamo a volte misurato la nostra impotenza quasi di più sul versante organiz-zativo che su quello della cura del singolo paziente. Nelle parole di Antonio Guaita (2020) trasuda l’odissea dell’organizzazione impossibile che tutti abbiamo dovuto cono-scere, e non solo in questo frangente“Perché è successo? A mio parere perché quasi ovunque le RSA sono considerate strutture senza qualità, punti terminali della rete dove vanno quelli per cui “non c’è più niente da fare”. Cioè: le RSA non fanno parte di una “rete di cura”, sia pure sul versante assistenziale, fanno parte di una rete “collocativa”: rispondono alla domanda “dove la/lo metto” non alla do-manda “dove lo/la curo”: se sei un “conte-nitore” quello che si misura è solo legato ai cosiddetti bisogni primari, dove il residen-te è un soggetto puramente passivo, dal quale non possiamo/dobbiamo aspettar-ci nulla. Gli indicatori diventano le firme sulle cartelle, la presenza di fascicoli mo-struosi, pieni di scale di valutazione che non aggiungono nulla alla qualità della cura delle persone ma diventano solo un

APPUNTI DI PSICHIATRIA DEL PANDEMONIO

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altro schema classificatorio, tassonimico, disenterpretativo”.

E ancora:

“(In RSA) ho visto franare la efficacia dei confinamenti interni per la mancanza tragica di personale per cui non c’è più stata da un certo punto in poi la totale separazione ma alcuni infermieri hanno dovuto operare sia sugli infetti che sugli altri (certo con DPI, magari di fortuna, togliendo e mettendo: ma per quante vol-te e con la giusta procedura?). Sappiamo quali sono gli standard di personale, che per fortuna tutti aumentano ( i prescritti minimi 901 minuti settimana ospite è più o meno lo “standard” delle carceri, alme-no così l’ultima volta che ho verificato). Sono questi a mio avviso gli indicatori della concezione contenitiva e residuale che hanno favorito una presenza di foco-lai epidemici così diffusa in tutte le RSA meno alcune. Poi certo la malattia come dice Rozzini è in molti casi mortale e non abbiamo se non armi spuntate in cui la morte va anche accettata come evento inevitabile”.E tutto questo fa ancora più rabbia, se ci morde il dubbio che a quelle mancanze organizzative si sarebbe potuto ovviare se l’ignavia e l’opportunismo di molti ammi-nistratori non avesse prevalso. Curare con equilibrio malgrado queste perdite resta il nostro obbiettivo. Lo dice straordinariamen-te bene Renzo Rozzini (2020) in un articolo che riporta il palpito della sua esperienza quotidiana. “Poi si è partiti pronti ad accogliere per-sone… Alcune delle quali sarebbero mor-te durante la notte e altre moriranno. Le morti sono un macigno pesante per me-dici e infermieri: nessuno di noi ha mai sperimentato concentrazioni di sofferen-za e di mortalità così elevata. Ieri mattina in uno studio medico una mia giovane

collega, seduta in terra, piangeva dispera-tamente; finiva il turno di guardia nottur-na e durante la notte aveva constatato la morte di otto persone “Uno aveva l’età di mio papà , non sarei in grado di tollerare la morte di mio papà!”. Comunque si va avanti, è il nostro dovere. Ed ogni tanto mi stupisco dello stupore della gente di fronte a quello che viene considerato miracolo umano delle persone della sanità quasi che il fare il proprio dovere sia diventato un evento eccezionale, da essere conside-rato un miracolo”. Questa capacità di dare per scontato il ri-schio e il tremito della pratica medica nelle situazioni più gravi, ma anche la capacità di tenere proprio in quelle circostanze la posi-zione e la barra dritta per quanto possibile, viene spiegato con grande lucidità e senti-mento da Fabrizio Asioli nel suo volume su “La relazione di Cura”.“Una rappresentazione esemplare del comportamento cui si sta alludendo la si può trovare in molti romanzi di Joseph Conrad cui sono particolarmente affezio-nato in alcuni di questi racconti i perso-naggi principali sono comandanti di navi quindi personaggi con un ruolo di respon-sabilità che si imbattono in tempeste tro-picali, quindi che si trovano in difficoltà. Questi protagonisti riescono ad affrontare peripezie e fatiche con semplicità: mostra-no la capacità di farlo con la competenza e il sangue freddo che deriva loro dalla profonda consapevolezza della responsa-bilità che hanno nei confronti degli altri; senza avere mai bisogno di assumere al-cun profilo da eroi, ma compiendo azioni che fanno parte della quotidianità della loro vita.Ecco, un comportamento-intimo e profon-do-di questo tipo può risultare di aiuto al paziente perché anche, a sua volta, possa essere in grado di reggere la gravosità e la drammaticità determinata dalle condizio-

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ni in cui si trova, per riuscire a compiere questo dialogo che attiene alla condizione di precarietà della propria vita e talvolta alla vicinanza con la morte”.Queste parole sono state scritte prima del pandemonio del coronavirus e mostrano come in una radiografia una parte dell’im-pianto su cui si è retto l’incredibile sforzo dei medici e di tutti sanitari.Esattamente come un capitano di Condrad, Renzo Rozzini continua a spiegarci:“Qualcuno potrebbe dire:troviamo forse miracoloso che un maestro di scuola inse-gni che due per due fa quattro? Anche loro fanno il loro dovere. Diversamente dagli insegnanti, medici e infermieri in questo momento vivono costantemente in mezzo alla morte e rischiano la vita. Questo pro-babilmente conferisce più valore al dove-re. Nei momenti di stanchezza il pensiero va anche all’ottimismo di chi fa dichia-razioni orientate al futuro: ce la faremo,

ci rialzeremo, riprenderemo. Sicuramen-te quando tutto sarà finito ce la faremo, ma noi-io-oggi, dobbiamo affrontare un dramma fatto di angosce e di morti. Ogni morte è pesante se ci interroga non solo sulla nostra capacità di cura, ma anche sulla sua evitabilità, se il contagio non fosse avvenuto”.

E ancora:

“Leggo infine su un giornale una dichiara-zione certo legata a un dolore straziante: «Mio padre morto come un cane». Nessu-no in ospedale muore come un cane. Tutti sono assistiti con amorevole professiona-lità, probabilmente migliore di quanto fa-cessimo prima; medici e infermieri siamo consapevoli della lontananza degli affetti dei pazienti che abbiamo in cura. A loro siamo vicini, noi ci siamo”.Sono le parole della responsabilità e della speranza. Noi ci siamo.

APPUNTI DI PSICHIATRIA DEL PANDEMONIO

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 144-147

Verso il futuro: le ferite provocate dal virus e la ri-nascita

OTTAVIO DI STEFANOBrescia

[email protected]

Alziamo la testa ma guardiamoci negli occhi.

Viviamo un tempo difficile.La stessa nozione di tempo come misura di separazione di stagioni, di epoche, di momenti non si adatta alla realtà che viviamo.Come non mai è attuale il detto antico:

“La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità”

(William Osler).

Insomma non sappiamo cosa ci aspetta. Tutte le previsioni sono incerte e le probabilità solo probabilità.In queste settimane i media hanno esaltato l’impegno dei medici e di tutti gli operatori della salute nell’affrontare l’epidemia di COVI-19. Un’esperienza drammaticamente nuova. Abbiamo usato, nel recente passato, il termine “epidemia” per descrive-re fenomeni sociali, l’alcolismo e le tossico dipendenze per esempio, scordandoci il significato storico della parola. L’epidemia è un evento che si iscrive nella paura collettiva dell’improvvisa morte diffusa, non una tendenza che avremmo potuto contrastare e governare. È questa un’epidemia catastrofica? Nella storia sono estremamente rare (la spagnola nel 1918), ma questo virus ha il giusto (o sbagliato) mix di contagiosità e virulenza? Non possiamo fare previsioni e ciò impone che persista lo stato di allerta e di attenzione anche quando la curva epidemica sembra attenuarsi.Negli ultimi anni ci siamo convinti, o illusi, che la transizione epide-miologica versus le malattie croniche non trasmissibili, che oggettiva-mente colpiscono in modo crescente anche i paesi in via di sviluppo, riducesse le malattie infettive ad un problema, se pur ancora rilevante, di minore impatto, per esempio sulla mortalità. E nel contempo la globalizzazione ha prodotto scelte economiche rive-latesi poi disastrose. Un solo paradigmatico esempio. La produzione di mascherine ha un basso valore aggiunto ed abbiamo delegato alla Cina la produzione. Conosciamo tutti l’esito di questa scelta.

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145VERSO IL FUTURO: LE FERITE PROVOCATE DAL VIRUS E LA RINASCITA

Le domande da porsi oggi sono due. Eravamo preparati ad un evento come que-sto? No, nessuno se l’aspettava. Le preceden-ti epidemie come la SARS e la MERS, sempre provenienti dall’oriente, ci sfiorarono appe-na. Eravamo tutti impegnati a discutere sui fattori di rischio, per altro con un modesto impegno preventivo. I determinanti sociali della salute, in qualche modo legati anche all’attualità ed altamente incisivi sulla salu-te, relegati ad argomenti di rari convegni, nonostante l’allarme delle più importanti riviste scientifiche.Abbiamo contrastato l’onda di tsunami? L’onda ha drammaticamente messo in evi-denza le insufficienze strutturali ed organiz-zative del sistema. Si ma qualcuno ha retto, non si è piegato.“I medici morirono durante le epidemie di peste nell’Europa medievale, durante un’e-pidemia di febbre gialla a Filadelfia nel 1793, durante l’epidemia di Ebola nel 2014” e ora muoiono nel mondo e in Italia. Gli uomini e le donne della salute hanno dato prova, riconosciuta da tutti, di abnega-zione e disponibilità, superando limiti inim-maginabili di dedizione. E meritano rispetto per due ragioni.Una di una semplicità disarmante, se non fosse drammatica. Molti hanno lasciato la vita e molti si sono ammalati curando, men-tre qualcuno predicava in TV “è poco più di influenza”.E qui entra la seconda ragione. Sapevamo e sappiamo poco o niente della malattia. Di giorno in giorno abbiamo imparato, abbia-mo distinto le fasi, individuato i segni e sin-tomi di allarme. Ed abbiamo scoperto, anche a nostre spese, la contagiosità e la virulenza. SARS-CoV-2 ha trasformato tutti gli ospedali in ospedali CO-VID; in poche settimane abbiamo raddop-piato, triplicato, quadruplicato i letti di Te-rapia Intensiva. Nelle cronache si invocava l’acquisizione di respiratori, di letti, di am-

bienti per la Rianimazione senza considera-re che ad ogni respiratore, o meglio ad ogni malato, deve corrispondere un’assistenza adeguata con medici, infermieri e personale di supporto. Ma questi non si potevano ac-quisire sul mercato. E loro, sempre gli stessi, hanno moltiplica-to il proprio impegno, non guardando il numero di ore, i giorni festivi, rinunciando alla famiglia per settimane per non portare a casa il virus. Abbiamo trasformato tutti gli specialisti in neo esperti COVID e saturato ogni spazio disponibile. Più di 800 pazienti con COVID 19 nell’acme dell’epidemia nel nostro ospedale maggiore. E intanto sul ter-ritorio i medici e i pediatri di famiglia con pochi o nessun dispositivo di protezione con le loro 10- 15 polmoniti. Abbiamo do-vuto accettare il triage ed il monitoraggio telefonico come indicava la letteratura, an-dando “contro natura” per chi è cresciuto nel dogma che “la visita” è l’unico modo per sapere cosa ha un paziente e curarlo. Qualcuno di noi non è stato all’altezza dal punto vista tecnico e soprattutto umano? Si, pochi e poveretti.COVID 19 ha colpito nella maniera più dura, più sconvolgente la parte nobile della nostra civiltà.I nostri “Vecchi”. Tanti nostri “Vecchi” se ne sono andati. Tanti erano ospiti delle RSA, o meglio Case di Riposo. Le case di riposo, nelle prime pagine, come cronaca della morte nel “lazzaretto” dove va a morire il lebbroso Lazzaro. “Il tasso di mortalità, cal-colato come numero di deceduti sul totale dei residenti (somma dei residenti al 1 feb-braio e nuovi ingressi dal 1 marzo), è com-plessivamente pari all’8,2%”. Tanti, ma molti meno, secondi i dati OMS, che negli altri paesi europei nonostante le carenze denun-ciate dalle stesse strutture (82,7% mancan-za di Dispositivi di Protezione Individuale, 19,9% scarsità di informazioni ricevute cir-ca le procedure da svolgere per contene-

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146 OTTAVIO DI STEFANO

re l’infezione, 10,3% mancanza di farmaci, 32,9 l’assenza di personale sanitario, 10,9% difficoltà nel trasferire i residenti affetti da COVID-19 in strutture ospedaliere, 25,5 % difficoltà nell’isolamento dei residenti affet-ti da COVID-19 e circa il 43% l’impossibilità di eseguire tamponi). E adesso la fase 2. Non ce la facciamo più, ma se dovessimo guardare i modelli mate-matici di proiezione “….le attuali misure di blocco adottate sono fondamentali per con-tenere l’epidemia e non possono essere al-leviate. Piuttosto, dovrebbero essere ancora più restrittive……”. E comunque una condi-zione è indispensabile….. “Il blocco forzato potrebbe essere mitigato in presenza di test diffusi e tracciabilità dei contatti”.Quindi dobbiamo fare la diagnosi su tutti i nuovi casi (speriamo pochi!). Diagnosi non solo clinica, ma suffragata da indagini di la-boratorio e strumentali. Quindi è urgente, oggi non domani, che si predisponga un percorso con strutture dedicate, anche am-bulatoriali e con dislocazione topografica strategica, dove ciò si possa realizzare con facilità. La diagnosi, come da sempre in me-dicina, è indispensabile perché guida i passi successivi. Individuiamo i malati, definiamo i livelli di gravità e le condizioni sociali e sapremo dove “sistemarli”. Isolamento do-miciliare per i casi lievi o in strutture inter-medie laddove l’isolamento non sia attuabi-le, ricovero ospedaliero per casi a media ad alta intensità in sezioni “sicure” per la pre-venzione del contagio.Ed ancora la diagnosi ci consentirà di indivi-duare i contatti e attuare misure adeguate di prevenzione della diffusione. “I nostri risultati dimostrano che le misure restrittive di distanza sociale dovranno esse-re combinate con test diffusi e tracciabilità dei contatti per porre fine alla pandemia di COVID-19 in corso”. È andato tutto bene? Il sistema ha tenuto? Ha mostrato tutti i suoi limiti che per altro

conosciamo da anni e che abbiamo denun-ciato, a bassa voce, in tante iniziative ed in tanti convegni ed è quasi stucchevole ripe-terli. Radicale riforma delle cura primarie e “ri-nascita” della figura del medico di famiglia. Dobbiamo avere il coraggio di dire, e dirci, che l’epoca del medico solo, spesso eroico, è tramontata. È il tempo, e sempre più sarà il tempo, del lavoro multidisciplinare e mul-ti professionale in strutture territoriali con adeguata ma alta tecnologia. E l’ospedale non può star lì a guardare con una certa qual sufficienza. Il cambiamento radicale lo deve coinvolgere e non è ardi-to dire che deve essere destrutturato e ri-pensato. Nuove figure di coordinamento, l’hospitalist per intenderci, devono gestire il malato cronico multipatologico, su cui si sono spesi fiumi di inchiostro, con tutti gli apporti specialistici necessari. Vuole dire che qualcuno perderà qualcosa, per esem-pio, per esser chiari, una quota di letti di specialità. Ma non basta. La mitica integrazione, sem-pre auspicata e sostenuta con ardore e mai realizzata, fra ospedale e territorio e non solo con la medicina generale o la pediatria di famiglia, è obbligatoria. Punto. Si studino e si realizzino gli strumenti. Il malato è sem-pre lo stesso, dentro o fuori. E senza dimenticare nessuno. Dai nostri Vecchi che sono morti nelle Case di Ripo-so dove, e bisogna dirlo chiaro e forte, nella stragrande maggioranza dei casi sono stati assistiti con qualità ed umanità, al mondo negletto delle disabilità e dell’emarginazio-ne che in gran parte si regge sulla splendida generosità del nostro volontariato diffuso.Per fare tutto questo, che non è un libro dei sogni, ci vogliono risorse, cioè tanti soldi. Soldi non sprecati perché restituire salute fa un gran bene anche al PIL.Il sistema ha retto? Di fronte alla catastrofe epocale l’organizzazione ha rischiato di fra-

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nare, ma gli uomini e le donne della salute hanno tenuto botta perché ancorati a quel principio costituzionale per cui si deve, di-speratamente, tentare di non lasciare indie-tro nessuno. Questo principio ha tenuto.E noi? Noi, tutti noi, cosa potremo imparare da SARS CoV-2. Siamo indispensabili e do-vremo lottare insieme, perché senza di noi il cambiamento non si realizza.

Un grande sforzo culturale, però, ci attende. Dobbiamo ripensare la qualità della nostra professione e, con un altrettanto grande sforzo di onestà intellettuale, analizzare i nostri limiti, puntando ad un vero, continuo, certamente faticoso, miglioramento che è indispensabile per fare bene il dottore. Allora potremo alzare la testa e guardarci onestamente negli occhi.

VERSO IL FUTURO: LE FERITE PROVOCATE DAL VIRUS E LA RINASCITA

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 148-157

Dai pensieri e dalle identità ferite alla recovery ed alla ripresa

LUIGI FERRANNINIGenova

[email protected]

“E la gente rimase a casa, e lesse libri, e ascoltò, e si riposò, e fece esercizi, e fece arte, e giocò, e imparò nuovi modi di essere, e si fermò, e ascoltò più in profondità, qualcuno meditava, qualcuno pregava, qualcuno ballava, qualcuno incontrò la propria ombra, e la gente cominciò a pensare in modo differente, e la gente guarì. E nell’assenza di gente, che viveva in modi ignoranti pericolosi sen-za senso e senza cuore, anche la terra cominciò a guarire e quando il pericolo finì e la gente si ritrovò si addolorarono per i morti e fece-ro nuove scelte e sognarono nuove visioni e crearono nuovi modi di vivere e guarirono completamente la terra così come erano guariti loro.”

(K.O’Meara, dai versi di I.Vella)

In questo periodo - che non sappiamo quando potrà durare e chi/quan-ti potranno vederne la fine (speriamo tanti, ma sappiamo purtroppo che non saranno tutti, come già l’andamento dell’epidemia ci ha dimo-strato nella cd “fase 1”) – non posso non fare i conti con la mia età (71 anni e qualche mese…), con il fatto che non sono né potevo essere in prima linea, come tanti amici e colleghi dell’AIP – d’altronde il ruolo dello psichiatra non è immediatamente in prima linea, prima bisogna occuparsi del corpo e poi della mente, se c’è ancora tempo, anche se non è sempre vero perché il dualismo cartesiano ci confonde ancora idee ed azioni, corpo e mente vanno affrontati, accolti e curati insieme -, ma cercare di mantenere il contatto con chi era/è sul fronte, attento a cogliere le difficoltà oggettive – che sono evidenti di fronte ad un nemico sconosciuto- e soggettive: ansie, eroismo/narcisismo, paure per il dopo e per le persone care, rabbia per la scarsità degli strumenti di cura e di protezione, responsabilità per la vita dei pazienti, ma anche per la propria vita e per quella della propria équipe di lavoro. Pensando a tutto quello che è successo contro i medici e gli operatori sanitari fino all’inizio dell’epidemia, temo che l’alternativa “prima demoni, ora angeli” potrebbe riproporsi nuovamente invertita alla fine dell’emer-genza. Quindi anche questa fase pone una domanda/dubbio culturale e sociale che è emerso negli ultimi anni: gli operatori sanitari sono angeli o demoni? Mi pare che dobbiamo solo ricordare che siamo persone,

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149DAI PENSIERI E DALLE IDENTITÀ FERITE ALLA RECOVERY ED ALLA RIPRESA

con i nostri punti di forza, le nostre fragilità e le nostre storie personali e famigliari, che vanno accolti e gestiti nel modo migliore possibile.Mentre sto scrivendo, una collega, S. Scano che si occupa molto di migranti ed è Segre-taria regionale della Società Italiana di Medi-cina delle Migrazioni (SIMM)– mi ha scritto: “Impazzire o pensare al futuro, è la dialet-tica interiore che in questo periodo mi ha portato a lunghe riflessioni. È difficoltoso, forse non sarà possibile, riuscire a trovare una spiegazione all’evento chiamato Co-vid-19, ma questo mi ha dato l’opportunità di fermarmi a riflettere. Le parole si caricano di altri significati, in quel orizzonte di senso che mi permette di avere gli elementi utili per capire e muovermi, comunità, relazione e scambio assumono un senso differente. Quanto abbiamo da comprendere ed ap-prendere!”.Vorrei allora fare alcune riflessioni sulle pa-role usate.Innanzitutto sul concetto di “ferita”, defini-ta nei nostri Dizionari come “Intima espe-rienza dolorosa accompagnata da risenti-mento o profonda afflizione”.La ferita non è solo del/nel corpo (è quel-la che tutti ri-conosciamo), ma anche della/nella mente, esattamente come altri eventi che attribuiamo al corpo ma sono – anche più spesso- eventi mentali: aggressività, vio-lenza, offesa, umiliazione, ripudio, allontana-mento…, che attivano emozioni, pensieri, paure, desiderio di vendetta…ed altro anco-ra. Se una ferita del corpo può essere guarita con una sutura, quali sono le suture per le ferite della mente?Soffermiamoci poi sul concetto di “recove-ry”, termine complesso, multidimensionale e polisemico tale da poter essere indifferen-temente applicato al gergo folk, alle scienze mediche, alle scienze economiche e sociali e pertanto, forse anche in relazione alla sua estensività, alle scienze della mente (psico-

logiche e psichiatriche). Recupero, ripresa, ristabilimento, guarigione sociale, rimborso, risarcimento, riconquista sono soltanto al-cune delle declinazioni del significato di re-covery. Concetto che non si identifica line-armente con la guarigione clinica ma anzi: “…una categoria che non è clinica, pertan-to, ma un segno di cambiamento di relazio-ne con la malattia, sviluppo di nuove abilità per farvi fronte, riaffermazione del soggetto come persona.” Un arricchimento piuttosto che una progressiva sequenza di perdite, come spoliazione conseguente alla malattia. Nell’ottica “recovery-oriented” i servizi per-tanto dovrebbero assumere una funzione catalizzatrice e di supporto. Tra gli strumen-ti privilegiati, in questa direzione, troviamo gli interventi di rete, lo sviluppo e la promo-zione di opportunità e possibilità di scelta, la tensione verso cure appropriate e perso-nalizzate, la capacità di ascolto e di valida-zione dell’interlocutore e delle sue aspetta-tive e pareri sulle cure, la flessibilità degli interventi, la promozione della salute, anche fisica, dei pazienti.

Spunti di riflessione, leggendo ed ascoltando…

Riporto ora alcune considerazioni, che na-scono dalla lettura di scritti di persone mol-to differenti – operatori della salute men-tale, psicoanalista, filosofo - che mi hanno stimolato pensieri e riflessioni.

Un tempo interrotto o sospeso?

“Una mia paziente mi raggiunge al telefo-no angosciata per il turbinio di emozioni che l’hanno investita durante questo pe-riodo che stiamo vivendo. Mi riporta de-gli elementi che riguardano precisamente l’essenziale del suo cedimento e mi dice: <Mi spiace essermi interrotta proprio in una fase molto feconda!>.Le dico che l’inconscio non ha interruzio-

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150 LUIGI FERRANNINI

ni ma sospensioni, una sorta di arresto che risponde del meccanismo più intimo del suo stesso funzionamento. Da tre settimane è iniziato un tempo di sospensione angosciante, un tempo tutto nuovo per il quale non abbiamo para-metri interpretativi né a livello logico, né a livello cronologico. È un tempo che ha azzerato, ha congelato tutto ciò che ci ri-guarda in modo coatto. Ci ha privato del-la libertà, degli affetti, del lavoro, dell’a-micizia, delle passioni. Siamo piombati in una sorta di alessitimia collettiva. Una società in “standby”. I post sui social sono una cartina tornasole di un ventaglio di emozioni abbastanza condivise.In venti giorni si è passati da un atteggia-mento di negazione della realtà, sfumata lentamente in delazione, poi ottimismo aleatorio, rabbia, ma adesso anche gran-de mestizia,....si piange. Si prende atto che la morte ci sfiora e ci rimanda tutta la nostra impotenza. In questo tempo, così mortificato e ovat-tato, mancano persino i rumori. C’è un si-lenzio cimiteriale, interrotto in modo dis-sacrante e violento solo dal suono sinistro delle sirene delle ambulanze.Come un animale in letargo abbassa i parametri vitali, per ritornare a vivere in primavera, così anche noi siamo chiamati ad un meccanismo difensivo molto simile.Tutte le priorità sono saltate. In prima li-nea c’è la pulsione di vita, rimanere anco-rati alla vita e non cedere alla forza bruta di questo mostro dalla forza sconosciuta e incircoscrivibile”.

Scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile

Recalcati (leggendo le sue parole prima e durante la pandemia, attraverso le rifles-sioni dei colleghi della sua Associazione “Divergenze”, sintetizzate da C. Sorvillo) ha messo in luce come in effetti oggi ci ritro-

viamo tutti in un’angoscia depressiva, che condizionerà senz’altro la nostra visione del futuro e la nostra vita di domani, sebbene questo virus non abbia nulla di democratico né tanto meno sia una ‘livella’, perché la vul-nerabilità materiale di chi non ha una casa o ha una casa troppo piccola, di chi sta veden-do morire il proprio lavoro o non ha la pos-sibilità di dispositivi tecnologici, di chi sta sperimentando una solitudine non voluta o ha perso familiari e amici è assolutamente evidente e tangibile.Perché la libertà non è individuale. La veri-tà è che l’Io, il singolo si può salvare solo se concepisce la sua libertà come forma di solidarietà e non come libertà individualisti-ca, libertà intesa come fare ciò che si vuole senza limite alcuno. Fino a oggi abbiamo inteso la libertà come assenza di limiti: faccio quello che voglio e dico quello che voglio in nome di una de-formante e degenerata idea di democrazia. Quante volte abbiamo visto mettere alla gogna e insultare l’altro giustificando tali atti con il solito refrain: “siamo in un paese democratico quindi sono libero di pensarla come voglio”. Quante volte il mondo virtua-le e reale in nome della libertà democratica ha condannato delle persone per “errori” o “leggerezze” e non reati. La realtà è che “fare quel che si vuole” non è libertà e non porta alla salvezza, e oggi più che mai ne stiamo facendo esperienza attra-verso questa pandemia. Senza una dimen-sione collettiva, non può esserci salvezza. Paradossalmente oggi proprio attraverso l’i-solamento collettivo abbiamo l’opportunità di capire che o ci muoviamo tutti insieme o non si salva nessuno.“Questo tempo sta disvelando e sta disfa-cendo la grande illusione della <versione proprietaria della libertà>, la versione egoistica della libertà. Questo tempo nuo-vo ci mostra anche come sia stata illu-soria l’idea che libertà sia espressione di

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riempimenti continui, consumi continui. Uscire sempre, comprare sempre, cambia-re sempre, muoversi sempre, dimostrare sempre, in nome di quel mantra ossessivo che ci dice che “non bisogna fermarsi mai” e che, peraltro, ha pure favorito la diffusio-ne dell’epidemia”. E ora una catapulta imprevista e ingover-nabile ci ha gettato nel tempo dei silenzi e delle pause e ci ha spogliato di tutti quei ot-turatori con cui riempivamo le nostre gior-nate. Ebbene, questo mondo fatto di nuovi spazi può avere un potere inedito e frutti-fero: ci può consentire di “immaginare” una dimensione nuova per noi e la collettività. In questo tempo forse abbiamo il compito di immaginare una dimensione politica e ci-vile sistemica che non escluda ma includa, e qui pensiamo non solo alle persone e alle categorie fragili, ma al Pianeta intero con cui siamo interconnessi a filo doppio.Ma in questo tempo possiamo immagina-re anche un mondo affettivo e relazionale inedito, in cui la relazione non sia più un obbligo prestazionale ma oggetto di una mancanza. Sicuramente quando usciremo dalle nostre case dovremo affrontare problemi di “adat-tamento post traumatico”, sicuramente sa-remo costretti a guardare una realtà nuova. Lì potremo scegliere se piangere di dispera-zione e di nostalgia per la nostra vita antica, se cercare impetuosamente un colpevole a tutti i costi, se lasciarci travolgere da quel-la paura atavica del contatto con l’estraneo che necessariamente si riattiverà, oppure se farcene qualcosa di questo buio e di questa chiusura per attivare una nuova apertura. Un augurio di Recalcati: “la speranza è che alla potenza negativa di questo trauma si possa rispondere con una potenza afferma-tiva nuova, che ci liberi dell’inessenziale e ci aiuti a ridefinire le priorità mettendo in moto la nostra forza di <immagina-zione>, come quando tocchi la morte con

mano, la paura con mano, il dolore con mano e da lì accade che rinasci, ricominci a sognare e a immaginare.”. Quindi, scegliere tra “ciò che è giusto e ciò che è facile”. Non si tratta di scegliere tra bene e male o tra ciò che giusto e ciò che è ingiusto, ma di scegliere tra giustizia e fa-cilità, intendendo per giustizia il più grande atto etico che possa compiersi. La giustizia infatti non è affatto facile: richiede infatti sforzo, impegno, sacrificio.Ebbene quando questo trauma collettivo che stiamo vivendo, quando il buio della morte che stiamo attraversando sarà finito spetterà a noi se scegliere la strada facile del passato e di tutto quello che è stato fino ad oggi, con tutte le sue iniquità ambientali e sociali, o andare verso ciò che è eticamente “giusto” dal punto di vista sociale e ambien-tale:Anche se questo richiederà sforzo, immagi-nazione e soprattutto “coraggio”. La scelta spetterà solo a noi.

Le esperienze traumatiche possono servire? …. Riflessioni di una psichia-tra

“Giorni e giorni di ritiro forzato....una clausura che, forse le motivazioni lunga-mente meditate di monaci per vocazione, potrebbero sostenere con serenità, mentre molti di noi ne venivano da un’esistenza frenetica e frettolosa resa ancor più caoti-ca da stimoli i più disparati che assume-vano tuttavia le modalità consumistiche di fruizione, mi riferisco anche a viaggi, vacanze, eventi culturali e artistici.” (C. Vecchiato C., in stampa). Abbiamo vissuto così sospesi, spaesati e disorientati con l’in-certezza, che le esperienze traumatiche co-munque comportano, ma in questa situazio-ne si complicano nella difficoltà/incapacità di previsione, di coerenza e responsabilità di cui ci si è dovuto prendere atto…ci sia-mo altalenati tra confusione e imprevedibi-

DAI PENSIERI E DALLE IDENTITÀ FERITE ALLA RECOVERY ED ALLA RIPRESA

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lità clamorosamente riportate dai media.Il rito e la cultura permettono di sviluppa-re le capacità di trasformare la caduta nel rialzarsi in un orizzonte mitico rituale, il cui senso profondo si traduce nell’idea della continuità, nella costituzione di collettività che può sostanziarsi nella trasmissione del sapere.“La questione riguarda da vicino anche noi psichiatri, in quanto ha a che fare con l’autentica ricerca della verità interiore di quella rete di espressioni e racconti, e soprattutto di silenzi, da ascoltare, di ri-petizioni, di comportamenti, di storie e ri-visitazioni e ricostruzioni della memoria che si intrecciano per dipanare relazioni significative in ambienti consoni e protet-ti. Tale ricerca mal si presta alla distanza corporea, ma anche all’impossibilità di avere fiducia e alla continua insinuazio-ne del complotto.”

Il senso del futuro di fronte all’inaspet-tato

Galimberti (2020) ci ricorda che “il cam-biamento imposto dal coronavirus sem-bra una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra moderni-tà, la tutela tecnologica, la globalizzazio-ne, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvi-samente a che fare con la semplicità dell’e-sistenza umana. Siamo di fronte all’ina-spettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché que-sto è solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizzazione. …Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è nien-te da fare, c’è da subire.

Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticati? Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticata. Am-mettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’esterno, a una strut-tura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quan-to i figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze. Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando qualcuno sta male, mancano le parole per confortarlo. Diciamo: vedrai che ce la farai. Che scioc-chezza. Che bugia. Perché abbiamo perso il contatto con il dolore, con il negativo della vita. E quindi come facciamo ad ave-re delle strategie quando il negativo diven-ta esplosivo?...Ci domandiamo: il timore di cambiare è un limite valicabile? Un quarto della popo-lazione italiana è estremamente fragile: il virus lo ha dimostrato. C’è chi si sorprende del relativismo della società rispetto ai più deboli. Ma è inevitabile. So bene che se mi dovessi ammalare io passerei in secondo piano, perché sono da salvare prima i gio-vani. Il problema è perché siamo arrivati a dover affrontare questo tipo di scelta, perché non abbiamo provveduto a creare le condizioni, e le strutture, per fronteggia-re il dilemma. Moriremo per inefficienza. Se un virus si propaga con un numero di vittime paragonabile ai morti in guerra è chiaro che andrà tracciata − netta − la linea tra chi deve vivere e chi morire. Ora l’egoismo non sta diventando adesso un valore primario? È già il valore prima-rio nella nostra cultura. La solidarietà è andata a picco in questi anni. Individua-lismo, narcisismo, egoismo: sono tutte fi-gure di solitudine. La socializzazione si è ridotta alla propria parvenza digitale. E se anche l’istruzione, superata questa fase

LUIGI FERRANNINI

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sperimentale, costretta dai tempi, dovesse poi venire diffusa via internet? I ragazzi hanno bisogno di imparare ma anche di guardarsi in faccia, di ridere, di capi-re attraverso lo sguardo se l’altro dice la verità o sta mentendo. Hanno bisogno di esperienze fisiche. Nell’isolamento e nelle avversità, gli esseri umani hanno biso-gno di sentire di non essere soli a lottare. I cinesi di Wuhan se lo gridavano dalle fi-nestre. Quindi se la rete digitale ha reso possibile la connessione là dove non c’è possibilità di incontro, mi viene da pen-sare: bene, ottimo, ha dimostrato la sua utilità. Ma per come ha funzionato fino a ora, Internet ha anche isolato i nostri corpi. Un conto è dirsi le cose in rete, un conto è dirsele di persona. Il problema, da qui in poi, è di continuare ad avere una relazione sociale secondo natura, in cui un uomo incontra un uomo, e non l’im-magine di un uomo in uno schermo. Quando potrà risollevarsi l’animo uma-no? E come? Il degrado è stato significa-tivo. Secondo me l’animo umano era più all’altezza di queste situazioni all’epoca dei nostri nonni, quando la fatica e la penuria e la povertà erano le condizioni della solidarietà. Nelle società opulente ab-biamo sviluppato invece l’egoismo, perché ci era consentito, non avendo più bisogno del nostro prossimo... Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accet-tiamolo, che vincerà.”.

Pensieri/riflessioni/proposte nelle condivisioni costruite all’interno della nostra comunità AIP

Molti sono i problemi che in questo periodo – sembra tanto, ma sono solo due mesi…- ci siamo posti nei nostri contatti formali ed informali, all’interno della comunità scienti-fica e culturale, che Marco Trabucchi ha co-struito nel 1999 – con il supporto di un pic-colo gruppo di colleghi e di amici – ed ha

chiamato Associazione Italiana di Psicoge-riatria, proprio per sottolinearne il compito di fare allo stesso tempo scienza e cultura.In questo scenario, si sono evidenziati preli-minarmente alcune questioni:

1. La necessità di fare un’analisi seria dei problemi in campo, scientificamente cor-retta, ma anche empatica nei confronti dei sofferenti e dei più deboli.

2. Lo sviluppo di riflessioni, osservazioni e ri-cerche sui trattamenti degli anziani (parola ancora ambigua in quanto - a seconda delle circostanze, degli obbiettivi e degli interlo-cutori - le asticelle vengono modificate, nel range che va dagli >60/65 agli > 70-75 fino alla classe >80) e sull’ageismo diffuso, che riguarda le persone e le scelte da fare. Sem-pre più soli, anche se malati, lasciati morire per non togliere il posto ad altri, dopo anni che l’Italia si sentiva orgogliosa dell’aumen-to della spettanza di vita (senza mai porsi il problema della connessa qualità della vita e del basso indice di natalità), ora invece è un problema e non una occasione (fino a ieri si parlava di Silver Economy e dell’anziano come patrimonio in campo economico). “Umiliati e offesi”. Riprendo una afferma-zione di Marco Trabucchi nel definire il modo in cui sono stati e sono trattati gli an-ziani in questo periodo di pandemia da Co-ronavirus. “Umiliati perché si sono trovati ai margini degli interventi sia nelle case di riposo, sia nelle proprie case e sia negli ospedali: ma anche offesi perché fatti sen-tire come un peso per l’organizzazione, solo dei costi, e non col pieno diritto di fa parte della cittadinanza e della vita… La vita non si misura per quantità, ma ogni momento ha un suo peso inestimabile. In-vece si sente un coro, inespresso o aperta-mente detto: tanto sono dei vecchi…”.

3. La solitudine (grazie Diego, che ci hai fat-to riflettere su questa fondamentale causa di rischio psicofisico e sociale), l’istituzio-

DAI PENSIERI E DALLE IDENTITÀ FERITE ALLA RECOVERY ED ALLA RIPRESA

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nalizzazione in strutture spesso inadeguate come luoghi/cure/assistenza/formazione degli operatori, ma al tempo stesso possibili-tà di investimenti per il profitto, chiunque le gestisca. Il tutto separati, adesso anche radi-calmente, da famigliari ed affetti che danno senso alla vita, non solo ma maggiormente negli ultimi anni: quindi luoghi non luoghi, luoghi in cui non c’è stata né prima ma ne-anche adesso (che è molto più difficile) una vera “cura dei luoghi”: casa, residenze, ospe-dali e tutto quello che – per necessità – ci stiamo inventando in questo periodo: navi, alberghi, conventi, ….Non dubitiamo che le misure messe in atto siano necessarie, ma stanno diminuendo drasticamente la pos-sibilità di essere curati per altre patologie (gli anziani hanno sempre più comorbilità e pluripatologie, non si parla più di deficit cognitivi, se una persona anche non anziana ha un infarto del miocardio od un possibi-le ictus non sa dove andare, perché spesso non ci sono posti letto negli ospedali e non viene presa in carico…).Assistiamo quindi al dissolvimento del SSN universalistico, di tutti e per tutto, ed an-che ad un rapporto con le strutture (anche ospedaliere) private ancora ambiguo e con-fuso: la nostra grande risorsa ora si rivela in-capace di far fronte a situazioni certamente di grande ed inaspettata emergenza; ed an-che, stiamo perdendo la centralità del terri-torio (e del rapporto solidale anche per gli aspetti clinici tra ospedale e territorio), con il ruolo del MMG, di Continuità Assistenziale ed altro ancora, in prima linea ma lasciati soli a decidere se e cosa fare.In pochi giorni il personale sanitario (so-prattutto i medici) è passato da oggetto di aspre critiche e di gravi violenze ad angelo salvatore: temo che sia solo l’effetto emo-tivo della paura e del grande contagio, ma dopo dovremo rifare i conti con l’aggressi-vità e la stigmatizzazione. Demoni ed Angeli: andata e ritorno…dicevamo nelle conside-

razioni introduttive.Ma allora, cosa dobbiamo fare? Sarà necessa-rio un rimodellamento del Sistema Sanitario Nazionale e di quelli Regionali, in una fase in cui la governance politico-amministrativa - a vari livelli - è debole/confusa/contraddit-toria.E dopo? Chi e come si prenderà carico della sofferenza, dei lutti, della mancanza di pro-spettive, dell’abbandono, della povertà di tanti anziani?Forse al Sud abbiamo qualche speranza in più, se reggono ancora le cd “famiglie al-largate”, ma al Nord vediamo grandi soffe-renze, che producono serie patologie: de-pressione, disturbi dello spettro dell’ansia e dell’umore, atti autolesivi anche gravi e mortali, atti eterolesivi in famiglie/coppie segregate in casa, dove prende il sopravven-to la rabbia, l’isolamento, la paura del futu-ro, la certezza che questo evento che stia-mo vivendo sarà solo portatore di morte, il peggioramento delle condizioni cognitive ed altro ancora…., non affrontabili con un semplice “supporto” (parola ambigua, che non mi ha mai convinto) psicologico, ma con vere cure psicologiche e psichiatriche, integrate/interconnesse e non complemen-tari o conflittuali. Avremo bisogno di “servizi forti” per una presa in carico di quote cre-scenti di popolazione, in tutte le fasce di età. In questo momento purtroppo si sta facen-do anche molto marketing, che possiamo ricomprendere nel tema delle “fake news”.A proposito di fake news, non sottovaluto certo il valore (anche per combattere paura e solitudine) della rete, ma esprimo una for-te preoccupazione sulla assenza di qualsiasi controllo sulle cose che si dicono e che en-trano nella mente come verità di chiunque le legga.Ed ancora, conto sulle conquiste della In-telligenza Artificiale, della Telemedicina, dell’App Immune e dei cd Big Data, con le innovazioni che possono introdurre anche

LUIGI FERRANNINI

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nel campo della cura e dell’assistenza, ma al contempo anche temo che possano es-sere una occasione per attivare strumenti di controllo di massa ben al di là delle ne-cessità connesse a dare risposte cliniche ed assistenziali appropriate.Credo che questa emergenza abbia fatto venire alla luce e ci ha costretto a prendere coscienza anche di alcuni errori del passa-to: a) disuguaglianze in salute crescenti tra le varie Regioni ed all’interno della stessa Regione; b) investimenti prevalentemente ospedalieri e poco territoriali (eppure la legge Balduzzi dava indicazioni chiare); c) disinvestimento totale nei servizi e nella cultura della prevenzione in tutte le Re-gioni (depauperamento/dissolvimento dei Dipartimenti di Prevenzione, salvo che per gli aspetti medico-legali, assenza di Piani Pandemici aggiornati, scarsa formazione di tutti gli operatori sanitari su questi temi); d) rapporto pubblico-privato, senza attenzione alla qualità dell’offerta; e) RSA per anziani ( ma anche tutta la residenzialità per pazienti psichiatrici, disabili, tossicodipendenti, mi-nori con pluripatologie del neurosviluppo, … ) come luoghi di scarico ed abbandono (il ritorno della “istituzionalizzazione”- che prima era gestita solo dal pubblico - ma adesso anche occasione di profitto per gli Enti Gestori), spesso senza i requisiti di au-torizzazione ed accreditamento (peraltro fortemente differenti tra le varie Regioni) ed il necessario monitoraggio e controllo, atto dovuto dell’Ente Pubblico che appalta attività socio-sanitarie al privato, senza alcu-na penalizzazione; f) organizzazione della medicina territoriale/di base/di famiglia, …differente in ogni Regione e scarso investi-mento sulla formazione dei MMG, che deve essere ad un livello di base multi speciali-stica, per cogliere precocemente fattori di rischio e segni premonitori di patologie. Un ultimo aspetto, ma non ultimo su di una scala di valori: la considerazione che questa

società ha degli anziani (parola ambigua, come dicevamo prima). Si passa dall’enfa-si dell’anziano come produttore di reddito (quindi non “capitale umano” ma PIL ) e di servizi ( leggi tutta la discussione fino a poco prima della pandemia sulla Silver Economy) a oggetto (e non soggetto) di stigma, abbandono, istituzionalizzazione ed esclusione dai rapporti comunitari ( anche nella cd Fase 2): molti sostengono che gli anziani devono restare chiusi a casa fino alla fine della pandemia (cioè in oggi, visto che non ne conosciamo l’evoluzione, senza fine o purtroppo fino alla fine della propria vita, altro che lo slogan “io-resto-a-casa”, piutto-sto “io-sono-chiuso-in-casa”), con la ripresa di una forte cultura ageistica a tutto campo.Anche la centralità posta sul cd “distanzia-mento sociale “, come strumento indubbia-mente fondamentale per controllare e/o impedire la diffusione del contagio, non tie-ne conto del significato effettivo di questo termine: “distanziamento”. Con “distanziamento sociale” si intende un insieme di azioni di natura non farmaco-logica, per il controllo delle infezioni volte a rallentare o fermare la diffusione di una malattia contagiosa. L’obiettivo del distan-ziamento sociale è di diminuire la proba-bilità di contatto di persone portatrici di un’infezione con individui non infetti, così da ridurre al minimo la trasmissione della malattia, la morbilità e, conseguentemente, la mortalità. Gli svantaggi del distanziamen-to sociale possono includere la solitudine, la riduzione della produttività e la perdita di altri benefici a livello psicologico associati all’interazione umana. Uno dei primi riferi-menti alla pratica del distanziamento socia-le risale al VII secolo a.C. nel libro del Leviti-co: “E il lebbroso in cui è la peste... abiterà da solo; [fuori] il campo deve essere la sua abitazione”.E poi, ribadiamo con rammarico nessun rife-rimento al capillare lavoro dell’AIP, sia a livel-

DAI PENSIERI E DALLE IDENTITÀ FERITE ALLA RECOVERY ED ALLA RIPRESA

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lo scientifico che sociale, sulle conseguenze della solitudine negli anziani .“Nemica soli-tudine”, La Carta di Padova….e tanto altro ancora, grazie a Diego ed a Marco, solitudine che si può evidenziare – come sentimento/emozione, ma anche come fattore oggetti-vo - anche in forme di convivenza limitate, senza condivisione/rispetto/empatia, con-fermato dall’aumento degli episodi di vio-lenza da parte degli anziani nei confronti di famigliari conviventi. Quindi gli anziani rischiano fortemente di essere esclusi dalla comunità e da tutti quei fattori/esperienze sociali che sono fondamentali per il loro be-nessere e per combattere fattori di rischio di ogni tipo. Non vi nego che su questo punto il mio timore/paura è anche soggettivo – e cre-do di condividerlo con altri colleghi/amici dell’AIP - e mi è difficile contenerlo. Dal distanziamento sociale come fattore di pro-tezione al distanziamento come esclusione, abbandono, negazione, oblio…Che dire ancora? Ho tanti pensieri confusi nella testa, che si accompagnano alla paura per i miei cari (non posso vedere i miei figli ed i miei ni-poti, temo che mia moglie tra poco non mi sopporti più…) a tutti i livelli, anche dell’AIP, mia seconda casa da ormai 20 anni!Ed allora, teniamoci uniti, proprio come ci propone Marco, costruiamo pensieri e pro-poste collettive, combattiamo le bugie e le truffe, cerchiamo di non perdere lo sguar-do clinico e di ricerca, ma anche empatico/umano/etico, non dimentichiamo che per qualche ragione poco nota quello che sta av-venendo è anche per nostra responsabilità ( il rapporto sempre più evidente, ma poco studiato tra malattie ed ambiente, peraltro da sempre centrale per le malattie infettive trasmissibili), assumiamoci la responsabilità dei cambiamenti che dovremo fare, costru-iamo una speranza veramente “affidabile”, senza della quale non sappiamo se e come

ci sarà un dopo, che dovrà esserci per molti di noi, ma soprattutto per i nostri cari a tutti i livelli, famigliari/professionali/sociali.

Ci sarebbe altro ancora, ma mi fermo qui.Forse per questi problemi - come anche sulle RSA ed altri ancora - potremmo pensa-re ad una presa di posizione dell’AIP: ad es. una intervista al nostro Presidente su di un giornale importante – Marco viene spesso intervistato su L’Avvenire e Papa Francesco è stato tra i pochi a sollevare questo pro-blema in modo esplicito ed a chiedere at-tenzione e rispetto per tutti – od un nostro documento, che segnali i rischi clinici/com-portamentali che una scelta di questo tipo comporta. In un articolo sulla Newsletter della Fondazione Leonardo del 27.4.2020, Marco richiama l’importanza di muoversi su tre direttrici: sperimentare, qualificare, for-mare. Mi sembrano tre linee fondamentali per il nostro lavoro futuro.Scusatemi se mi sono dilungato, ma viviamo pensando al rapporto tra l’oggi ed il futu-ro ed a volte manca il tempo per cercare di comunicare i propri pensieri agli altri, con i quali condividiamo storie di lavoro, scelte metodologiche, visioni del ruolo del medi-co.A questo proposito, prima di concludere, desidero citare una riflessione - ed al con-tempo un messaggio per tutti noi – di alcu-ni medici/amici, che sono stati ricoverati in terapia intensiva per Covid-19 ed ora sono guariti De Micheli A. et al., 2020): “Spesso i medici si sentono estranei alla malattia, pensano che essa sia un proble-ma dei pazienti, che non li tocca e non li toccherà direttamente: tuttavia, quando per qualche motivo si ammalano, la pro-spettiva cambia totalmente. Ammalarsi di Covid-19 è una esperienza profondamen-te diversa perché si tratta una malattia co-nosciuta da tre mesi, per la quale la storia naturale non è nota e nessun trattamento

LUIGI FERRANNINI

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farmacologico è sicuro ed efficace. Non esi-ste nessuna sicurezza fondata sulleprove, ma solo timore, cure empiriche e la profonda solitudine dell’isolamento.In una acuzie come questa gli studi ran-domizzati controllati sarebbero di vitale importanza, bisogna tuttavia imparare mentre si agisce, insieme curare e produr-re dati. Il mondo occidentale è arrivato impre-parato a questo evento dimentico che le epidemie sono sempre state flagelli per l’u-manità e che esse richiedono un approc-cio centrato sulla comunità. È necessario ora rompere il ciclo di “pani-

co-poi-dimenticare” e perseguire la priori-tà di finanziamento e attuazione di inter-venti di preparazione efficaci. Dopo l’epidemia di Covid-19 la medicina sarà più umile e concreta ed avrà una vi-sione diversadella prevenzione. Anche tutti noi saremo più consci di essere precari e fragili.”

Grazie ancora a tutti, ed in primis al nostro Presidente, che ci tiene uniti come una co-munità solidale, interdisciplinare, interpro-fessionale ed anche intergenerazionale, il che è una sfida, oggi più che mai.

DAI PENSIERI E DALLE IDENTITÀ FERITE ALLA RECOVERY ED ALLA RIPRESA

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 158-160

Verso il futuro: le ferite provocate dal virus e la rina-scita. Conseguenze sui cittadini

ELENA LUCCHICremona

[email protected]

Ogni crisi che colpisce un sistema, sia esso semplice o complesso, porta ad una destabilizzazione degli equilibri, con il necessario conse-guente riadattamento mettendo in gioco le risorse che quel determi-nato sistema possiede.Così vale anche per il sistema persona: ogni persona, di fronte ad una crisi, deve trovare un suo nuovo equilibrio (ammesso che ne avesse uno in precedenza…) e lo fa mettendo in gioco le risorse che possie-de, che ha costruito e coltivato fino a quel momento, le competenze, le energie, le capacità di fare fronte allo stress (resilienza) e i propri valori. È per questo motivo che nelle crisi più grandi, ciascuno di noi mostra ciò che realmente è, come in una sorta di amplificatore senza filtri.Questo è ciò che stiamo osservando nelle nostre realtà quotidiane di convivenza stretta con persone che pensavamo di conoscere, nelle situazioni di lavoro con colleghi che vediamo comportarsi in modalità nuove e non prevedibili.L’attuale emergenza legata al Coronavirus ha portato alla luce non il peggio delle persone, ma ciò che realmente le persone sono. Così abbiamo osservato spesso sia comportamenti altamente altruistici che comportamenti antisociali e volti al promuovere esclusivamente i pro-pri interessi, non curandosi del bene collettivo.Il sentirci parte di una comunità ci sollecita a mettere in atto com-portamenti pro-sociali: occuparci delle altre persone in difficoltà con volontariato strutturato o semplicemente offrendosi disponibili ad aiutare nelle piccole cose le persone a noi vicine, contribuendo al benessere della collettività.L’impossibilità di essere liberi di muoverci, di seguire le nostre routine, di scegliere i nostri spazi e le nostre attività, anche solo il supermercato dove fare la spesa, ci ha messo in crisi: una sensazione per molti di noi nuova, soprattutto per quelle persone che non hanno sperimentato rile-vanti limitazioni alla propria libertà, come buona parte dei nati in Italia dopo il 1945. Così viviamo questo momento come “surreale”, come lontano dalla nostra esperienza il fatto che qualcosa ci impedisca di fare ciò che vogliamo, di esercitare una libertà che consideravamo una nostra scontata conquista, mentre è il frutto di una continua contrattazione.

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159VERSO IL FUTURO: LE FERITE PROVOCATE DAL VIRUS E LA RINASCITA. CONSEGUENZE SUI CITTADINI

Molte persone si opponevano alla necessità di rimodellare le proprie abitudini confor-mandosi ai nuovi comportamenti per con-trastare la pandemia (distanziamento so-ciale, autoisolamento domestico, riduzione della libertà di movimento). Per tale motivo è stato difficile vivere il primo momento di quarantena, quando venivano fornite solo indicazioni comportamentali da seguire e non vere e proprie norme restrittive. Le persone continuavano a fare come se nul-la fosse successo, in un tentativo estremo di mantenere un equilibrio, per non dover rinunciare alle proprie abitudini, come se queste fossero più importanti della salute individuale e collettiva!In effetti, atteggiamento diffuso, visto quan-te persone continuano a mettere in atto abitudini dannose per la propria salute, pur nella consapevolezza della loro pericolosità, come il fumare e eccedere nell’uso di be-vande acoliche.Sembrava impossibile poter rinunciare alla propria libertà per difendersi da qual-cosa che non si riusciva a vedere concre-tamente: un virus microscopico che non ci faceva sentire minacciati, perché prima nella lontana Cina, poi perché “colpisce gli anziani” e ancora perché “colpisce chi ha già altre malattie”.Solo in un secondo momento, quando quell’invisibile nemico ha cominciato a mostrare i suoi devastanti effetti, le perso-ne hanno cominciato a capire quanto fosse importante rimanere in casa. C’è voluto il continuo risuonare di sirene delle ambulan-ze, la conta dei caduti delle ore 18 come nei bollettini di guerra, le prime intrusioni del virus nella cerchia stretta di amici o familia-ri, a farci comprendere quanto la situazione fosse realmente di emergenza.In quel momento le persone, i cittadini hanno introiettato le norme e hanno capi-to quanto l’isolamento rappresentasse una difesa non solo per sé, ma per tutti, soprat-

tutto per le persone più fragili.Nonostante la nostra mente evoluta, la maggior parte delle persone non riesce a comprendere le situazioni fino a quando le conseguenze non la colpiscono direttame-ne… Ci vantiamo di essere globalizzati, ma in realtà i nostri comportamenti non sono lungimiranti, bensì gravemente miopi.Per questa incapacità di guardare ad ampio raggio spazio-temporale, da alcuni mesi c’è una giovane testimone, Greta Tumberg, che, girando per il mondo, sta cercando di farci aprire gli occhi sulla necessità di fare qual-cosa per la nostra Terra, prima che sia trop-po tardi. Solo per fare un esempio…Siamo piccoli, fragili e insignificanti in questo mondo del quale ci sentiamo i pa-droni e gli sfruttatori…Cosa vogliamo fare? Dove vogliamo andare nel futuro?Il Coronavirus ha evidenziato le contrad-dizioni del nostro tempo: lo sfruttamento del nostro ambiente a favore di una ricchez-za per pochi, la velocità di movimento che non rispecchia i tempi della biologia, l’in-vasione degli spazi degli altri esseri viventi che non segue le regole dei confini naturali, l’illusione dell’onnipotenza della medicina, pensando che la rapida evoluzione tecnolo-gica sia garanzia di immortalità.Abbiamo perso il senso della realtà: pensia-mo di avere dominato la natura con il rapi-do sviluppo tecnologico e che la scienza sia una religione che ha una risposta chiara e rassicurante ad ogni nostro dubbio, incer-tezza o timore. Ci stupiamo davanti all’as-senza di soluzioni della scienza medica nei confronti dell’ancora poco conosciuto Co-ronavirus: abbiamo perso la percezione che prima delle grandi scoperte in campo medi-co esistevano grandi domande e incertezze di fronte alle quali l’umanità non si è mai fermata.Anche ora non ci arrendiamo davanti al Co-ronavirus: un ignoto nemico che può essere

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160 ELENA LUCCHI

sconfitto solo con la cooperazione globale dei ricercatori di tutto il mondo.Non è scontato perché anche in ambito scientifico le ricerche si svolgono spesso in competizione tra i diversi gruppi di lavoro, in una gara a chi per primo isola il virus, trova la cura o risolve il problema. Il Coro-navirus ha reso più evidente che si vince solo cooperando, condividendo i risultati raggiunti in database aperti, le cui informa-zioni sono disponibili a tutti.Forse non abbiamo ancora capito che la nostra sopravvivenza e il nostro benesse-re sono legati alla nostra capacità di co-operare, anche quando non vediamo in quella modalità un immediato e comple-to soddisfacimento di un nostro interesse.Si sente dire che quando tutto questo sarà finito saremo diversi, o addirittura miglio-ri. Ma io non sono così ottimista. Di sicuro, come ogni esperienza, anche questa ci se-gnerà e ci farà comprendere chi realmente siamo e chi abbiamo accanto. Certamente nulla sarà più come prima. Ma dobbiamo stare attenti a non venire colpiti da una altrettanto grave condizione come la “ten-denza all’oblio” di alcune esperienze uma-ne, anche drammatiche: ci si abitua sempre molto in fretta allo stare bene e alla con-seguente spensieratezza; altrettanto veloce-mente dimentichiamo le lezioni del passato, quei momenti di crisi nei quali essere co-munità significa anche farsi carico insieme dei problemi, condividere un destino e co-operare mettendo tra parentesi gli interessi

personali. Questa incapacità di imparare ci rende più deboli. Sarebbe auspicabile che, dopo che questa esperienza ha dimostrato che tagliare finanziamenti servizi, sanità, ricerca e scuola ci ha resi tutti più espo-sti, si traducesse in nuove politiche per gli anni futuri; sarebbe auspicabile combattere l’inquinamento globale nei prossimi anni con la determinazione con cui si cerca di debellare il Coronavirus in questi mesi, la cui virulenza sembra associata all’alto tas-so di PM10 nell’aria. Questo solo per citare un paio di interventi che l’emergenza ci fa sembrare irrinunciabili, ma che rischiamo nel giro di pochi anni di archiviare nel “ci penseremo più avanti” o nell’ “ora non è una priorità”. Dovremo insomma essere bravi a non dimenticare (o far finta di dimentica-re) ciò che ci ha resi vulnerabili in questa situazione, se non vogliamo che per l’enne-sima volta la storia si ripeta in un’involuta ciclicità.Quale rinascita, dunque…Forse una rinascita che è un passo indie-tro… un ritorno al nostro quartiere, aven-do cura degli spazi intorno a noi e della cooperazione con i nostri “prossimi”, un ritorno alla semplicità del fare con quello che abbiamo e non con l’inseguire quello che ci manca, capire che “Vince chi molla” (come la canzone di Niccolò Fabi nel disco del 2016 Una somma di piccole cose), chi lascia scorrere il tempo biologico senza cer-care di domarlo a tutti i costi… facendo la pizza a lievitazione naturale, in casa…

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 161-172

Modern man hero

ELEONORA GROSSI, SIMONA GENTILECremona

[email protected]@ancelle.it

“Avvicinatevi all’orlo” disse“Abbiamo paura” risposero

“Avvicinatevi” disseSi avvicinarono.

Lui li spinse.Ed essi volarono.

(Guillaume Appolinaire)

Modern man hero. La paura della malattia e della morte rispetto ad un nemico invisibile, la sensazione evocata dalle parole utilizzate spesso dalla stampa e dagli organi di potere dell’essere in guerra disarmata contro un nemico invisibile, senza un inizio né una fine, senza un co-mandante che ci guidi in battaglia, unita al desiderio e alla speranza che tutto questo cessi quanto prima, ha portato le persone a dover identificare coloro, i soli, che potessero portarli alla vittoria. “Siete i nostri Eroi”, “siamo nelle vostre mani, siete nei nostri cuori”, “i veri eroi siete voi”, “in questo momento di difficoltà fieri della nostra sa-nità, non mollate” sono solo alcuni esempi dei numerosi striscioni che sono stati appesi alle cancellate degli ospedali e dei luoghi di cura da parte dei cittadini. La necessità di avere dei punti di riferimento, persone nelle quali riporre la nostra speranza di guarigione e la nostra fiducia dell’oggi incerto, qualcuno a cui pensare quando le cose vanno male, sapere che ci sia qualcuno che ti possa accompagnare e assistere. Psicologicamente quanti contrasti in un atto così delicato che scalda i cuori e gli animi. Da parte dei cittadini un incoraggiamento a non mollare, un’incitazione a continuare nella ricerca e nella cura, un grazie anticipato per tutto quello che gli operatori sanitari stanno facendo e che faranno e sostanzialmente il sapere che c’è una via di uscita e che quella risposta tanto attesa solo la cura la può dare. Una forma per de-monizzare la paura, una forma per delegare la sofferenza, una forma per trovare all’esterno qualcuno che capisca il dolore e l’ansia dell’attesa. Eroi, coloro che agiscono in nome di valori alti e nobili, nell’immagi-nario collettivo figli di una divinità ed una persona mortale, dotati di particolari poteri, con un coraggio decisamente superiore alla norma, in grado di tenere testa a qualsiasi avversità. I “modern man hero”, iden-

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tificati nelle persone più comuni a cui viene associata l’eccezionalità dello status di eroe. Semplici uomini, semplici donne, nascosti, invisibili fino a ieri, attaccati quando le cose andavano male, glorificati quando le cose vanno male ma si ha bisogno di speranza; medici, infermieri, psicologi, operatori socio sanitari, fisioterapisti e tutti quanti ruotano intorno alla cura della persona, nessuno escluso, esempi di elevata professionalità e animo nobile che in un momento così diffi-cile trovano la forza di lottare nella loro pas-sione e nella mission ritrovate. Tuttavia l’utilizzo improprio della parola eroe, colui che è senza macchia né peccato, colui che impavido compie gesta straordi-narie, colui che ha una corazza di coraggio che nessuno può trapassare, colui al quale non succederà nulla, rischia di addossare il peso dell’aspettativa e di non considerarne il lato umano, mortale, per l’appunto. Que-ste persone nella loro semplicità e nel loro anonimato, riconosciute solo da una divisa, sono e saranno sempre esseri umani, dediti al proprio lavoro tanto amato, consapevo-li dell’importanza della vita umana. Sono come tutti, se non di più, persone che prova-no come tutti noi coraggio e paure, gioie e angosce, stanchezza e dolori. Sono persone che hanno una famiglia e non solo offrono la propria professionalità ma anche il proprio corpo, lo stesso che portano a casa quando finiscono di lavorare. Sono persone che rive-stono più ruoli; mogli e mariti, genitori e fi-gli, compagno e compagna, sorella e fratello, cugini e nipoti. Sono persone che hanno alle spalle un vissuto emotivo e prospettive per il futuro. E sono persone suscettibili a stress. Quando il carico emotivo è così elevato di-venta difficile separare il lavoro dalla fami-glia. Diventa difficile non portarsi a casa il pensiero del lavoro e non portarsi sul lavoro il pensiero della famiglia. Ecco cosa emerge dai colloqui psicologici di sostegno e sup-porto operati in questo periodo.

Parlando con alcuni operatori tanti riporta-no incubi notturni. C’è chi sogna la terra tremare (“sai quando hai la sensazione che tutto ti crolli addosso tipico dei terremo-ti”). Chi di ricevere mail quotidianamente e di continuo su procedure di protezione che cambiano costantemente (“come tante lettere postali, tu le leggi ma in casella ce n’è già un’altra diversa dalla precedente e tu non hai ancora finito di leggere quella e non puoi andare a letto a dormire perché sai che te ne arriverà un’altra ancora e se non vai preparato al lavoro è un problema”). Chi di dover correre per arrivare ad un tra-guardo ma avere le gambe tanto pesanti che i passi si fanno lentissimi e gravosi come se ci fosse una calamita che li ancora a terra (“dovevo correre, sapevo di dover fare in fretta, ma non riuscivo, con più mi sforzavo con più stavo li, e i muscoli facevano male”). Chi sogna la morte di un famigliare (“sogno sempre di vedere mio marito nella cassa da morto”). Chi praterie senza orizzonti (“c’era questo prato, ma non aveva una fine, pro-seguiva anche in cielo, ovunque mi girassi avevo prati intorno, era inquietante, non c’e-ra un orizzonte”). Chi sogna di rincorrere la persona deceduta il giorno stesso sotto i propri occhi e urlare di tornare indietro (“l’ho sognato, non ricordavo il suo nome, ma sapevo di poter fare di più, quindi lo imploravo di tornare indietro ma lui conti-nuava ad andare avanti, non si voltava, non mi sentiva”). Chi di avere composto un nu-mero di telefono ma di non ricordarsi chi è l’interlocutore né cosa dire (“componevo questo numero, non di cellulare, fisso, ma non sapevo chi stessi chiamando e la cosa più inquietante non ricordavo cosa dovessi dire”). Chi di vedere cadere in un burrone il figlio (“andava giù, giù, giù sempre più giù e io non riuscivo a raggiungerlo”). Chi di continuare a farsi la doccia (“perché non mi ricordo di averla già fatta, tutte le volte la dimentico, tutte le volte la rifaccio per

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sicurezza”). Si svegliano di soprassalto agi-tati, sudati, angosciati. Incubi ben descritti riconducibili a tre necessità. Primo fra tutti la sicurezza sul lavoro. L’assenza di presidi adeguati e l’incertezza delle procedure di vestizione e svestizione dei presidi. Presidi non adeguati perché non idrorepellenti. Ma-scherine da non indossare per non spaven-tare gli utenti. Percorsi poco definiti. Incu-bi che non lasciano tranquilli di notte, non danno sonno ristoratore, invadono i nostri pensieri di giorno e aumentano lo stato di allerta. Incubi che lasciano inquieti anche alla sola idea di abbandonarsi al sonno. L’in-conscio cerca di far emergere dei conte-nuti che la coscienza razionale non vuole vedere o nega del tutto o si trova costretta a dover tacere. Ecco che l’onirico parla un linguaggio simbolico a tinte forti e accese, esprimendo una psiche bloccata in un forte pericolo o in profonda ma inquietante so-spensione. L’organizzazione che faccia da contenitore delle ansie. Ruoli ben definiti, difficile identificarsi quando le divise sono uniformate, regole chiare e precise per tut-ti ma soprattutto tempestive e condivise con e da tutti. Modalità comunicative chia-re, ascolto e rassicurazioni. Coerenza tra il dire e il fare. Questi operatori sono sempre in stato di allerta, tante cose a cui pensare, tante procedure da rispettare, tanti dubbi ancora irrisolti, la sensazione di essere soli a gestire il tutto, l’ansia di aver sbagliato qual-cosa. L’uomo non è un essere che può vive-re in costante stato di allerta. E lo stato d’al-lerta prolungato aumenta lo stress da lavoro correlato. E soprattutto la consapevolezza di aver cambiato modalità di cura; “non riesci a prenderti cura come si dovrebbe del pa-ziente. Tanti colleghi ammalati, noi in sotto-numero con turni estenuanti”. Parlando con alcuni di loro si delinea l’im-portanza della relazione umana. Alcuni di loro non si riconoscono e combattono per adeguarsi ad una situazione surreale. “Man-

ca il toccare il paziente, il visitarlo, lo stare accanto in conversazioni rassicuranti”. “Vi-vere l’isolamento non permette di andare dal paziente magari 2 volte al giorno”, in-contrarlo per il corridoio per uno scambio di sguardi. La mascherina, la cuffia, la visiera mancano di umanità, quella che passa dal colore della pelle, dal calore di un tocco, dalla postura delle labbra, dalla curvatura del sopraciglio, dal taglio e dall’acconcia-tura dei capelli. Quella relazione che passa nel sedersi sul letto del paziente scambian-do qualche battuta. Alcuni di loro temono il contatto e si limitano allo stretto necessario. Altri sono molto concentrati sulla quotidia-nità e dimenticano che dietro il numero di stanza c’è un paziente, che sente e vede la differenza. Paziente uomo di 80 anni “ti danno la mascherina ma si avvicinano a te come se fossi appestato”. Paziente donna di 26 anni “la differenza tra il ‘molto bene!’ di un medico (quando in realtà non va molto bene per te persona) ed una risposta come la tua a più piani e che racchiude una presa in carico!”.Ascoltando tanti di loro emerge ben visibile la riscoperta della passione. Scriveva Milan Kundera nel 1984 “Soltanto il caso può ap-parirci come un messaggio. Ciò che si ripe-te ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla”. L’emergenza fa riscoprire la passione per il proprio lavoro, quell’impeto interiore, quel desiderio ardente di portare il proprio contributo. E di conoscerne di più. Come si fosse svegliata quella parte di te operatore, assopita dalla e nella quotidia-nità, certezza, abitudine e prevedibilità del tuo lavoro. “Ricordo quel collega medico, aveva imboccato una strada che l’avrebbe portato al successo; poi storie di vita lo han-no portato qui in città e ha fatto una scelta. La famiglia. Persona rispettabilissima e rico-nosciuta per la sua bravura. Poi quell’inter-vista. Aveva uno sguardo acceso, vivo, come se avesse ritrovato il valore dell’essere me-

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dico, la sua essenza”. “La mia collega non sembra più lei. Ha smesso di lamentarsi, è combattiva, fa più cose adesso che prima”. “Non l’ho mai vista sorridere con gli occhi come in questo periodo”. “Non voglio anda-re a casa, c’è ancora tanto da fare qui”. “Ero in pensione da 23 anni e ho detto sì quando sono stato richiamato alle armi”. Spesso mi hanno detto di sentirsi più motivati, di voler rispondere Sì ad una richiesta di aiuto. Alcu-ni si sono offerti volontari per sostegno te-lefonico nelle ore dopo il lavoro, altri sono andati in paesi stranieri per portare il loro contributo, lontani dai propri cari, ben con-sci del rischio che correvano. Una passione sicuramente positiva ma che può impedire il controllo della ragione. All’inizio alcu-ni passi falsi sono stati fatti; “dal desiderio di capirci di più sono restata con quel pa-ziente circa un’ora e senza protezione. Ora l’ho pagata!”. Una passione che va ritrovata perché, grazie a quella, l’attenzione si spo-sta su quegli aspetti gestionali che remano contro questo impeto, quasi a schiacciarlo. E questo genera rabbia e dalla rabbia nasce l’incertezza e la paura. È questo il momento per fermarsi, tutelarsi, e dare modo, nella si-curezza per sé e per gli altri, di lasciare cam-po alle sole emozioni positive, alla passione ritrovata in un’ovattata quotidianità. Diceva Hegel “nel mondo nulla è fatto senza una grande passione!”E a corollario si inserisce la necessità, non-ché la voglia, di ascolto, vero e sincero. In questo periodo sono state rilasciate alcune interviste da parte dei dirigenti di alcune aziende di settori industriali diversi che mi hanno colpito moltissimo. Mi hanno ripor-tato alla memoria alcuni studi di filosofia in particolare l’appena citato Hegel. Scriveva che “tutto ciò che è umano, comunque ap-paia, è umano soltanto perché vi opera e vi ha operato il pensiero”. E Marx che ripor-tava “da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno”. Alcune

idee originali di trasformazione della pro-duzione sono venute proprio dagli operai e dagli impiegati, i quali, avendo sottocchio un modo pratico di lavorare, si sono uniti in gruppo cercando soluzioni da proporre poi ai rispettivi titolari, i quali non si sono crogiolati dietro all’essere l’idea di un non-ingegnere o dietro al giudizio operato del non essere arrivata dall’alto dei vertici, ma i quali hanno sostenuto il sentirsi parte di una realtà industriale viva, ringraziando e ricompensando chi l’idea l’aveva avuta e proposta. Basta poco per sentirsi parte di un gruppo. A volte anche negli ambienti ospedalieri le idee buone vengono avanzate e proposte proprio da coloro che vivono i reparti quotidianamente. Loro hanno sot-tocchio la praticità lavorativa, e in situazio-ni di emergenza hanno voglia di portare il proprio contributo per un bene superiore, il bene del gruppo, il bene della struttura. Il riconoscimento per il proprio lavoro arriva anche attraverso una semplice chiamata. È così che la passione ritrovata si alimenta, e quella fiammella, pur piccola, pur personale, può divampare se ascoltata e accolta perché sostenuta. Una pacca sulla spalla, un grazie sentito, un incoraggiamento possono fare e potranno sempre fare la differenza. Stan-no creando lo spogliatoio di una squadra. In fondo ai capitani non si chiede tecnica, ma capacità di fare gruppo. Ai generali non si chiede l’uso speciale di un arma, ma la capacità di farsi ascoltare e seguire dai pro-pri soldati. Il medico, con l’ascolto del pa-ziente, può arrivare a diagnosi differenziali migliori. Uno psicologo senza ascolto non raggiunge il benessere del suo paziente. L’autostima porta in capo al mondo. Ma l’a-scolto vero deve necessariamente arrivare anche da parte della comunità. Tutti i sacri-fici che queste persone fanno per portare il loro contributo, la vita, la loro storia passata, presente e futura, richiede la comprensione anche di quella parte della comunità che si

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definisce impavida. Quella parte di cittadini che fa la scelta di non rispettare la quarante-na e le pur poche regole di condotta civile. Quelle persone che sono sempre uscite pur nei divieti, senza mascherina, senza motivi di necessità. A volte è mancato il sentirsi parte di una comunità. “Ma se ci chiamate eroi perché voi non ci date una mano a sal-vare i vostri cari, rispettando le regole, ma-gari si infetta meno gente e noi possiamo curare meglio chi ne ha bisogno?”. “Corria-mo corriamo corriamo, ma non ci danno una mano, né chi se ne infischia delle regole e va in giro bello bello dicendo che tanto preferisce morire, …, né coloro che sban-dierano al vento finti ideali ‘ci hanno tolto la libertà’,… perché voi con i vostri com-portamenti sconsiderati ci state togliendo la nostra, e in più ci addossate il peso dell’es-sere eroi”. Scriveva Hegel “siamo liberi solo se tutti lo sono”. La libertà si conquista con il rispetto delle regole. Scrive Kierkegaard “La tua scelta è una scelta estetica; ma una scelta estetica non è una scelta. Scegliere è soprattutto un’espressione rigorosa ed ef-fettiva dell’etica”. Chiaramente la non scelta limita le libertà altrui esattamente quanto la scelta non basata sull’etica civile. Quindi un circolo vizioso di virtù e rabbia, un vortice nel quale si inserisce la paura.E a corollario si inserisce anche l’ascolto dell’intimo delle persone. Operatori che hanno bisogno di capire se la paura e le emozioni che sentono sono giuste o sba-gliate, gente che non sa se ha scelto il lavoro giusto per sé, gente che ripensa e rimugi-na sulla propria situazione lavorativa gene-rando ulteriore ansia e angoscia, arrivando alla mancanza di fiato, a correre e a dover smettere di farlo, al sentirsi un peso sul petto che schiaccia come macigni. Opera-tori che ti chiedono di legittimarli ad avere paura, perché hanno paura dell’avere paura. Capire che la paura in quanto tale è dentro di noi, sapere che è giusto provarla special-

mente quando si avverte un pericolo è la nostra salvezza. Ma temerla porta ad un suo aumento esponenziale fino ad arrivare agli attacchi di panico o al suicidio. Due infer-miere giovani si sono tolte la vita in questo periodo, un cugino di una paziente si è spa-rato alla notizia di avere il tampone positivo. Si, legittimiamoci ad avere paura, ma siamo coscienti del fatto che ci debba protegge-re dal pericolo stando attenti ad assumere comportamenti corretti per non essere con-tagiati e non contagiare, e domiamola razio-nalmente per non esserne sopraffatti. “Sono combattuta, in questi giorni l’idea di tornare al lavoro mi spaventava, ma io mi sento in dovere di tornare, … questa ambivalenza mi spaventa!”. L’istinto, il nostro ES, è pulsione di vita, e nel caso della malattia e del peri-colo ci protegge, impariamo ad ascoltarlo. Il senso di colpa del dover rientrare amma-lati al lavoro in tal caso è il nostro costrutto troppo rigido nella morale, il nostro SUPE-RIO, che schiaccia l’istinto. E in mezzo ci sia-mo noi, cuore e ragione, es e superio, istinto e moralità. Istinto e ragione; una moneta ha sempre due facce. Impariamo a spenderla bene. E dopo un periodo di malattia, rientrare al lavoro e affrontare il cambiamento, sep-pur temporaneo, di tempi e spazi. Gestire la sensazione della surrealità di un mondo che ti apparteneva e ora non riconosci più. Corridoi lunghi e distesi, marmi interrot-ti da tele cerata inzuppate di candeggina. Porte chiuse, ma, dietro, la vita. Telecame-re accese ci mostrano i pazienti, loro non vedono il personale e non si immaginano di essere visti. Occhi, solo gli occhi, a volte appannati dalla stanchezza e dal respiro. Oc-chi, solo occhi, a volte impauriti e persi nel vuoto. Occhi, solo occhi, struccati o truc-cati, ma sempre ricchi e pieni di emotività. Il tono quanto è importante il tono di voce. Gli anziani che per rispetto tolgono la ma-scherina quando ti devono parlare e la ri-

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mettono quando hanno finito. Le note di una canzone che riecheggiano sui tetti della città per dare una pausa all’immobilità. E il fruscio dei calzari e del camice che arriva parzialmente storpiato all’orecchio coper-to dal sacco dell’immondizia e dalla cuffia copri capo si armonizza con il rumore del respiro nella mascherina, e nella visiera rie-cheggia il suono delle tute a vento mentre entri in baita dopo una sciata. Le voci distor-te dal respiro affannoso dei pazienti e dei colleghi. Quella fame di aria fresca e di ricer-ca del sole. Quei camici blu indifferenziati per cui il paziente non solo non riconosce la persona ma nemmeno il ruolo. E si diso-rientano. Ti chiamano “infermiera!” Ma tu concentrata vai per la tua via, puoi non sen-tirli, non sei abituata ad essere chiamata così. E come dimenticare il suono di ambulanze che si alternano come parti di un orchestra in cerca di melodia. Il frastuono del silenzio, quelle voci rumorose dei pensieri che si af-follano nella tua testa, quelle immagini così nitide di un passato non dimenticato che lasciano spazio a scenari presenti e futuri immaginati e resi reali dalla forza degli stessi pensieri. Quel silenzio tanto sognato ed ora tanto temuto. Una nuova frenesia all’interno di un vivere più rallentato. Quella routine dei centri di cura così interrotta, così lenta ma così stressante.Modern man hero. E dall’altra parte della barricata ci sono altri eroi, ancora più invi-sibili, ancora più anonimi. I caregiver, tutti, nessuno escluso. Genitori che si occupano dei figli piccoli, barcamenandosi tra video lezioni, turni lavorativi, compiti, isolamento, casa. Genitori di figli con disabilità fisica e/o psicofisica, genitori di bambini iperattivi e con disturbo oppositivo provocatorio, geni-tori di figli con diagnosi di spettro autisti-co, tutti in isolamento. Proviamo a metterci nei loro panni. Tanti riportano nei colloqui telefonici il non sentirsi cercati, il dover combattere per mantenere una quotidiani-

tà, uno schema, che rassicuri chi soffre, ma nell’impossibilità concreta di farlo. Genito-ri che devono diventare insegnanti perché non hanno il supporto delle istituzioni sco-lastiche. Figli che si occupano dei genitori anziani, alcuni con deterioramento cogniti-vo e demenza. “Abbiamo paura”, “sono sem-pre in allerta, qualsiasi cosa faccia ho pau-ra di farla ammalare”, “siamo allo sbaraglio. Faccio tutto il necessario ma non so se è mai abbastanza”, “non ci danno indicazioni, ci arrabattiamo”, “se succede qualcosa non siamo in grado di capire, nessuno li visita, manca la praticità nella cura”, “sappiamo che dobbiamo stare in casa per non conta-giare ma nessuno ci dice cosa fare per cu-rarci”, “il medico? Chi l’ha più sentito?”. Una paura positiva che ha fatto agire per tem-po, mettendo in casa in isolamento i pro-pri cari nella loro fragilità. I caregiver sono provati; alcuni non hanno la badante per-ché per paura non si reca più al lavoro, altri ne avevano bisogno e la stavano cercando ma in questo periodo non ne trovano; chi frequentava il centro diurno non ci va più per paura del contagio; chi ha bisogno di assistenza cerca nelle residenze per anzia-ni ma ciò che sente in TV nelle cronache non aiuta. Quindi anziché essere sopraffatti da queste angosce hanno preso coraggio, pur nella paura, e si sono riorganizzati. Non hanno supporti sociali e si sono attrezzati per come potevano. Alcuni sfruttando le ore in più di accompagnamento, altri chieden-do l’aspettativa, altri installando telecamere per il controllo a distanza. Altri hanno chie-sto di poter fare dei turni per alternarsi nel-la cura del proprio caro. Attrezzati di guanti e mascherina e … candeggina. E hanno vi-sto che i pazienti non sviluppavano sintomi e stavano bene. Hanno imparato a domare la paure. “Ha trovato i suoi spazi nella solitudi-ne, le mettono tranquillità. Io sono il punto di riferimento (figlia)”, “non capiscono cosa sta succedendo e questo è un bene, ma han-

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no paura della mascherina, non si ricordano che l’abbiamo e tutte le volte va rispiegato. E’ difficile”, “il non comprendere non gene-ra ansia”, “ci manca la praticità della cura. Si sono gonfiate le gambe, io non so cosa sia, nessuno viene a vedere cosa abbia”. Prova-no e si barcamenano con successo, aprono gli occhi, hanno imparato a gestire una nuo-va quotidianità, non senza strascichi di sof-ferenza. “Mi sono sentita abbandonata, mio marito fatica a camminare, ha una patologia pregressa (trombocitemia) ed è da due mesi che ha la febbre. Non mi mandano in ospe-dale per paura che prenda il corona virus, il medico mi dice di provare la saturazione che va bene. Io sto bene solo quando dormo (moglie, 84 anni, unica caregiver). Non ce la faccio più a vivere così”. “Non sta moren-do di corona virus ma di senso di abbando-no. E’ stata ricoverata a dicembre in RSA e all’improvviso non ci vede più. E’ diventata taciturna, soffre di sindrome di abbandono (sorella)”. “Sento la morte addosso, vado a spanne”. “Non vuole credere che c’è il co-vid. E’ convinto sia un’ideazione politica, è difficile, diventa scontroso”.“Emozioni che scaldato il cuore, ma di rab-bia, quindi siamo più freddi fuori, nelle rela-zioni (operatore sanitario rsa, nuora, unico caregiver)”. Modern man hero. Dall’altra parte della barricata ci sono gli eroi più importanti, i pazienti. Soli, indifesi, affrontano la malat-tia ma non solo, l’isolamento e la solitudine. Quali sono i problemi principali incontrati? L’essere impreparati all’isolamento. In casa. In ospedale. A casa i pazienti riferiscono di essere sostanzialmente invisibili. Tanti ripor-tano storie di un sistema sul territorio che non ha funzionato fin dall’inizio, numeri di telefono che squillavano invano e quando qualcuno rispondeva delegava sempre a qualcun altro. Poi hanno vissuto i cambia-menti delle politiche di intervento; non si spiegano perché devono stare in casa senza

ricevere il tampone, non hanno i mezzi né gli strumenti per capire se sono ammalati e se sono contagiosi, non hanno punti di rife-rimento che li guidi. In ospedale non posso-no recarsi se non hanno sintomi respiratori, il medico di base giudica il respiro al tele-fono (“non è ancora così grave puoi aspet-tare” e il giorno dopo muore), senza tener conto della soggettività del sintomo. Notizie contraddittorie date in TV; tampone non diagnostico, tanti falsi positivi, falsi negativi; bene uscire ma senza mascherina altrimenti si respira sempre la stessa aria; esci ma con mascherina per non infettare. In ospedale i pazienti anziani non sono tutti pronti all’i-solamento. Alcuni hanno scambiato l’isola-mento per non cura, “sembra che ti diano un passa là”, “sono venuto qui per morire”, “tor-no a casa in una bara”, “sono vecchio non mi curano più”. E i famigliari che non ricevono telefonate a casa e se provano a chiamare non sempre trovano chi risponde al telefo-no. Dipende molto dall’organizzazione delle strutture ospedaliere e dalla sensibilità degli operatori. “E’ stabile”, “stazionario”, “nessu-na variazione rispetto a ieri”. Tutto e niente. “Mi dicevano che era stabile da due setti-mane, oggi vado alla camera mortuaria per un ultimo saluto”, “non so come è morto, mi hanno chiamato dicendomi che lo hanno trasferito in camera mortuaria ieri sera”, “ho perso la mia vita, morto, oggi, e mi dicevano che rispondeva bene alla cura con plasma ed era senza ossigeno terapia da 5 giorni”. La non comunicazione è davvero un grande problema. Specialmente in questa situazio-ne in cui la prospettiva di vita è aleatoria così come la causa di morte. È una comuni-cazione asettica che purtroppo non prepara alla separazione dal proprio caro e non av-via l’elaborazione del lutto che comunque non ci sarà perché sono vietati i funerali. Non si vede morire, non si vede nella bara, non si vede la bara chiusa, non si assiste alla seppellitura, quindi un lutto mancato diffici-

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le da elaborare, quanto piuttosto un trauma che può rimanere per molto tempo. Moltis-simo tempo. “Non mi spaventava l’idea del-la morte, ma morire senza qualcuno vicino, e non avere un funerale religioso non era quello che avrei voluto!”.Ne quid nimis. Come mantenere quel sano equilibrio emotivo in queste situazioni?Modern man hero. Tutti, ma proprio tutti sperano che questa situazione passi nel più breve tempo possibile. Un evento che ha turbato profondamente l’equilibrio psicofi-sico delle persone, che ha provocato delle ferite anche profonde negli animi. Non solo la malattia, la morte, il contagio, quanto la gestione del tutto. Il nostro presente è già passato. Il nostro futuro è l’attuale presente. E le varie frasi ostentate ovunque, sui balco-ni delle città, sui social, in televisione, alla radio: “#andràtuttobene”, “tornare alla nor-malità”. In particolare questa seconda frase “tornare alla normalità” è un’arma a doppio taglio. Questa è la nostra normalità, da qui dobbiamo ripartire per costruire passo dopo passo il nostro futuro, un futuro nuo-vo, diverso. Se l’obiettivo fosse ripristinare la quotidianità esattamente come era pri-ma si corre il rischio di considerare quanto accaduto una semplice parentesi, aperta e poi chiusa, in qualche modo gestita. La sto-ria è piena di pandemie di massa trattate come parentesi e gli errori commessi oggi potrebbero essere verosimilmente legate a questa forma mentis. Abbiamo aggiunto un’esperienza in più alla nostra vita e ogni cosa vissuta è fonte di apprendimento. L’ap-prendimento genera adattamento e cultura. La nostra nuova forza sta proprio in questo. Nell’essere resistiti, nell’aver affrontato da soli la pandemia, esserci riusciti senza che nessuno ci dicesse cosa fare e come farlo, ritrovando la forza di proporre soluzioni e di essere stati agenti attivi della nostra vita e di essere infine cresciuti superando queste difficoltà. Ritrovare la capacità di riprender-

si e uscirne più forti. Tutto ciò ha messo in seria discussione l’idea che per affrontare un’emergenza si abbia bisogno di plurime task force di esperti che dettino linee gui-da con i tempi biblici della burocrazia e dell’essere lontani dalle realtà; ha avvallato l’idea che la forza della passione delle per-sone che parlano, si informano e si formano possa cambiare il mondo. Ognuno di noi è fautore del proprio destino e pertanto scri-veremo la nostra rinascita. Chi ha sofferto molto durante la propria infanzia con l’aiu-to adeguato fatto di amore, sostegno, forza dei legami, prospettiva di vita è riuscito a ricostruirsi un futuro, a dare una svolta po-sitiva e a condurre una vita intensa, produt-tiva e piena di emozioni positive basata su relazioni e interazioni sociali funzionali. Ma ha sempre ricordato i periodi bui della guer-ra, della carestia, delle incertezze lavorative, senza nasconderle e si è saputo adattare a nuovi contesti, nuovi progressi, nuovi am-bienti, parlando di tolleranza emotiva e ri-sposta psicologica adeguata. Non esagerare per evitare il crollo. C’è un limite oltre il quale non possiamo andare. Oltre quel limite l’uomo crolla. Il limite è quello della tollerabilità. Citiamo i versi di Dante, quando parlava di Pier delle Vigne.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto.

(Dante, Inferno XIII, 70-72)

Ci porta alla memoria quanto descrisse Freud rispetto al lutto (Freud, 1976), pre-parando la persona a volgersi di nuovo alla realtà attuale della vita conservando una colorazione affettiva positiva per il mondo dei ricordi. La vita com’era prima è il ricor-do positivo che starà per sempre dentro di noi. Il lutto che dobbiamo saper elaborare in questo momento è proprio quello di una normalità, per come la intendiamo noi, che al momento non può essere, non può tor-

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nare. Staranno male tutti coloro che si ag-grapperanno a quel ricordo in modo così narcisistico da non sapersene liberare. Ecco perché è davvero importante la prudenza e la gradualità della rinascita, esattamen-te come i novi mesi di gestazione per poi avere il capolavoro chiamato vita. Ci siamo addormentati una sera lasciando il nostro mondo così come era e ci siamo svegliati la mattina successiva in un mondo diverso. Piazza San Pietro è deserta, il Papa prega da solo davanti al crocifisso e nelle via Crucis, la Pasqua è triste, la primavera non si festeg-gia. Abbracci e baci sono diventati improvvi-samente armi, non far visita ai genitori e agli amici è diventato un atto d’amore. Improv-visamente ti rendi conto che il potere, la bellezza e il denaro non hanno valore e non puoi comprare l’ossigeno che non stai re-spirando. L’uomo è in gabbia, nelle quattro mura di casa sua, mentre fuori la natura fa il suo corso. Rinascono i fiori, l’erba si tinteg-gia di verde e colora i prati. Il tramonto si fa più lungo e più rosso. Gli uccellini tornano la mattina presto a darci il buon giorno. La vita va avanti, il mondo va avanti, anche sen-za di noi. E la terra ce lo sta dicendo, siete miei ospiti, non i miei padroni. Per fiorire ci vuole il giusto tempo, come la primavera ci insegna ogni anno. Adottiamo allora le giu-ste misure, le giuste regole, progettiamo il futuro nel medio termine non giorno dopo giorno. Non spingiamo troppo sull’accelera-tore, affinché non si inizi un nuovo inverno. In primavera guardiamo la terra e i prati in fiore ma è in autunno che iniziamo a guar-dare il cielo.Le domande veramente serie sono quelle per le quali non esiste ancora una rispo-sta. Anziché rinascere continuiamo a pian-gere il passato. Ci poniamo troppe doman-de tutti i giorni su come sia possibile un ritorno alla normalità ma ci poniamo poche domande su come poter cambiare veramen-

te. E intanto ci perdiamo la rinascita dietro discussioni spesso insensate. Gli interventi, oltre che graduali, devono seguire regole di buon senso e devono essere condivisi. La grandezza di un uomo risiede nel fatto che egli stesso porta il suo destino, esattamen-te come Atlante portava sulle spalle la volta celeste. La statua è rappresentativa del falli-mento di tutti coloro che nella storia hanno voluto tenere tutto il mondo sulle proprie spalle in solitario. Il sacrificio e le fatiche che compiamo ogni giorno non devono es-sere negativi ma positivi, non distruttivi ma costruttivi. Spesso crediamo che caricarsi di responsabilità sia l’unica via possibile. Ogni mattina al risveglio ci imbarchiamo sul traghetto della nostra giornata cercan-do disperatamente di fare tutto quello che abbiamo programmato la sera prima, senza trovare onde. Ma inconsciamente sappiamo già che è impossibile. E alla sera, quando an-diamo a dormire e ci prendiamo, nel sonno, la nostra pausa dal mondo, immaginiamo la nostra realtà ideale perché inconsciamente sappiamo che domani è un giorno diverso dove tutto è potenzialmente possibile. Se si cerca l’infinito basta chiudere gli occhi. Ciò che manca in Atlante e in questo ciclo di morte (sonno) e rinascita (risveglio) è l’a-pertura. Lo sguardo è basso, le spalle por-tano un carico troppo pesante a tal punto da non riuscire ad alzarsi, le gambe chinate sul pavimento e il viso provato. Mi doman-do se anche noi non siamo un po’ piccoli Atlanti, appesantiti nella nostra realtà quoti-diana e imprigionati nella nostra realtà ide-ale. Quante volte avremmo voluto cambia-re qualcosa in noi e non lo abbiamo fatto. Fintanto che facciamo solo riferimento alla nostra realtà ideale saremo sempre destinati a ricadere ogni sera nel dramma, domani è un giorno nuovo, in realtà sarà sempre lo stesso. Non servono allora solo idee. Servo-no idee possibili, realistiche e realizzabili.

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Il confronto e il gruppo, il team e l’equipe, permette la circolazione di idee, la divisione delle responsabilità, la costruzione vera di una realtà non ideale ma possibile. Scrive-va Einstein “stupidità è fare sempre la stessa cosa e aspettare risultati diversi”. Scriveva Dostoevskij “è pericoloso reprimere nei gio-vani l’orgoglioso entusiasmo”. Le cicatrici sono diagrammi segreti delle ferite personali. Diagrammi di tutte le vec-chie ferite della storia di ciascuno di noi. La maggior parte delle nostre ferite guarisce, lasciando solo cicatrici, ma alcune non gua-riscono. Certe ferite le portiamo con noi ovunque e anche se si sono rimarginate da tempo il dolore resta. In questo periodo di fallimenti, di delusioni, di tradimenti, in que-sti giorni senza fiato e accecati da una realtà nostra, ma non più nostra, il rischio è quello che ansia e paura prendano il sopravvento. Rinascere significa portare nel cuore le no-stre ferite già cicatrizzate per evitare che i traumi si trascinino nel tempo. Il problema è che normalmente la gente si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze. Traccia una linea immaginaria sulla traiet-toria del tempo al di là della quale le sue sofferenze di oggi cessano di esistere. Una li-nea del tempo immaginata come linea retta in cui l’uomo trova felicità nel desiderio di ripetizione di qualcosa che lo fa star bene. Quante volte andiamo in vacanza nello stes-so posto perché lì stiamo bene. Quante vol-te siamo titubanti quando cambiamo meta turistica e inizialmente facciamo il parago-ne con la meta precedente. Quante volte paragoniamo un posto di lavoro ad un’espe-rienza già vissuta. Quante volte cerchiamo di educare un figlio nello stesso modo del primo. Un periodo turbolento come questo, in cui il passato non può tornare identico a prima e il futuro è incerto, i più fragili rischiano di perdersi nell’ansia del presen-te. A meno che non sappiamo adattarci al presente stesso.

E la gente rimase a casa E lesse libri e ascoltò

E si riposò e fece esercizi E fece arte e giocò

E imparò nuovi modi di essere E si fermò

E ascoltò più in profondità Qualcuno meditava

Qualcuno pregava Qualcuno ballava

Qualcuno incontrò la propria ombra E la gente cominciò a pensare in modo

differente

E la gente guarì. E nell’assenza di gente che viveva

In modi ignoranti Pericolosi

Senza senso e senza cuore, Anche la terra cominciò a guarire

E quando il pericolo finì

E la gente si ritrovò Si addolorarono per i morti

E fecero nuove scelte E sognarono nuove visioni

E crearono nuovi modi di vivere E guarirono completamente la terra

Così come erano guariti loro

(Kitty O’Meary, 1839-1888)

Pensare in modo differente! E la gente gua-rì! E la terra guarì! E fecero nuove scelte! E sognarono e crearono nuovi modi di vivere! Ecco la nostra rinascita. La storia è ciclica, il tempo è ciclico. Siamo la somma di tutti i nostri errori. Questa poesia è stata scritta durante l’epidemia di peste. Ma la rinasci-ta psicologica è proprio questo. Pensare in modo differente. Altrimenti il rischio è quel-lo di un disturbo post traumatico da stress. La pesantezza, la necessità e il valore sono tre costrutti interrelati tra loro. Ciò che è necessario è pesante. Ma solo ciò che pesa ha valore. In questo caso pensare in modo

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diverso diventa necessità quotidiana. Il pen-sare in modo differente è per noi un peso enorme in questa situazione straordinaria nel suo essere. Ecco allora il suo vero valore. Scriviamo la nostra storia. Siamo noi ora nella storia. Scriveva Milan Kundera (Praga, 1929) “allora si accorse di colpo di non es-sere infelice. La presenza fisica di Sabrina era molto meno importante di quanto im-maginasse. Importante era l’impronta dora-ta, l’impronta magica che lei aveva lasciato nella sua vita e della quale nessuno poteva privarlo”. In queste occasioni non abbiamo proprio dimostrato di aver appreso dagli er-rori del passato. E se la storia è importante per non ripetere gli stessi errori allora pro-viamo a scriverla in modo diverso, per lascia-re quella impronta dorata. Riporto qui un pezzo tratto da Primo Levi, Se questo è un uomo. “Se fossimo ragionevoli dovremmo rassegnarci a questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente inconoscibile, che ogni congettura è arbitraria ed esattamente priva di fondamento reale. Ma ragionevoli gli uomini sono assai raramente, quando è in gioco il loro proprio destino: essi preferi-scono in ogni caso le posizioni estreme; per-ciò a seconda del loro carattere fra di noi gli uni si sono convinti immediatamente che tutto è perduto, che qui non si può vivere, che la fine è certa e prossima; gli altri che per quanto dura sia la vita che ci attende la salvezza è probabile e non lontana e se avre-mo fede e forza rivedremo le nostre case e i nostri cari. Le due classi dei pessimisti e degli ottimisti non sono per altro così ben distinte: non già perché gli agonistici siano molti, ma perché i più senza memoria ne co-erenza oscillano fra le due posizioni limite a seconda dell’interlocutore e del momen-to”. Già senza memoria. “Tutti scoprono più o meno presto nella loro vita che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si sof-fermano invece sulla considerazione oppo-sta: che tale è anche una infelicità perfetta.

Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro e questo si chiama in un caso speranza e nell’altro incertezza del domani. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali che come inquinano ogni felicità duratura così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci so-vrasta e ne rendon frammentaria e perciò sostenibile la consapevolezza. Siamo noi, grigi e identici, piccoli come formiche e grandi fino alle stelle”. “La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi e sulla loro matita molto pensano e discutono ma per noi la questio-ne è più semplice. L’uomo è incontentabi-le. Mentre piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto si tratta di una sempre insufficiente cono-scenza della natura complessa dello stato di infelicità per cui alle sue cause che sono molteplici e gerarchicamente disposte si dà un solo nome quello della causa maggiore”. Sfruttiamo questo periodo per pensare ve-ramente a chi siamo. Sogniamo e osiamo.

Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume,

perché il fiume non è mai lo stesso,

ed egli non è lo stesso uomo. (Eraclito)

Dobbiamo sfruttare questo periodo per capire e saper distinguere ciò che è vera-mente essenziale per la nostra crescita per-sonale. In questo periodo scopriamo carat-teristiche che non sapevamo di possedere, forza e qualità nascoste o, perché no, limiti che non pensavamo di avere. Tanti stanno già pensando di voler cambiare il proprio lavoro, perché delusi da come è stato gestito questo momento di crisi, o perché scopro-no che l’emergenza è la loro strada. Allora dobbiamo accogliere nella nostra vita tutto ciò che ci fa crescere e migliorare. E dobbia-mo avere il coraggio di rinunciare a tutto

MODERN MAN HERO

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il resto, lasciandoci guidare dalla chiarezza delle nostre idee possibili.Non dobbiamo temere le sconfitte. In que-sto periodo sono all’ordine del giorno. Noi non siamo eroi. Nessuno vince sempre. Nes-suno perde sempre. Ma dalla sconfitta dob-biamo trarne un insegnamento. Agiamo nel presente, l’unico momento reale è adesso. “Ciò che distingue una persona che ha stu-diato da un autodidatta non è la quantità di conoscenza, ma il grado di vitalità e di co-scienza di Sé” (Kundera M., 1984). Ci hanno forse insegnato a scuola o all’università ad affrontare tutte le situazioni della vita? No. Ci hanno forse insegnato tutte le risposte da dare ad un paziente? No. Ci hanno forse insegnato a fare i genitori? No. Hanno mai scritto un manuale completo e complessivo di chi siamo noi oggi? No. La vita è cambiamento, e nella vita, ogni gior-no, abbiamo a disposizione 86400 secondi ognuno diverso dall’altro. E il bello della vita è che ogni giorno arriva con 86400 secon-di da spendere. Siamo responsabili al 100% della nostra vita.

Aggiungi un pizzico di fede. Non intendo solo la fede religiosa, che ognuno di noi può avere o meno. Intendo la fede in noi stessi. Credere in noi, nella passione ritrovata, nella voglia di unirci per fare meglio, nei nostri desideri, nei nostri pensieri. Convinti di po-tercela fare e soprattutto di meritarci il suc-cesso, anche se nessuno ce lo dice o anche se siamo umili abbastanza da non ammet-terlo a noi stessi. Solo se sapremo allineare i nostri pensieri alle nostre credenze allora arriveremo anche ad osteggiare le nostre paure più remote. Fede nell’amore, per noi stessi e gli altri, amore per i più fragili. “For-se non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l’amore) dall’al-tro invece di avvicinarci a lui senza prete-se e volere solo la sua semplice presenza” (Milan Kundera, 1984). Questa situazione ci ha insegnato questo. Cerchiamo di tenere risvegliato il gigante assopito in noi, focaliz-zati su ciò che amiamo.

In una frase. L’insostenibile leggerezza dell’essere.

ELEONORA GROSSI, SIMONA GENTILE

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 173-180

Specificità femminile: operatori e malati

GIOVANNA FERRANDES

[email protected]

“Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso sei un granello di colpa anche agli occhi di Dio

malgrado le tue sante guerre per l’emancipazione.

Spaccarono la tua bellezza e rimane uno scheletro d’amore che però grida ancora vendetta

e soltanto tu riesci ancora a piangere,

poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli, poi ti volti e non sai ancora dire

e taci meravigliata e allora diventi grande come la terra”

(A tutte le donne, A. Merini, 1988)

Lo so. Non sono originale iniziando con Alda Merini per parlare di don-ne e non sarò originale neanche in seguito nell’esporre alcune rifles-sioni sul tema della specificità femminile, nella cornice della pandemia che stiamo così faticosamente vivendo. Ma ho anche la consapevolezza che oggi possa avere un senso il coraggio dell’ovvio, nel rialzare il volu-me di alcune voci, nel riaccendere alcune luci.Il tema della specificità femminile è in generale “scottante” da sempre, è tema su cui tanto si è scritto, pensato, affermato e al tempo stesso negato. Ha appassionato e appassiona filosofi, psicologi, sociologi, an-tropologi, eticisti, biologi, medici, neuroscienziati e comunque l’intero mondo culturale. Soprattutto è un tema che spesso divide, perché pro-voca reazioni emotive e vissuti contradditori, sia per le donne che per gli uomini. E allora mi avvicino alla riflessione sulla nostra attuale espe-rienza con una lente d’ingrandimento, che vorrei riuscire a maneggiare con cura, con umiltà, con rispetto.Vorrei utilizzare le domande non con la presunzione di sapere dare risposte, bensì con il desiderio della esplorazione e la consapevolezza della bellezza (nonché turbamento) del farsi delle domande. Ed in que-sto momento è anche difficile interrogarsi e interrogare. Vorrei riusci-

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174 GIOVANNA FERRANDES

re a farmi guidare da un pensiero di Marco Trabucchi, quando afferma, in un Editoria-le su Psicogeriatria di qualche anno fa “…La cura deve anche essere inquieta, nella continua ricerca di definire l’obiettivo del lavoro e di identificare l’intervento mi-gliore. L’inquietudine non è compagna del dubbio, perché intuisce che questo rallen-ta la possibilità di fare per il bene dell’al-tro. Vuole sempre andare avanti, alla ricer-ca del meglio.” La cura oggi ha bisogno di pensieri inquieti. Un’altra osservazione preliminare che vor-rei fare riguarda uno degli elementi, an-che psicologici, della cornice nella quale viviamo e vivremo: l’incertezza. Giorni fa, nell’ambito delle iniziative di Alzheimer Uniti, ho seguito una bella lezione di Rabih Chattat sul come affrontare l’incertezza dell’oggi, il senso continuo di pericolo, la ricerca a volte smodata di modalità di con-trollo, le reazioni di paura, rabbia, tristezza. Mi ha richiamato alcuni scenari professiona-li che ho anche personalmente vissuto. Chi di noi nella clinica ha toccato con i pazienti l’angoscia dell’incertezza (le diagnosi dram-matiche e le prognosi, le diagnosi genetiche, le malattie rare, le terapie sperimentali, gli interventi chirurgici salva vita,…), ha do-vuto ricercare anche dentro di sé punti di riferimento per aiutare e supportare la re-silienza, propria e dell’altro. Si può parlare di sicurezza nell’incertezza? Cosa può farci sentire più “potenti”, superando il blocco dell’impotenza e l’arroganza dell’onnipo-tenza? Nell’ottica psicologica la capacità di interrogarsi sul proprio sistema di sicurezza, per gestire l’angoscia del futuro, è una gran risorsa: ognuno di noi, al di là dei personali meccanismi di difesa, può ri-trovare più di un faro come guida. I valori e le priorità, il senso di identità (per molti, anche l’identi-tà professionale), la protezione verso i figli, l’appartenenza alla comunità, la religiosi-tà,… solo per nominarne alcuni. Soprattutto il poter dare un senso a queste parole, riem-

pirle di significati, recuperarli dalle proprie biografie e memorie. Sicuri nell’incertezza. Una gran sfida.Cosa c’entra tutto questo con le donne e la pandemia? E’ doveroso richiamare il ruolo materno dell’accoglienza, dell’atto del con-solare, della protezione, dell’individuazione, dell’empatia. La sicurezza del bambino che inizia a camminare da solo sta nella capa-cità materna (non nella contrapposizione padre/madre, bensì nella dinamica mater-no/paterno) di esserci, di saper consolare e curare nel caso di caduta. Massimo Recalca-ti (certamente incisivo nelle immagini che propone: basti pensare alle coinvolgenti le-zioni televisive sul Lessico civile, registrate in tempi non sospetti e drammaticamente attuali) ci ricorda come per Freud la madre sia il primo soccorritore del bambino. Per-mettetemi di esasperare la metafora: servo-no molte madri per curare le ferite di oggi e permettere la ri-nascita.Ma allora di cosa stiamo parlando? Esiste una specificità femminile in questo dram-matico scenario? Temo di sì.Guardiamo ancora una volta i report e pro-prio in questi giorni di fine aprile si comin-cia a parlare di dati disaggregati per sesso e genere. Sottolineo che fino a “ieri” si enun-ciava diffusamente una percentuale di am-malati significativamente maggiore degli uomini rispetto alle donne. Inoltre, anche i più recenti studi sui decessi, confermano il dato della differenza, emerso fin dall’inizio: in Italia, secondo i costanti aggiornamenti del Bollettino della Sorveglianza Integrata (Tab. 1 Epicentro, dati 29 aprile 2020), la percentuale di letalità è circa il doppio per gli uomini rispetto a quello delle donne. La proporzione si inverte nella fascia più alta d’età. Differenze simili sono registrate in molti altri Paesi. A questo proposito va sot-tolineato che non tutti i Paesi hanno raccol-to e riportano i dati disaggregati per sesso e genere, come denunciato a fine marzo dal blog della rivista BMJ Global Health.

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175SPECIFICITÀ FEMMINILE: OPERATORI E MALATI

Stesse osservazioni ritroviamo in molti con-tributi pubblicati su Lancet, a proposito di differenza di genere e Covid-19, in parti-colare per quanto riguarda la necessità di tenere conto dell’esperienza derivante da epidemie passate, per capire l’importanza dell’analisi di genere e per migliorare l’ef-ficacia degli interventi sanitari (Wenham C. et al., 2020) .Ma è recente il ribaltamento epidemiologi-co: lo stesso ISS riferisce che nelle ultime ri-levazioni le donne si ammalano di più degli uomini (il 51%), mentre rimane inalterata la differenza inversa per i decessi. Si è passati da letture improntate soprattutto sulle varia-bili biologiche, a cui imputare le spiegazioni delle differenze (il DNA, gli ormoni, il siste-ma immunitario, ecc..) alle argomentazioni sulla rilevanza dei migliori comportamenti di attenzione alla prevenzione da parte del-le donne. E la lettura psicologica e sociale? E lo sguardo alle condizioni di vita e di lavoro? E le risorse adattive? Così il cosiddetto “sor-passo” ha portato proprio gli economisti ad

aiutare nella lettura dei dati: le donne, si è sottolineato, sono fortemente più a rischio di infettarsi, perché la maggior parte dei la-voratori della sanità e del settore sociosani-tario sono donne. (vedi Tabella 2, dal Bollet-tino Sorveglianza Integrata dell’ISS, del 30 aprile 2020). Lascio la sintesi all’ISS nel documento pub-blicato in occasione della Giornata Nazio-nale della Salute della Donna -il 22 aprile – “Mai come in questo momento, è neces-sario stare al fianco delle donne. L’emer-genza sanitaria da Covid19 che sta inte-ressando tutto il mondo, stravolgendo e condizionando la vita sociale e privata di ogni individuo all’interno della collet-tività, ha evidenziato in modo netto ed insindacabile, non solo il ruolo centrale delle donne coinvolte in prima linea nel-la gestione sanitaria di questa gravissima pandemia ma anche il ruolo fondamen-tale che esse svolgono nella vita privata e all’interno delle famiglie (approvvigiona-mento di alimenti e farmaci, educazione

Tabella 1 - Numero di decessi per fascia d’età - Pazienti deceduti e positivi all’infezione da SARS-CoV-2.

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e scolarizzazione dei figli etc).” Del resto dagli stessi codici Ateco, emerge come nel-le attività essenziali sono molto presenti le donne perché più coinvolte nel lavoro do-mestico e sanitario. L’ovvio.La distribuzione del peso sociale dell’emer-genza sociale di conseguenza non è e non sarà uguale. Il rischio di un ritorno massic-cio di disoccupazione più a scapito delle donne che degli uomini è – tra gli altri in-dicatori- sempre più evidente. Basti peraltro pensare che in Italia il tasso di occupazione femminile registra -13,8 punti percentuali rispetto alla media europea (Eurostat 2020, Openpolis 2019) già prima della pandemia (Tabella 3). Ma le riflessioni sulle caratteristiche del la-voro femminile durante l’emergenza sanita-ria hanno molteplici dimensioni. Pensiamo allo smart working (più femminile che ma-schile), cui si sta ricorrendo e si continue-rà a ricorrere in modo massiccio durante e dopo il lockdown: da conquista e risorsa anche in tema di conciliazione casa/lavoro, si sta trasformando – al di là delle ironie e degli aspetti mediatici – in una sorta di “trappola”, soprattutto per le donne, il cui peso lavorativo contemporaneo su più pia-ni e livelli (il multitasking delle vignette) rischia fortemente di incidere in termini di salute psicofisica e di produttività lavorati-

va ridotta. Il disagio psicologico correlato al lockdown, con il rischio di sviluppare maggiormente patologie psichiche rilevanti (Brooks S. et al., 2020), riguarda sentimen-ti e vissuti contrastanti soprattutto nell’af-frontare la paura, la colpa, la frustrazione, l’impotenza. E il desiderio e la motivazione alla protezione dei piccoli (lo si diceva all’i-nizio) non può essere ideologicamente ri-chiamato come motivazione e difesa, quasi dovesse bastare per sostenere l’identità, ma anche a coprire inefficienze, lacune, respon-sabilità collettive. Ancora una volta ricompa-re la necessità di sguardi globali, capaci di alternare la visione del particolare con la vi-sione sistemica della complessità, soprattut-to quando parliamo di salute e malattia. La stessa dimensione psicologica, va ricordato, non riguarda unicamente il singolo, l’indi-viduo a sé stante, come se fosse possibile “isolarlo” e non contestualizzare la sua esi-stenza, quanto piuttosto riguarda i cardini di una psicologia della salute, attenta ai vissuti, ma contemporaneamente alla collettività e ai meccanismi psicologi sottostanti. È necessario anche in questa sede rimar-care la necessità di sorvegliare e agire nei confronti di un’altra conseguenza letale del lockdown sulle donne: l’aumento dei ri-schio di essere vittima di violenze e abusi. Spesso insieme ai loro figli, quando si tratta

Tabella 2 - Distribuzione dei luoghi di esposizione dei casi diagnosticati dal 01/04/2020 (Dato disponi-bile per 8.208/88.514 casi).

GIOVANNA FERRANDES

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di donne giovani. Ma l’abuso nelle famiglie, lo sappiamo da tempo in AIP, riguarda forte-mente anche le donne anziane ed in modo sempre più nascosto. “Per quanto riguarda il tema dell’abuso degli anziani, si tratta di un importante problema di sanità pub-blica, assai più diffuso di quanto docu-mentato dai pochi dati nazionali disponi-bili, in larga misura occulto. Tra le diverse forme di abuso, quella dell’abbandono e dell’incuria rappresenta la più frequente e la popolazione maggiormente a rischio è quella femminile connotata da una mag-gior vulnerabilità biologica e socio-econo-mica. Cruciale è il ruolo della prevenzione che deve necessariamente partire da una riscoperta del valore dell’anziano ed at-tuarsi attraverso interventi mirati e speci-

fici.” (Trabucchi M. et al., 2017) La stessa OMS in questi mesi di pandemia, più volte ed in modo incisivo, sottolinea l’ur-genza di attivare nuove misure protettive e di azione come contrasto alla violenza sulle donne, soprattutto richiamando i doveri dei sistemi sanitari locali. “Anche prima dell’esi-stenza di COVID-19, la violenza domestica era già una delle maggiori violazioni dei diritti umani. Nei 12 mesi precedenti, 243 milioni di donne e ragazze (di età com-presa tra 15 e 49 anni) in tutto il mondo sono state vittime di violenza sessuale o fisica da parte di un partner. Man mano che la pandemia di COVID-19 continua, questo numero probabilmente crescerà con molteplici impatti sul benessere delle donne, sulla loro salute sessuale e ripro-

Tabella 3 - Italia al penultimo posto per tasso di occupazione femminile - Percentuali di donne occu-pate nei paesi UE (2017).

Da sapere: percentuali di donne occupate, sul totale della popolazione femminile tra i 20 e i 64 anni. Fonte: dati Eurostat elaborazione agi - openpolis.

SPECIFICITÀ FEMMINILE: OPERATORI E MALATI

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duttiva, sulla loro salute mentale e sulla loro capacità di partecipare e condurre al recupero delle nostre società ed economie.”. Ma ho trovato poco, se non nulla, come ri-ferimento alle donne anziane. Spero sia solo una mia incapacità a leggere i documenti. Ancora una volta ci si scontra con forme di ageismo e negazione. Uno sguardo doveroso alla solitudine, tema molto caro all’AIP. Tralascio volutamente ogni osservazione sulla contraddizione che stiamo vivendo, anche come operatori, in partenza dalla ricca evidenza del valore pa-togeno della solitudine e delle sue conse-guenze sulla qualità della vita delle persone che soffrono (Cacioppo J.T. e Cacioppo S., 2018). Abbiamo sempre affermato che non dobbiamo confondere la solitudine con il vi-vere da soli o l’isolamento fisico. E abbiamo spesso studiato che non vi è alcuna signifi-cativa differenza di genere nell’esperienza della solitudine. Sappiamo che se le donne vivono più a lungo e quindi sperimenta-no maggiormente la vecchiaia nella fascia d’età oltre gli 85 anni, e la conseguente co-morbidità, sono tuttavia più capaci di ave-re network sociali validi, di chiedere aiuto, sono più disposte ad ammettere la propria solitudine (De Leo D. e Trabucchi M., 2019). Cosa ci dirà l’osservazione futura, su questo lutto individuale e collettivo del contatto fi-sico, su questo lutto individuale e collettivo per le morti, tante, solitarie e in quanto tali violente? Lo potremo capire anche in ottica di genere? Un’altra osservazione riguarda il lavoro di cura professionale, all’interno dei domicili e all’interno dei luoghi di cura (dagli ospedali alle RSA), luoghi in cui la presenza femmini-le è alta - lo si è già detto- ma anche luoghi in cui la pandemia, soprattutto nelle donne, se non altro per dati statistici, salta la dif-ferenziazione tra paziente ed operatore. Da curanti il rischio di ammalarsi è alto (trala-scio in questa sede ogni altra considerazio-

ne sui fattori di rischio e le inadempienze) e il vissuto di colpa e di disorientamento è duplice. Quella sorta di “difesa” che il lavoro di cura sa dare, appagante e arricchente di per sé (Asioli F., 2019), vissuta spesso, nella cura dell’anziano, anche a prescindere dalla mancanza di gratitudine, in questo scenario diventa causa di dolore e di morte. Gli psi-cologi che stanno cercando di supportare psicologicamente gli operatori - per lo più operatrici - delle RSA lo stanno verificando quotidianamente, ascoltando storie di vita e di lavoro, in cui nel racconto stesso spesso si perde di vista la differenza, ci si confonde tra vissuti di colpa e di rabbia nei confronti dei propri pazienti/assisti, dei propri colle-ghi, dei propri familiari: si perdono i confini, si mescolano le lacrime. Dove è finita l’em-patia (spesso alta nelle donne, lasciatemelo dire) nel lavoro di cura? Dove è finita l’au-toefficacia? Dove è finito il confine casa/lavoro? Alla luce di questa esperienza dovre-mo essere capaci di rileggere e riformulare i concetti cardine delle relazioni di cura e dell’alleanza terapeutica: l’asimmetria e la reciprocità, la vicinanza e la lontananza, le emozioni e le difese, i silenzi e le parole. An-che le differenze nelle relazioni tra lo stile femminile (flessibilità, tempo all’ascolto, at-tenzione alle storie,…) e lo stile maschile (organizzazione, razionalità, velocità nell’a-zione). Dovremo anche saper elaborare gli stessi concetti di “traumatizzazione vicaria”, “stress traumatico secondario”, “compassion satisfation” e “compassion fatigue”, attraverso questa nuova esperien-za che vede i soccorritori feriti nel corpo (si ammalano e muoiono per il loro lavoro) e nella mente. E dobbiamo saperlo fare anche in ottica di genere. Al momento sono attive numerose ricerche sull’impatto psicologico della pandemia sugli operatori sanitari, sia in emergenza che in ambito assistenziale, sia per il presente che per il futuro. Riman-diamo a prossime occasioni la riflessione

GIOVANNA FERRANDES

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sui report. Oggi qui riporto solo a commen-to finale le parole di Lingiardi (2020): “Non sono eroi – gli operatori sanitari – come ci piace dipingerli, anche per sentire meno la loro fatica. Sono umani vulnerabili che per essere forti devono far leva su risorse come la capacità di produrre momenta-nee dissociazioni mentali in modo da af-frontare il dolore, la paura e la solitudine dei pazienti e di loro stessi.”

E infine ricordiamo che nelle RSA le donne sono più presenti anche come ospiti (ter-mine orribile, quanto mai ridicolo in questo frangente...) rispetto agli uomini. Donne molto anziane, che lontano dalle loro case e dalle loro famiglie, spesso hanno perso bio-grafie e riferimenti, che hanno poi ritrovato proprio nelle persone che nelle strutture le accudiscono. Persone, volti, mani che nelle forme di “protezione” che l’epidemia impo-ne, hanno perso e perdono in modo con-fondente. Ma questo, se possiamo dire per fortuna, è sicuramente una sofferenza che va oltre la differenza di genere.Nella consapevolezza di aver toccato solo alcuni dei capitoli, che la tematica genera-le del presente contributo comporterebbe (penso ad Amalia Bruni e a tutti i suoi in-stancabili richiami all’ottica di genere quan-do parliamo di anziani e fragilità), mi avvio alla conclusione pensando al paradigma del-la rinascita. Perché oggi più che mai abbia-mo il dovere della rinascita. Può l’ottica di genere essere una risorsa? Al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni, quale contributo può portare la riflessio-ne sul ruolo della donna e l’attenzione alle differenze? Lo sguardo “al femminile”, così spietatamente escluso finora nelle task for-ce e nei luoghi decisionali (a fronte dell’im-pegno costante, puntiglioso instancabile delle donne in prima linea nei luoghi di cura e nei laboratori di ricerca), può essere una variabile indispensabile alla costruzio-

ne di resilienza verso il bene comune? Inci-sivo il monito di un gruppo di ricercatori di Verona: “Qualsiasi organizzazione scienti-fica o governo che non agisce rispettando e promuovendo la parità di genere (anche in questo difficile momento) sta abban-donando il nobile scopo di migliorare la salute umana” (Mantovani A.et al., 2020).A questo proposito è alta anche l’attenzione a livello internazionale. Nel mettere a punto regolamenti sanitari internazionali, in pre-parazione della grande emergenza sanitaria, l’OMS in un interessante documento del febbraio 2020, partendo da un regolamento del 2005 (di un’attualità disarmante) racco-manda– tra i numerosi punti - di coinvolge-re le donne in tutte le fasi dei processi di preparazione, nei processi decisionali, nella pianificazione delle risposte alle emergen-ze. Anche UN Women ha emesso una serie di raccomandazioni, ponendo le esigenze e la leadership delle donne al centro di una risposta efficace a COVID-19: dalla necessità di garantire dati disaggregati per sesso, allo sviluppo di strategie per costruire la resi-lienza delle donne, alla partecipazione nei processi decisionali e accordi di lavoro fles-sibili, ai servizi di protezione per la violenza domestica e ai servizi sanitari. Riconoscere i rischi di stigmatizzazioni e separazioni è un insegnamento che da sem-pre è incluso nella cosiddetta questione femminile. Penso alla catena degli stereotipi di genere che spesso le donne subiscono con l’invecchiamento, sia per il decadimen-to fisico e cognitivo, sia per il preconcetto della bellezza. Concetti ora, in piena emer-genza, apparentemente quasi dimenticati, paritariamente condivisi, ma stereotipi che si ripropongono continuamente nella let-tura di quello che sta accadendo. All’inizio della pandemia le donne sembravano quasi privilegiate (estremizzando non ci ammala-vamo e non morivamo), poi sono diventate eroine (le ricercatrici, le donne medico, le

SPECIFICITÀ FEMMINILE: OPERATORI E MALATI

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infermiere, le OSS, le insegnanti, le psicolo-ghe, le madri, …), ora sono vittime. E spesso tutto questo nella cornice dell’ageismo. Im-pareremo a mettere da parte preconcetti e definizioni? Ritorna infine il bisogno della multidimen-sionalità, centrale nella cultura dell’AIP. Abbiamo bisogno, a mio avviso, di pensie-ri collettivi, complessi e al contempo sem-plici. Anche se può sembrare paradossale. C’è un luogo comune che circola in questi giorni e che vorrei si trasformasse piuttosto

in elemento di civiltà: con la pandemia ab-biamo imparato che il confine tra il singolo e il gruppo va ridefinito e compreso, che la libertà individuale non è sempre in con-trapposizione con la libertà collettiva, che la protezione del singolo passa attraverso la protezione dell’altro. Anche tra la donna e l’uomo, rispettando e valorizzando le diffe-renze. Concludo le riflessioni affidandomi a Maria Teresa di Calcutta, col suo potente messag-gio alle donne:

“Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe,

i capelli diventano bianchi,

i giorni si trasformano in anni.

Però ciò che è importante non cambia;

la tua forza e la tua convinzione non hanno età.

Il tuo spirito è la colla di qualsiasi tela di ragno.

Dietro ogni linea di arrivo c’è una linea di partenza.

Dietro ogni successo c’è un’altra delusione.

Fino a quando sei viva, sentiti viva.

Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo.

Non vivere di foto ingiallite…

insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.

Non lasciare che si arrugginisca il ferro che c’è in te.

Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.

Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce.

Quando non potrai camminare veloce, cammina.

Quando non potrai camminare, usa il bastone.

Però non trattenerti mai!”

GIOVANNA FERRANDES

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 181-182

Un passo indietro per ricominciare

FABIO GUERINIBrescia

[email protected]

Sono un geriatra che lavora presso il Dipartimento di Medicina E Riabi-litazione dell’Istituto Clinico Sant’Anna di Brescia, e come tanti colleghi mi sono trovato a gestire, nel corso di questa emergenza, fino a oltre 160 letti dedicati a persone affette da COVID19.Molto è già stato scritto al riguardo, sia da un punto di vista clinico che umano, sia del vissuto dei sanitari che dei pazienti che dei familiari.Fin dal primo giorno sbalzato in una realtà in cui abbiamo dovuto rein-ventarci un mestiere, mi sono trovato circondato da colleghi di altre specialità che si sono messi a disposizione nel modo più incondiziona-to per quello che ognuno ha potuto fare. Nella povertà di informazio-ni e di mezzi soprattutto dei primi tempi ho visto approcciare senza timore i malati nei reparti dando conforto e speranza, ho visto studiare per capire chi avevamo di fronte, ho visto specialisti di ogni branca chi-rurgica compilare con dedizione cartelle ed esami obiettivi, o esperti di anatomopatologia fornire un supporto psicologico trascorrendo ore al telefono a familiari in disperata attesa di informazioni di un loro caro lasciato sulla soglia di un Pronto Soccorso e talvolta non più rivisto.L’afflato con cui tutti noi sanitari abbiamo reagito all’emergenza, met-tendo su uno stesso piano, dietro a quei camicioni azzurri e a quelle maschere asfissianti, medici, infermieri, ausiliari, in turni continuativi e logoranti, è stato l’argine per contenere l’ondata di piena che altrimenti avrebbe travolto, ancor più di quanto è accaduto, la nostra Comunità. Di questo siamo consapevoli, da questo siamo stati cambiati, con que-sto dentro di noi affronteremo il tempo a venire. Come mi ha scritto un collega chirurgo, grato dell’esperienza condivisa, abbiamo ripreso possesso del nostro mestiere, della nostra capacità di curare, ed insie-me alle persone con cui abbiamo condiviso la fatica, della potenzialità data dalla collaborazione incondizionata tra professionisti medici, in-fermieri, tecnici e ausiliari con un obiettivo comune. Credo si possano chiamare gli “effetti collaterali del virus”.Nel momento in cui la pressione della malattia si allenta, in cui il Pronto Soccorso riesce di nuovo a respirare, in cui iniziamo a svuotare i reparti dedicati al COVID, in cui salutiamo finalmente alcune delle persone che abbiamo curato perché guarite, riaffiora la stanchezza ed il bisogno di tornare ad una forma di normalità.

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182 FABIO GUERINI

Il passaggio è molto complesso, ma indi-spensabile. Ogni professionista, finita la tempesta, ha bisogno di rimettere a frutto la propria competenza. Ognuno di noi vie-ne chiamato da innumerevoli pazienti che messi da parte i propri malanni per un paio di mesi in nome dell’emergenza, ora ha bi-sogno, quanto prima, di essere tenuto in ca-rico.Sebbene non vi sia ancora chiarezza sulla strategia migliore con cui ripartire da parte di chi riveste il complesso ruolo di fare scel-te di ordine politico/amministrativo, credo sia fondamentale ricordare l’esigenza dei professionisti che si sono profusi con de-

dizione nell’arginare l’emergenza di ripren-dere possesso della loro specifica compe-tenza. Allo stesso modo mi auguro tuttavia che ognuno di noi, schierati in prima linea in questi due mesi, abbia ora una diversa consapevolezza del proprio ruolo. Consape-volezza che il nostro mestiere sarà diverso, che dovremo convivere con il virus, ma che gestirlo è possibile, contenerlo è necessario. Per ripartire è indispensabile un passo in-dietro da parte di tutti, lo stesso che abbia-mo fatto tutti insieme due mesi fa. Come spesso avviene in montagna, questo talvolta permette di avere prospettive diverse ed aprire nuove vie.

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 183-188

Il Coronavirus alla fine della fase 1: dubbi e certezze (poche) prima della fase 2

VINCENZO CANONICO Napoli

[email protected]

Quello che scaturisce dalla prima fase del contagio da coronavirus è un’Italia spaccata in tre macro aree. Una fascia di alto contagio: tutto il nord più le Marche, con l’esclusione di Veneto e Friuli Venezia Giulia. Una fascia di medio contagio: Veneto, Friuli, Abruzzo, Toscana. Infine una fascia di contagio basso: tutto il Sud più Lazio e Umbria.Nella seconda fase del contagio, dove i ricoveri vanno sempre più dimi-nuendo ed in parallelo i ricoveri in terapia intensiva o in rianimazione, bisogna pensare a riprendere le attività sanitarie economiche e sociali, alla luce di quanto è emerso dalla prima fase del contagio, dove ci sono stati tanti errori in parte dovuti all’emergenza improvvisa e devastante, ma anche ad una disorganizzazione purtroppo risultata fatale per una gran fetta di popolazione.Data la situazione economica, in grave crisi da due mesi, le industrie, il commercio, gli artigiani, premono per la riapertura delle attività, il Governo frena nel timore che si possa ritornare ad una riacutizzazione che sarebbe devastante, le diverse task force di esperti nazionali e re-gionali spesso vanno in direzioni diverse e non riescono ad esprimere pareri univoci. I virologi, anche loro a volte in contraddizione, continua-no a invitare a non abbassare la guardia. In sintesi mancano indicazioni operative sui parametri per aprire in sicurezza. È ovvio che per la ria-pertura abbiamo bisogni di sicurezza e preparazione.Riaprire significa avviare la fase di convivenza con il coronavirus, quin-di essere pronti a una nuova circolazione e potenzialmente alla gestio-ne di nuovi contagi. Siamo preparati a questo? Vi è certamente una differenza regionale rispetto alla risposta immunitaria, nel senso che proprio le regioni dove i numeri sono positivi e i contagi quasi zero, c’è stata minore circolazione della malattia e dunque meno risposta im-munitaria della popolazione che rischia, in caso di una seconda ondata di contagi, di trovarsi più fragile ed esposta rispetto alle regioni più colpite del Paese dove molte persone hanno già sviluppato anticorpi.Diversi sono i parametri da prendere in considerazione per parlare di seconda fase, come il di distanziamento sociale, la sicurezza sul lavoro e nei trasporti pubblici, l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuali e tanto altro.

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184 VINCENZO CANONICO

I rischi della riapertura

Le conseguenze della riapertura delle atti-vità dal 4 maggio le vedremo non nell’im-mediato, ma circa 20 giorni dopo. Infatti nei primi giorni assisteremo ad una ulterio-re diminuzione di contagiati, di decessi ed un aumento dei guariti dovuti al lockdown delle settimane precedenti, col rischio di allentare i livelli di sicurezza e ritornare nell’emergenza. È necessaria una program-mazione seria degli interventi di allenta-mento o restrizione, per evitare valutazioni locali finalizzate a improprie fughe in avanti che rischiano di danneggiare la popolazio-ne ed annullare i risultati ottenuti: oggi la suddivisione del Paese in tre macro-aree (Nord, Centro, Sud) non riflette il rischio di evoluzione del contagio in futuro. Mentre la Lombardia ha avuto il focolaio iniziale con un’impennata di contagi, nel sud Italia gra-zie alle restrizioni avviate, il contagio è stato meno numeroso e più lento. Il dato che in-vece accomuna le regioni è che non è faci-le e veloce liberarsi del virus. Guardando la curva epidemica si osserva che la discesa è molto più lenta della salita. Probabilmente andrà ancora a lungo avanti così, con oscilla-zioni diverse e modificabili settimanalmen-te. Non si può calcolare in anticipo come si svilupperà l’epidemia nella fase 2 in cui le regioni, in maniera diversificata modifiche-ranno le restrizioni.Le proiezioni tengono conto dei provvedi-menti di lockdown introdotti dai vari decre-ti del Presidente del Consiglio. Pertanto le misure di allentamento, con riaperture delle attività e della circolazione di persone che interverranno, renderebbero le proiezioni probabilmente poco veritiere ed in ogni caso da verificare.Secondo gli esperti alla fine della fase 1 l’epidemia si sta riducendo lentamente, pertanto il passaggio alla fase 2 dovrebbe avvenire in maniera graduale e con tempi diversi da regione a regione. Dunque è ne-

cessaria cautela poiché una riapertura senza controllo alla fine del lockdown, con molta probabilità, potrebbe vanificare gli sforzi e i sacrifici sinora effettuati e riaccendere la pandemia.

La chiusura delle attività ambulatoriali

A causa della pandemia in molte regioni è stato limitato ed in alcuni casi, come la Campania, vietato l’accesso alle strutture ambulatoriali per le visite specialistiche, le radiografie, le endoscopie, gli esami di labo-ratorio, le ecografie, l’erogazione delle quali è stata limitata ai soli casi urgenti, cioè con la possibilità di effettuarle solo per casi gra-vi. Questo ha provocato un’abolizione di vi-site programmate, ed un mancato controllo di visite, indagini e terapie soprattutto per le popolazioni a scarso reddito, quelle che usufruiscono maggiormente degli ambula-tori pubblici, ed in particolare anziani. Solo una piccola parte degli utenti ha potu-to usufruire di servizi sostitutivi telematici utilizzati da qualche specialista che ha potu-to utilizzarli, meno utilizzabili invece in caso di necessario contatto con il corpo soprat-tutto per le diagnosi che richiedono con-tatto diretto con il paziente. Con difficoltà, in tanti anni la popolazione ha imparato a sottoporsi ad accertamenti periodici senza trascurare i primi impercettibili sintomi, per prevenire l’evoluzione di malattie ed evita-re il peggioramento di tante condizioni. Da sottolineare che in molti casi l’appuntamen-to per le visite o le indagini che ricadeva in piena fase 1 era stato stabilito mesi prima, quindi saltarlo e riprenotarlo nella fase 2 porterà sicuramente ad un disagio per mol-ti, particolarmente gli anziani. Un altro problema che si ripresenterà alla riapertura degli ambulatori pubblici sarà certamente la sicurezza sul contagio. Sono state emanate le norme per la sanificazione dei locali, gli accessi limitati, la prevenzio-ne degli assembramenti. Funzioneranno? I

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185IL CORONAVIRUS ALLA FINE DELLA FASE 1: DUBBI E CERTEZZE (POCHE) PRIMA DELLA FASE 2

pazienti saranno costretti a fidarsi per non perdere l’appuntamento già rimandato, ci sarà rischio di contagio? Sarà certamente ridotto il numero degli accessi, questo si ri-percuoterà sulle liste di attesa, già lunghe in molti casi, che subiranno un prolungamen-to? Sono tutti interrogativi che dobbiamo porci e speriamo di risolvere a breve per non compromettere la funzionalità delle strutture ambulatoriali per i pazienti che af-feriscono, soprattutto anziani.

L’impatto sulle famiglie, le amicizie ed i rapporti personali

La pandemia ha ridotto in molti casi i rap-porti familiari le riunioni in famiglia nei giorni festivi, molto sentiti al sud, gli incon-tri con gli amici, le visite ad anziani genitori costretti nella fase 1 a vedere figli e nipoti lontani solo tramite videochiamate quando realizzabili. Gli operatori sanitari impegnati in prima linea e direttamente nei centri co-vid in tante circostanze hanno temporane-amente lasciato le abitazioni, vivendo in al-loggi di fortuna (alcuni in garage nell’auto) per evitare il possibile contagio ai familiari. Tante storie abbiamo letto, alcuni sono stati anche accusati di essere untori nei condo-mini, il che ha aumentato la loro frustrazio-ne ed in tal caso l’insicurezza per la loro attività, da molti definita eroica. Purtroppo sono state scelte obbligate vista la perico-losità e la facilità di contagi tra familiari e conoscenti. La scienza è stata chiara sul veicolo dell’in-fezione: siamo noi stessi. E lo siamo quan-to più amiamo qualcuno e gli siamo vicini. I principali luoghi del contagio accertati sono le Residenze Sanitarie Assistenziali, dove i parenti fanno visita agli anziani rico-verati per dargli conforto della famiglia e la continuità di affetto, gli ospedali, dove medi-ci, infermieri e personale coraggiosi sono a diretto contatto con i pazienti per curarli e le famiglie nella quarantena.

Che succederà dal 4 maggio con le riapertu-re dei posti di lavoro, con l’occasione di ri-trovare i parenti, l’aumento delle occasioni di uscita, quando sarà svanita la limitazione psicologica delle autocertificazioni, dei po-sti di blocco, dei droni che sorvolano zone a rischio, dei Decreti nazionali e locali seguiti in larga parte scrupolosamente nella prima fase? La responsabilità, purtroppo, ricadrà su ciascuno di noi, con quale risultato? Il di-lemma non è per nulla scontato. Mantenere fuori casa mascherine e distanze è indispen-sabile, ma è spesso è difficile e non siamo certi che tutti seguiranno le regole, special-mente nei luoghi a maggior rischio, come dimostrato da tanti servizi televisivi.È vero che il rischio è oggettivamente cala-to, specialmente nelle regioni del Sud in cui il virus ha colpito meno duramente, ma non è scomparso, specialmente per le categorie più fragili. Per i figli, nipoti o parenti di per-sone anziane che non vivono con noi ci do-vremo chiedere se siamo disposti a correrlo quel rischio: continuare a tenere lontane le persone a cui tutto ci legano o metterle in pericolo? I genitori, i nonni gli zii, saranno disposti, pur di vederli, a rischiare di scarica-re sui figli o nipoti la responsabilità indele-bile di averli contagiati, di farli ammalare o peggio, anche se è solo un rischio potenzia-le? Chi può dare la sicurezza di non portare il virus in casa di chi si è protetto nella fase 1, rinunciando agli affetti? Per tutti, soprat-tutto se anziani, è importante avere la fami-glia vicino, il contatto, la sicurezza, usufrui-re di attenzioni, a volte solo minimamente paragonabili alle tante attenzioni e sacrifici riservati ai figli nell’età giovanile e matura. In linea di massima sembra essere stata ab-bandonata l’idea di proibire agli anziani, di uscire di casa nella fase 2. Si punta però a delle raccomandazioni rivolte ai cittadini che hanno più di 65 anni: meglio ridurre al massimo la frequentazione dei luoghi pub-blici, semmai si potrà ragionare sulla limi-

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tazione in alcune fasce orarie. Secondo gli esperti appare evidente che costringere a restare all’interno dell’abitazione le perso-ne meno giovani, per un periodo troppo lungo, rischia di causare danni psicologici e fisici non accettabili. Per questo alla po-polazione più anziana, sarà chiesta ancora maggiore prudenza, ma un divieto totale di uscire non ci sarà. Il dramma consumato nelle RSA e le te-rapie intensive

In molte regioni italiane, più di tutte in Lom-bardia, dato l’alto numero di RSA presenti, nella fase 1 abbiamo assistito ad un enorme numero di decessi per coronavirus di anzia-ni ricoverati. Per chi si occupa di geriatria, di psicoge-riatria, che conosce, cura, ascolta questi pazienti, le loro storie, spesso è il punto di riferimento non solo medico, ma anche psi-cologico ed affettivo, è una notizia devastan-te e di una tristezza infinita. Anche se questa fetta di popolazione residente è fragile, la più fragile, a rischio di complicanze fino al decesso, il dubbio è: si poteva fare di più, è stato fatto tutto anche dopo aver assistito ad un aumento del contagio esplosivo che è sfuggito al controllo dei responsabili? Ci sono colpe, omissioni, leggerezze, scarsa at-tenzione a chi andava protetto per le sue condizioni? La stampa, la televisione ne han-no parlato tanto, la magistratura sta facen-do le sue indagini, vedremo i risultati e gli eventuali reati. I familiari dei defunti in gran parte hanno denunciato carenze, scarsa informazione, sottovalutazione del rischio, in molti, con avvocati interessati, hanno chiesto risarci-mento. In alcuni casi i vertici delle struttu-re difendono il loro operato e parlano di speculazione economica da parte di tanti familiari che in alcuni casi non visitavano da tempo i parenti ricoverati, ipotizzan-do solo fini speculativi. Tristissimo leggere

tutto questo e soprattutto constatare che chi andava difeso non lo è stato e poteva, certamente in molti casi, essere salvato. Si è pensato, nella convulsa e difficile fase 1 quando i contagi crescevano a dismisura, i posti negli ospedali scarseggiavano soprat-tutto nelle terapie intensive, a trasformare reparti ordinari in reparti Covid, a costruire nuove terapie intensive in pochi giorni con prefabbricati di ultima generazione, un lavo-ro immane, possibile con il superamento di una burocrazia lenta e spesso contrastante, che ha permesso di disporre di nuovi posti se necessari. Alla fine della fase 1, con il miglioramento delle cure, la maggiore esperienza di medici preparati ed instancabili, l’esigenza di repar-ti dedicati e soprattutto di nuove terapie in-tensive è andata scemando, i letti continua-no a liberarsi e i direttori sanitari guardano a una riorganizzazione di ospedali e strutture, anche perché si sono accorti che in molte realtà, anche in Campania, non ci sono me-dici e personale per far funzionare le nuove terapie intensive. Cosa ne facciamo quindi? Le teniamo lì in potenziale attesa di utilizzo in caso di nuova pandemia? Come risolvia-mo la carenza di medici, infermieri e perso-nale che dovrà gestirli? Abbiamo le risorse economiche? Di fronte a questi interrogati-vi, ritornando ai nostri anziani fragili in RSA, deceduti per mancanza di difesa che anda-vano “blindati” con mezzi idonei, nessuno ha pensato di fornire ciò che era necessa-rio ad evitare una catastrofe. Siamo pronti a non ripetere gli errori commessi nella fase 1 per questi pazienti e comprendere la neces-sità di intervenire per difendere quello che abbiamo e non pensare solo a nuovi insedia-menti che danno visibilità a chi li ha decisi?

Il problema dei guariti e degli asinto-matici

Alla fine della fase 1, oltre i tanti, troppi de-cessi che abbiamo avuto ci sono tantissimi

VINCENZO CANONICO

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guariti che sono aumentati sempre più su tutto il territorio nazionale. Nella fase 2, con le riaperture delle attività e la possibilità maggiore di movimento, non abbiamo cer-tezze sulle possibilità di nuovi contagi. Non c’è certezza sul ruolo degli asintomatici, una fetta di popolazione sconosciuta, potenzial-mente capace di trasmettere il virus, pur in assenza di sintomi da malattia. Non sappia-mo se, tra i tanti guariti, ci sono soggetti pro-tetti o potenzialmente capaci di riammalarsi per il virus, se il titolo anticorpale dei guariti è uguale per tutti o differente tra i guariti per cui alcuni possono riammalarsi e con-tagiare. Stanno per essere immessi in com-mercio kit per i test sierologici da eseguire diffusamente sulla popolazione. In ogni Re-gione ci saranno laboratori dedicati per fare il prelievo di sangue ai cittadini selezionati per età, zona, reddito con risultati rapidi che conosceremo non a fine indagine ma via via che si raccoglieranno i campioni. L’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità esprime perplessità sulle cosiddette “patenti di im-munità” e sull’efficacia dei test sierologici perché anche gli immuni posso riammalarsi e quindi contagiare, infatti afferma che “non ci sono, al momento, prove scientifiche che garantiscano che le persone guarite da Co-vid 19 abbiano anticorpi in grado di proteg-gere da una seconda infezione”.Non ci sono abbastanza evidenze sull’effi-cacia dell’immunità data dagli anticorpi per garantire l’accuratezza di un “passaporto di immunità” o un “certificato di libertà dal rischio” che può permettere agli individui di viaggiare o di tornare al lavoro con la certezza che siano protetti da una reinfezio-ne. Quindi i test da eseguire necessitano di ulteriore verifica per stabilire la loro accu-ratezza e affidabilità. Le persone che credo-no di essere immuni ad un nuovo contagio potrebbero limitare le precauzioni ed esse-re potenzialmente contagianti. I test per la ricerca di anticorpi hanno innanzitutto un

valore epidemiologico che serve per valuta-re la reale diffusione del virus sul territorio non basta trovarli, bisogna anche misurarne la quantità e capire se sono sufficienti a pro-teggere da una seconda infezione. I diparti-menti di prevenzione del Servizio Sanitario Nazionale, abituati a lavorare poco sulle ma-latie infettive e molto sulla cronicità, o sugli adempimenti, le procedure e gli accredita-menti, si ritrovano invece con un proble-ma di tracciamento degli eventuali positivi, quindi bisognerà provvedere a consolidarli.

Il ruolo del territorio e della medicina di base

Gli ospedali, i Centri Covid e le terapie inten-sive nella fase 1 hanno raggiunto un livello di efficienza esemplare in tempi brevi ed in piena pandemia, come è stato riconosciuto a livello internazionale, che ha permesso di curare tutti ed ottenere tante guarigioni.Per la fase 2 non possiamo contare solo su-gli Ospedali, è necessario un filtro, la pos-sibilità di intercettare eventuali soggetti ai primi sintomi ed intervenire tempestiva-mente. Questo sarà possibile solo utilizzan-do al meglio la medicina extraospedaliera, in particolare i medici di base ed il territo-rio. È necessario potenziare realmente que-ste due strutture ripensando alla loro orga-nizzazione, potenziandone le competenze, fornendo gli strumenti minimi necessari e soprattutto creare un collegamento tra loro, dato non sempre presente in tante realtà nazionali. Attualmente la medicina del territorio, in particolare la Geriatria di cui conosco la re-altà soprattutto in Campania, può svolgere un ruolo più consono alla preparazione ac-quisita dagli specialisti che operano. Meno burocrazia, meno adempimenti inutili, come la prescrizione di pannoloni, il rinno-vo di terapie per patologie croniche stabi-lizzate e tanto altro, più interventi dedicati alla prevenzione, a seguire pazienti a rischio

IL CORONAVIRUS ALLA FINE DELLA FASE 1: DUBBI E CERTEZZE (POCHE) PRIMA DELLA FASE 2

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costantemente, indipendentemente da ap-puntamenti possibili a volte a distanza di mesi a causa delle tante richieste. Tutto ciò in collegamento diretto con il medico di fa-miglia, coinvolto in tutte le fasi del processo diagnostico e terapeutico. Anche per il me-dico di famiglia bisogna abolire tante prati-che burocratiche inutili. Solo per esempio nella fase 1 del contagio è stata abolita la necessità per i pazienti di recarsi al medico per una prescrizione di farmaco o di esame specialistico. Il medico, su richiesta telefoni-ca, ha inviato la prescrizione via mail alla far-macia direttamente o al paziente, evitando spostamenti, code in sala d’attesa e possibi-lità di contagio. Si è spesso parlato di que-sti temi in tante sedi, della necessità di una medicina che richiede uno sforzo organiz-zativo territoriale, ma purtroppo solo poche realtà nazionali lo hanno messo in pratica. È un programma che richiede un investi-mento ed una riorganizzazione del sistema, i cui risultati non si vedono nell’immediato, certamente non paragonabile all’apertura di nuovi reparti ospedalieri decisi e realizzati in tempi brevi in questa occasione. Non possiamo però pensare che ogni necessità possa risolversi solo sull’ospedale e nell’e-mergenza, deve esserci un filtro che funzio-ni con gli strumenti diagnostici minimi.

Conclusioni

Scrivere oggi su cosa avverrà nella fase 2 della pandemia lascia il tempo che trova, poiché troppe variabili, alcune prese in con-siderazione, tante altre di cui non abbiamo discusso, possono avvalorare, ma anche sov-vertire, qualsiasi previsione. Dobbiamo purtroppo aspettare i prossimi

giorni, forse con una certa apprensione, per verificare cosa succederà. Siamo fiduciosi che l’utilizzo delle mascherine, il distanzia-mento, la minore frequentazione di locali pubblici, porteranno ad un risultato positi-vo in termini di riduzione dei contagi.Dobbiamo mettere in conto che in un fu-turo prossimo ci sarà una necessaria convi-venza con il virus, anche se non sarà indolo-re, potrà essere compatibile con condizioni accettabili di contagi e, purtroppo di deces-si, a condizione, però, che non si determino condizioni di ripresa esplosiva dei contagi, che ci riportino a situazioni simili a quelle che si sono manifestate in Italia.Non possiamo esimerci dal rivolgere un pensiero alle tante vittime della pandemia ed in particolare alla categoria dei medici, una tra le più colpite. Sono quasi 160 ad oggi i colleghi deceduti in questo periodo, un triste elenco, aggiornato costantemente sul sito della Federazione Ordine dei Medi-ci, dal quale scaturisce che non sono dece-duti i medici in prima linea negli Ospedali o nei reparti di terapia intensiva, ma quelli sul territorio, medici di famiglia o specialisti di varie branche, la maggior parte dei qua-li avrà contratto il virus nel corso di visite ambulatoriali. È un prezzo altissimo paga-to dalla nostra categoria, abbiamo perso, soprattutto i familiari, professionisti seri e scrupolosi che hanno pagato con la vita per non sottrarsi alla cura di chi aveva bisogno. Li chiamano eroi, non basta certamente a ri-compensarli, speriamo solo che il sacrificio serva a programmare una nuova medicina, meno burocratizzata e politicizzata, aperta alle esigenze dei pazienti, i particolare anzia-ni, più propensa alle esigenze di cura ed ai suggerimenti dei medici, spesso inascoltati.

VINCENZO CANONICO

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PSICOGERIATRIA

PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 189-190

La Sardegna e il Covid-19

PAOLO FRANCESCO PUTZUCagliari

[email protected]

La Sardegna con la sua scarsa densità di popolazione (68 abitanti per Km2 contro 421 della Lombardia, 1.639.000 abitanti contro 10.060.000) si colloca tra le regioni a basso impatto per le conseguenze dell’epide-mia Covid19. Al 5 maggio 2020 i casi totali dei positivi al tampone sono stati 1.317, con 119 morti accertati e 9 ricoverati in terapia intensiva. L’insularità e l’isolamento non l’hanno però preservata dalla diffusio-ne del contagio, con alcune peculiari caratteristiche epidemiologiche. L’80% dei contagi è avvenuto nelle provincia di Sassari mentre vaste aree regionali centro e sud orientali (Ogliastra, Sarrabus, Gerrei) sono risultate indenni. I luoghi del contagio, non differendo dal resto d’Italia, sono risultati le strutture ospedaliere e le residenze per gli anziani. Il picco del contagio è avvenuto nelle due settimane successive al de-creto “Salva Italia” e in soli 3 giorni dall’applicazione del blocco degli spostamenti sono state registrate 14.000 auto-denunce di nuovi arrivi dal continente da parte di proprietari di seconde case o residenti fuori sede.La sezione Sardegna dell’AIP ha dato il proprio contributo muovendosi su più campi.

• Sul versante della solidarietà ha immediatamente attivato il “Telefono Anziani Sardegna, supporto psicologico e clinico” con il patrocinio dell’Ordine dei Medici della provincia di Cagliari e dell’Ordine degli Psicologi regionale, in collaborazione con la onlus GeRos. Dopo due mesi di contatti si è potuto registrare un comprensibile diffuso sen-so di solitudine, insicurezza, ansia e difficoltà relazionale dell’utente anziano. È emersa in maniera preponderante l’inadeguata modalità comunicativa sui dati dell’epidemia da parte delle istituzioni. I bollet-tini giornalieri del commissario per l’emergenza “I morti sono quasi tutti anziani affetti da polipatologie e neoplasie” e le tragiche notizie provenienti dal nord d’Italia – anziani morti senza il conforto dei pa-renti e decisioni etiche a loro sfavorevoli - hanno accentuato il senso di insicurezza. Hanno poi determinato un effetto negativo moltipli-catore le paventate maggiori restrizioni di distanziamento sociale in base all’età (“i vecchi usciranno per ultimi”, “gli over 60 resteranno a casa sino a dicembre”).

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190 PAOLO FRANCESCO PUTZU

• Sul versante divulgativo la sezione è inter-venuta più volte con diversi articoli pub-blicati nei maggiori quotidiani regionali e nel web. Sono state rilasciate 4 interviste televisive e un lungo commento di 40 minuti sulle problematiche psicogeriatri-che legate all’epidemia. È stato pubblica-to sulla stampa e nel web un decalogo di comportamento rivolto alla popolazione anziana. Si sono prese le distanze dal ten-tativo di giustificare i tanti errori come sola conseguenza dell’improvvisa e ine-vitabile onda distruttiva della pandemia, privilegiando una costruttiva ricerca delle falle del sistema socio-sanitario per poi proporre aggiustamenti, con la speranza che tutto non torni come prima e che l’e-sperienza coronavirus non risulti inutile.

• Sul versante organizzativo si è intervenuti nel proporre nuovi protocolli sanitari e approcci assistenziali per la gestione delle residenze per anziani, totalmente assenti per diverse settimane. La promiscuità tra contagiati, sospetti e sani ha facilitato il contagio anche per l’elevata carica virale ambientale dei locali chiusi. Le residenze regionali (in particolar modo le comunità alloggio) al contrario di altre regioni, non ospitano solamente disabili, ma anche an-ziani con una discreta autonomia. L’AIP ha promosso il concetto della valutazione individuale, contro la standardizzazione degli interventi e la reclusione per tutti, per permettere a molti di godere degli

spazi all’aperto in dotazione nella gran parte delle residenze (prevenzione della sindrome da immobilizzazione e della de-pressione).

• Sul versante culturale si è cercato di ragio-nare su un nuovo modello di ripartenza che non riproponga gli errori del passato, ma contempli il concetto della salute nel suo significato più ampio, peraltro sban-dierato dall’OMS da parecchi anni, come l’unico percorribile, ovvero lo “stato di completo benessere fisico, psichico e so-cio-ambientale e non semplice assenza di malattia”.

L’AIP regionale fa parte di un gruppo in-terdisciplinare, “The Sardinian Project”, impegnato in diversi campi (economia, management, startup, digitalizzazione, medicina, sociologia, ricerca biomedica, didattica, filosofia, antropologia, archeolo-gia…) che, si spera, attraverso documenti e progetti possa orientare la politica e i decisori verso obiettivi di miglioramento della qualità della vita, nella convinzione che non sia possibile determinare cre-scite globali con provvedimenti costruiti solo per singoli settori produttivi o socio-sanitari. Si è deciso di partire dalla co-struzione di una nuova telemedicina, con approccio psicogeriatrico multidimensio-nale, attraverso una piattaforma che rilevi non solo i parametri biologici e funzionali clinici ma anche quelli sociali, psicologici e ambientali.

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 191

La condizione della Sicilia tra realtà e ansie, paure, disorganizzazione…

MARIA GRAZIA ARENAMessina

[email protected]

La Sicilia nel complesso ha tenuto: è un grosso risultato, considerate le premesse.Penso possano essere considerati a favore di questa affermazione dati quali:1) il basso numero di contagi a fronte di un numero adeguato di tam-

poni effettuato; 2) il basso numero di decessi; 3) la creazione di nuovi posti di rianimazione, molti rimasti ad oggi

inutilizzati; 4) una buona conversione delle strutture ospedaliere in reparti Covid

con accessi differenziati al P.S., che pur con l’eccezione di qualche presidio, hanno funzionato;

5) l’azione dei Covid team ospedalieri sul territorio.

I cittadini hanno mostrato un alto livello di responsabilità e la forte presenza della famiglia, tipica del Sud, nella gestione dell’anziano ha arginato l’emergenza solitudine, nonché il peso sulle strutture.Riguardo l’emergenza non sanitaria, a fronte di ritardi governativi, c’è stato l’intervento tempestivo dei sindaci con elargizione di pasti, buoni spesa, rimborso bollette ai cittadini in difficoltà.Di converso si sono evidenziati elementi di debolezza quali:1) la lentezza nella effettuazione, elaborazione e soprattutto nella tra-

smissione dei risultati dei tamponi; 2) le RSA e le case di riposo sono state lasciate prima senza indicazioni

precise, poi nel momento della criticità l’intervento non è stato sempre tempestivo, ma alla fine efficace;

3) qualche Direttore Generale ha fatto grossi errori nella gestione dei contagi interni.

Una certa mancanza di allineamento tra le direttive del Governo, della Regione e dei Sindaci ha generato a volte confusione nei cittadini.Un segnale sicuramente da attenzionare è una forte emergenza sociale legata ad una situazione economica disagiata che da sempre ha dato adito nel nostro territorio alla proliferazione di lavori precari o in nero.Una sfida per l’immediato futuro, in previsione dell’ennesima ondata di ritorno dal Nord, sarebbe mettere mano al portafoglio per un oculato investimento su tamponi e test, a difesa di quanto fatto finora.

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PSICOGERIATRIA 2020; SUPPLEMENTO 1: 192-194

Il futuro degli ospedali al tempo del Covid-19

ANGELO BIANCHETTIBrescia

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Sono passati oltre 2 mesi dal primo caso di Covid-19 riscontrato in Italia e molte cose sono cambiate nel nostro sistema sanitario. Que-sta pandemia ha sconvolto l’organizzazione della medicina territoriale, delle cure a lungo termine e degli ospedali. Nelle aree maggiormente colpite, soprattutto della Lombardia, come le provincie di Brescia, Ber-gamo, Lodi e Cremona, l’intero sistema socio sanitario è stato messo in crisi ed ancora oggi ci si sta interrogando sulle ragioni dell’elevato numero di contagi e di morti registrati in questi territori (Boccia S. e Ricciardi V.,2020).In ogni caso è fuori di dubbio che un ruolo centrale nell’affrontare questa crisi è stato giocato dagli ospedali che hanno dovuto affrontare in brevissimo tempo l’arrivo di una grande quantità di pazienti affetti da una grave forma di polmonite con caratteristiche peculiari sul pia-no clinico e terapeutico, dovendo inventare una modalità di gestione senza linee guida o riferimenti standardizzati (Rozzini R. e Bianchetti A., 2020). A Brescia, una provincia con 1.200.000 abitanti, dal 22 febbraio al 26 marzo sono stati attivati 2265 posti letto ospedalieri (corrispon-denti al 53% dei letti totali) dedicati alla cura dei pazienti con Covid-19 (di questi 8.5% in TI, il resto trasformando sostanzialmente tutte le aree mediche e chirurgiche). Questo enorme sforzo ha coinvolto tutti gli operatori sanitari, i me-dici di tutte le discipline, gli infermieri, gli ausiliari, i fisioterapisti, gli psicologi, i tecnici e tutti gli operatori. Possiamo dire che il sistema ospedaliero ha retto, anche se la peculiare organizzazione del sistema ospedaliero lombardo ha attirato su di sé molte critiche, accusato da più parti di essere una delle cause della crisi che ha travolto alcune provincie della Lombardia. Discuteremo ancora molto su questo; dal mio personale punto di osservazione, nell’occhio del ciclone, posso dire che senza l’efficienza e la duttilità del sistema ospedaliero, senza l’abnegazione di tutti, i morti sarebbero stati molti di più!Ora che il momento più critico è passato i reparti dedicati si svuotano e lentamente cercano di tornare alle attività normali e questo momen-to rappresenta una nuova sfida. L’ospedale non potrà essere quello di prima, nè nei territori maggiormente colpiti dalla pandemia nè nelle altre aree.

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193IL FUTURO DEGLI OSPEDALI AL TEMPO DEL COVID-19

All’orizzonte si pongono almeno due ordini di problemi.Il primo riguarda la ripresa dell’attività or-dinaria in sicurezza per i pazienti e per gli operatori in una situazione nella quale non possiamo dire che l’infezione da Sars-CoV-2 sia scomparsa o completamente debella-ta. Questo comporta una riorganizzazione dell’attività degli ospedali a livello di presta-zioni ambulatoriali e di degenza, degli spazi e dei tempi, delle modalità stesse di eroga-zione delle prestazioni alle quali non siamo preparati. Il pronto soccorso dovrà essere in grado di gestire in aree filtro i pazienti fino alla definizione di negatività da infezione da Sars-Cov-2 per tutte le patologie di urgenza e l’accesso dei pazienti in elezione dovrà essere preceduta da screening domiciliare. Questo significa disporre della possibilità di eseguire con facilità tamponi nasofaringei e dosaggi anticorpali con allungamento dei tempi e aumento dei costi delle prestazioni ospedaliere.Certamente dovranno essere riviste anche le priorità delle prestazioni ospedaliere, al di fuori delle emergenze, perché non sarà possibile mantenere i volumi di attività pre-cedenti. L’uso della tecnologia dovrà essere potenziato e molte attività svolte in remo-to con l’uso della telemedicina, con uno sforzo culturale, organizzativo e normativo necessario in tempi strettissimi. La gestio-ne di tale cambiamento non potrà rispon-dere alle sole logiche economicistiche per il rischio di marginalizzazione delle attività meno remunerative, spesso quelle rivolte ai soggetti più fragili. D’altra parte, soprattutto la gestione delle patologie croniche dovrà sempre più spostata sul territorio.Un secondo aspetto riguarda la gestione in quei casi di Covid-19 che ci saranno ancora e che si presenteranno non solo la classica infezione respiratoria ma anche in forme di-verse, come abbiamo imparato a conoscere in questi mesi: malattie neurologiche, car-

diache, vascolari, gastroenteriche e di altra natura. Inoltre, come già stiamo vedendo, Covid-19 può accompagnare altre patologie acute (traumatismi, patologie neoplastiche, cardiovascolari, neurologiche, metaboliche, ecc.). La gestione di questa patologie com-plicate dalla infezione virale (talvolta senza severo interessamento polmonare) richiede attenzioni specifiche non solo per evitare diffusione dell’infezione, ma anche perché è ormai chiaro che infezione da Sars-Cov-2 determina modificazioni a livello metaboli-co, vascolare, immunitario che rende com-plessa la gestione della patologia di base.Si pone quindi ora la domanda se sia op-portuno concentrare questi pazienti in un unico centro specializzato, oppure prevede-re che ogni ospedale sia in grado di gestire questi pazienti in aree specializzate.In assenza di precise indicazioni se non ge-neriche dichiarazioni che suggeriscono di avere un ospedale Covid dedicato ogni mi-lione di abitante, la discussione resta aperta.È evidente che in assenza di dati epidemio-logici (quanti casi di Covid 19 avremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni?) e clinici (avremo una cura efficace? arriverà il vacci-no? sarà efficace? l’infezione determina pro-tezione a lungo termine? Il virus muterà? ci saranno sequele a medio lungo termine del-la infezione?) certi tutto diventa complicato. È anche probabile che territori che hanno visto un’altra frequenza di casi avranno pro-blemi, ad esempio di necessità di follow-up e di gestione delle complicanze, diversi da quelli che hanno avuto solo casi sporadici. È comunque fin d’ora necessario porsi questi problemi e tentare una risposta razionale, per non trovarci nuovamente impreparati di fronte alla recrudescenza dei casi di in-fezione.È probabile la concentrazione della casistica in strutture dedicate (Covid hospital o aree separate anche l›interno di grandi strutture ospedaliere) potrà avere degli indubbi van-

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194 ANGELO BIANCHETTI

taggi: la garanzia di mantenere isolati i casi e ridurre quindi il rischio di coinfezione e dif-fusione dell’infezione, la possibilità di spe-cializzarsi nelle cure sia della fase acuta che delle complicanze tardive della malattia del-le quali non conosciamo nulla peraltro, la possibilità di fare ricerca e sperimentazione.In ogni caso una struttura ospedaliera non può non essere integrata nel territorio. L’e-sperienza di questi due mesi ha dimostrato come la scarsità di presidi territoriali porta ad una eccessiva concentrazione di casi ne-

gli ospedali e non permette di controllare efficacemente la diffusione del contagio. Inoltre, anche il tema della gestione post ospedaliera deve essere chiarito. Non è pos-sibile fare affidamento sulle strutture per anziani, sulle case di riposo, ma è necessario sperimentare modelli innovativi nella rete del sistema riabilitativo post acuto.Questa nuova situazione è una sfida alla no-stra capacità organizzativa, di ricerca, di ana-lisi. Se a queste prevarranno le logiche di po-tere e di spartizione allora saremo sconfitti.

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ASSOCIAZIONEITALIANA

PSICOGERIATRIA

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Finito di stampare nel mese di maggio 2020

Direttore Editoriale: Marco Trabucchi

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online: ISSN 2611-8920testo stampato: ISSN 2611-9420

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ANNO XX - SUPPLEMENTO 1 - NUMERO 1 - MAGGIO 2020

COVID-19 E GLI ANZIANIUn’esperienza per il futuro