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GIULIA NEGRO Iura in re aliena Mentre oggigiorno è pacifico definire la servitù come un diritto reale stabilito a vantaggio di un fondo, avente come contenuto una determinata e particolare facoltà di utilizzazione di un altro fondo non appartenente allo stesso proprietario (tant’è che per esprimere questo concetto, solitamente, si ricorrere alla figura del “peso” gravante su un fondo a vantaggio di un altro), nel diritto romano, non venne forgiata né la categoria delle servitù né il nome servitus”. Le figure originarie di questi diritti reali, ovvero le servitù di passaggio e di acquedotto, 1

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GIULIA NEGRO

Iura in re aliena

Mentre oggigiorno è pacifico definire la servitù come

un diritto reale stabilito a vantaggio di un fondo,

avente come contenuto una determinata e particolare

facoltà di utilizzazione di un altro fondo non

appartenente allo stesso proprietario (tant’è che per

esprimere questo concetto, solitamente, si ricorrere

alla figura del “peso” gravante su un fondo a

vantaggio di un altro), nel diritto romano, non venne

forgiata né la categoria delle servitù né il nome

“servitus”. Le figure originarie di questi diritti reali,

ovvero le servitù di passaggio e di acquedotto,

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vennero dapprima individuate in “tipi” distinti che si

differenziavano tra di loro perchè concepite come

entità materiali, porzioni di suolo atte all’esercizio

delle relative e diverse attività di passaggio o di

conduzione d’acqua. Ciò comportò il loro

riconoscimento tra le res mancipi, nonché una tutela

giudiziaria ancora in età classica qualificata come

vindicatio servitutis. Per ricercare le origini delle

servitù prediali, occorre – perciò – rifarsi alle origini

di queste figure più antiche, dalle quali se ne

moltiplicarono altre soprattutto grazie all’attività della

giurisprudenza.

1. NOZIONE E PROFILI STORICO EVOLUTIVI

DELLE SERVITÙ

Il nostro codice civile all’articolo 1027 definisce

le servitù come “un peso imposto sopra un fondo per

l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso

proprietario”. Si tratta di una definizione che si avvale

della tradizionale immagine del peso per far leva sul

concetto economico del servizio reso da un fondo ad

un altro. Tale idea di asservimento è già espressa nella

denominazione stessa di servitù prediale: immagine e

designazione traggono entrambe le loro radici nel

diritto romano, dove questi diritti reali limitati

cominciano già a configurarsi a partire dall’ultima età

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repubblicana per far fronte alle nuove esigenze

fondiarie.

I Romani non elaborarono una figura giuridica

concernente le servitù, creata e modellata in astratto

col ponderare le ragioni per cui questo diritto, a

contenuto speciale, venne riconosciuto solo su fondi e

soltanto a favore di questi. Esse, anzi, nacquero e si

moltiplicarono nella prassi: inizialmente erano limitate

nel numero e rispondevano ad esigenze elementari dei

fondi, poi con l’andar del tempo e con lo sviluppo

dell’Urbe, crebbero sensibilmente e i giuristi

provvidero a riconoscerle singolarmente. Tuttavia

non vennero configurate subito come “iura in re

aliena”; per le più antiche figure di servitù prediali

sorte con lo scopo di far fronte alle esigenze fondiarie

della vita agricola – vale a dire l’iter, l’actus, la via e

l’aquaeductus – si delineò un concetto ben più

immediato e primitivo, per cui la striscia di passaggio

o il rivus, secondo Grosso1, apparteneva sia al

proprietario del fondo servente che a quello

dominante. Il mancipium del titolare del fondo

dominante, sulla zona del fondo servente necessaria al

passaggio o all’acquedotto, non ebbe mai carattere

esclusivo; del resto non avrebbe avuto senso escludere

dal godimento di quella zona il titolare del fondo

servente, e sarebbe stato altresì antieconomico

1G. Grosso, Le servitù prediali nel diritto romano, Torino, 1969, p. 11 ss.

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dividere il fondo parcellizzandolo2. È presumibile che

il concorso dei titolari fosse risolto ricorrendo al

consortium ercto non cito3, cioè una comunione

solidaristica in una sua funzione specifica.4 Col

passare del tempo, quando agli originari istituti del

mancipium e della possessio si sovrappose il

dominium ex iure Quiritium, il ricorso al consortium

venne abbandonato per far spazio al principio

“duorum vel plurium in solidum dominium esse non

potest”. Questa impostazione si innesca sulla

concezione potestativa della società agricolo-

patriarcale, dove il “meum esse” della mancipatio

esprimeva un potere incondizionato su beni materiali,

animati e inanimati, comprese addirittura le persone

fisiche.

Per i Romani la proprietà rappresentava un prius

logico e storico5 rispetto alla configurazione di altri

diritti che avevano come contenuto una sfera

delimitata di utilizzazione della cosa; essa ineriva il

bene in tutti i suoi rapporti. Se la proprietà si

2M. Voigt, Über den Bestand und die historische Entwickelung derServituten und Servitutenklagen während der römischen Republik, in«BSGW», Leipzig, 1874, XXVI, p. 20 ss.; G. Grosso, Lezioni di storia deldiritto romano, Torino, 1960, pp. 22-49; S. Solazzi, Appunti sulle res necmancipi, Roma, 1931, p. 393.

3A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli, 1988, p. 636 ss.

4Si ritiene che solitamente l’espressione”consortium ercto non cito” vengatradotta con “comproprietà”; in realtà sarebbe più corretto per il dirittoromano parlare di “condominio” (cfr. M. Marrone, Lineamenti di dirittoprivato romano,Torino, 2001, p. 188).

5G. Grosso, I problemi dei diritti reali nell’impostazione romana, Torino,1944, p. 309; D. Barbero, L’usufrutto e i diritti affini, Milano, 1952, p. 14ss.

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identificava con la res, gli altri diritti (servitù

comprese) non potevano che essere iura in re,

pertanto il dominium del proprietario del fondo

servente si affievolì fino a diventare un semplice

diritto reale limitato6.

Bisogna annoverare che su questo stesso profilo

certi studiosi sono andati oltre, ravvisando una

particolare qualifica dei rapporti di appartenenza7.

Abbracciando la tesi in forza della quale le quattro

servitù rustiche – in quanto res corporales –

appartenevano ad entrambi i titolari, venne enucleata

la teoria della proprietà ripartita funzionalmente8, con

la quale si è voluto riportare all’antico diritto romano

lo spunto di un’elaborazione che, affermatasi nella

ripartizione medioevale di un dominium utile e un

dominium directum, era stata nettamente respinta

soprattutto dalla Pandettistica. Si trattava, infatti, di

una proprietà funzionalmente limitata in rapporto allo

scopo del passaggio o dell’acquedotto e che non si

trovava su un piede di parità con quella del

proprietario del fondo attraversato; a questa

concezione il mancipium si adattava bene, in quanto il

concetto di sovranità che gli era proprio, applicato ad

6G. Grosso, Le servitù cit., p. 2 ss.

7P. Koschaker, Recensione a ‘E. Bussi, La formazione dei dogmi di dirittoprivato nel diritto commune (diritti reali e diritti di obbligazione), Padova,1937’ in «ZSS», LVIII, 1938, p. 258 ss.; M. Kaser, Geteiltes Eingentum imälteren römischen Recht, in Festschrift P. Koschaker, I, Weimar, 1939, poiin Ausgewählte Schriften, II, Napoli, 1976, p. 445 ss.

8M. Voigt, op. cit., p. 20 ss.; P. Koschaker, op. cit., p. 258 ss.; M. Kaser, op.cit., p. 73 ss.

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un’ampia sfera di oggetti, ne avrebbe fatto un diritto

concettualmente più elementare in opposizione alla

pienezza del dominium, permettendo il riferimento ad

uno scopo più ristretto. I limiti che si incontravano

dovevano poggiare sulle qualifiche dell’oggetto, senza

che si scendesse da questa genericità ad una precisa

delimitazione del contenuto. In sostanza, secondo la

tesi di Koschaker9 e di Kaser10, dire che vi è una

proprietà funzionalmente limitata significa dire che i

diritti dei titolari dei due fondi erano diversi e distinti

per contenuto.

Vi sono altre congetture che ravvisano l’origine

delle servitù più antiche come diritti d’uso sul fondo

altrui, tra cui quella di Elvers11. Pensare che le servitù

si siano sviluppate da concessioni precarie a rapporti

obbligatori, pone il difficile problema del passaggio al

diritto reale e urta contro le testimonianze antiche che

ci riportano nel campo della proprietà. Eventuali

rapporti obbligatori, anche se configurabili, non

rientrerebbero nel processo di formazione delle

servitù, tutt’al più potrebbero essere precedenti storici

difficili da provare12.

Una ricerca tesa ad individuare nel campo del

regime fondiario la genesi di questi diritti reali limitati

9 P. Koschaker, Recensione cit., p. 258 ss.

10M. Kaser, Geteiltes Eingentum cit., p. 73 ss.

11R. Elvers, Die römische Servitutenlehre, Marburg, 1856, p. 6.

12G. Grosso, Le servitù cit., p 37.

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è quella che fa capo ad un regolamento convenzionale

dei rapporti di vicinanza13; essa parte dal presupposto

che esista un regime di limitazione alla proprietà

imposto dall’ordinamento giuridico con quelle che,

con una terminologia di certo non romana, venivano

chiamate servitù legali14. Questa ricostruzione vide

come uno dei principali artefici Scialoja15 e si ricollega

al regime degli agri limitati. La limitatio era un

procedimento di divisione e di assegnazione, di cui

abbiamo notizie dagli scritti dei gromatici, gli

agrimensori romani. A tale regime sembra collegarsi

l’antica proprietà romana: le parcelle erano divise da

una rete di vere e proprie strade e sentieri (cardo,

decumanus, limites e fines) aperti al pubblico transito.

In questo sistema, i fondi erano indipendenti l’uno

dall’altro. Mentre il cardo, il decumanus e i limites

maggiori erano pubblici, i fines risultavano dal

contributo dei fondi vicini, pertanto avevano natura

privata, anche se interessati da riserve di carattere

pubblico. Erano una specie di servitù legale a carattere

particolare: dalla possibilità di questa limitazione

legale tramite un regolamento convenzionale si

sarebbe passati a dire che, per volontà delle parti, era

possibile costituire ex novo un rapporto reale tra i due

13G. Grosso - G. Deiana, Le servitù prediali, Torino, 1955, p. 318 ss.

14Si deve alla scuola francese dei Culti la teorizzazione della dupliceorigine delle servitù, per natura e per fatto dell’uomo: di qui la successivaformulazione dottrinaria della bipartizione tra servitù legali, naturali econvenzionali. Cfr. A. Burdese, Le servitù prediali, Padova, 2007, p. 7.

15V. Scialoja, La servitù nel diritto romano, Roma, 1920-21, p. 146 ss.

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fondi di contenuto analogo a quello delle servitù

legali, ma a vantaggio di un fondo e carico dell’altro.

Come ricorda Grosso16, non dobbiamo dimenticare che

la limitatio, era proprio rivolta a garantire la massima

indipendenza dei fondi in modo da garantire più

agevolmente il loro raggiungimento, di conseguenza

l’immagine del servire di un fondo a vantaggio di un

altro sarebbe stata in antitesi con la libertà che il

regime voleva assicurare. Anche in questo frangente la

teoria dell’appartenenza solidale non sarebbe del tutto

da rifuggire: come il pubblico passaggio veniva

garantito con la sottrazione di parti di terreno che poi

rimanevano pubbliche, così per una maggiore utilità il

proprietario del fondo si faceva accordare il passaggio

su quello vicino e lo attuava analogamente a quello

pubblico.

Per concludere l’evoluzione terminologica di

questi diritti reali, bisogna ricordare che fu poi la

dogmatica bizantina a raccogliere sotto il nome di

“servitutes” tutti i più antichi diritti su cosa altrui,

distinguendoli in due categorie: servitutes personarum

e servitutes praediorum. Il concetto ispiratore di

questo discrimen è l’asservimento della cosa,

rispettivamente, ad una persona o ad un fondo,

facendo coincidere così la nozione di iura in re aliena

con quella di servitus.

16G. Grosso, Le servitù cit., p. 38.

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2 ELEMENTI DI REGIME DELL’ISTITUTO

La contrapposizione tra la proprietà e gli altri

diritti reali, unita alla scarsa propensione per le

definizioni, può spiegare come mai i Romani non

abbiano mai adottato un termine tecnico per indicare

una categoria di diritti così fortemente sentita come

quelli reali; il concetto di servitù quale diritto reale

trova il suo fondamento storico nella terminologia e

nel concreto regime elaborato dalla giurisprudenza

classica e preclassica romana.

In età classica il termine ricorrente per indicare le

servitù era quella di iura praediorum, dove lo “ius”

indicava, in una concezione oggettiva, sia l’istituto (e

quindi la condizione regolamentativa tra i due fondi)

sia, in una concezione soggettiva, le conseguenze

giuridiche che da esso derivavano ai titolari dei fondi.

Come s’è già detto, il vocabolo “servitus” evoca

in sé un’immagine di assoggettamento e di servizio di

un fondo a vantaggio di un altro; quest’ultima si

contrappone nettamente a quel carattere di libertà ed

indipendenza che qualificava il regime fondiario

romano, rappresentando una vera e propria

“invasione” nella sfera giuridica altrui, configurata

come diritto distinto. Tuttavia, nel mondo romano, si

era soliti ricorrere ad un’altra rappresentazione

mentale in forza della quale le servitutes sarebbero

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state qualitates fundi 17. È un’idea che può avere le sue

radici nelle più antiche figure di servitù, e cioè

nell’arcaico concetto del passaggio e dell’acquedotto

come appendici del fondo a vantaggio del quale erano

costituiti e, nella prospettiva delle servitù urbane,

come modi di essere degli edifici stessi18. È

un’immagine empirica della sostanza delle servitù,

dove il fondo dominante acquisisce un arricchimento

da una specifica utilità derivante dal fondo servente, il

quale – di conseguenza – subisce una limitazione e un

impoverimento della sua sfera di utilizzazione. Va da

sé che questa raffigurazione esce dal mondo

dell’astrattezza per concretarsi nel mondo giuridico;

infatti, la servitù è un diritto distinto – sia pure

accessorio – rispetto alla proprietà con cui non si

confonde nel contenuto.

Entrambe queste espressioni figurate sono

strumentali per comprendere i caratteri fondamentali

di questo diritto, caratterizzato:

A) dal lato passivo, dalla realità che esprime la

nozione del servizio reso al fondo e che si traduce sia

nella titolarità della servitù sia nella qualifica che il

contenuto riceve dalla sua destinazione all’utilità del

fondo dominante.

17Celso D.50, 16.86 ( Cels. 5 dig): quid aliud sunt iura praediorum, quampraedia qual iter se habentia: ut bonitas, salubritas, amplitutudo?

18G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano,Torino, 1948, p. 187 ss.

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B) dal lato attivo, dall’accessorietà alla proprietà

del fondo dominante.

Il contenuto speciale della servitù e il

riferimento, sia pur in modo diverso, ai due proprietari

dei fondi, sono caratteri fondamentali, che hanno fatto

sì che la giurisprudenza classica elaborasse dalla

pratica un ricchissimo bagaglio di osservazioni e

rilievi, i quali – a loro volta – permisero di formulare

alcuni principi comuni a tutti gli iura in re aliena.

Innanzitutto vi è la regola dell’inconcepibilità

che una servitù potesse esistere o continuare ad

esistere tra due fondi appartenenti allo stesso

proprietario19.

Il fondo servente doveva poi essere destinato

all’utilità del fondo dominante; quest’ultima poteva

essere più o meno rilevante e concreta. Infatti,

l’utilitas poteva risolversi anche in una pura e

semplice “amoenitas” (come avveniva, ad esempio,

per la servitù ne prospectui officiatur, la quale

imponeva al proprietario del fondo servente l’obbligo

di astenersi dal rendere meno gradevole la vista al

titolare del fondo dominante). L’utilitas doveva però

essere obbiettiva, ovvero era necessario che si

risolvesse in una qualche dote o utilità, che fosse in

relazione alle caratteristiche dei due fondi e che non

19Paolo D. 8.2.26 (Paul. 15 Sab.): in re communi nemo dominorum iureservitutis neque facere quicquam invito altero potest neque prohibere, quominus alter faciat: nulli enim res sua servit.

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fosse soltanto attinente alle esigenze personali od

occasionali del proprietario del fondo dominante20.

L’esercizio della servitù doveva poi essere

materialmente possibile, perciò occorreva che i fondi

fossero contigui, o quanto meno vicini, in modo tale

che tra loro potesse sussistere il fondamento pratico

delle servitù: l’utilità concreta e immediata.

Affinché una servitù prediale potesse essere

costituita, occorreva che i fondi fossero in condizioni

tali da rendere possibile in modo permanente

l’esercizio della servitù. In adesione a questo

principio, in età classica, pur ammettendo che questi

diritti potessero essere volontariamente estinti, non si

ritenne concepibile che fossero istituiti indicando ab

initio il momento della loro estinzione. Mentre, in

diritto postclassico, si accettò anche una costituzione

non indefinita, ed al proprietario del fondo servente si

riconobbe l’exceptio pacti o l’exceptio doli, qualora il

titolare del fondo dominante avesse continuato ad

esercitare la servitù dopo il verificarsi della

condizione o del termine risolutivo.

Essendo la servitù una qualitas fundi, non poteva

che sorgere ed essere costituita per intero. Se il fondo

dominante o il fondo servente veniva diviso, la

servitù, in forza della sua peculiare indivisibilità,

20S. Solazzi, Requisiti e modi di costituzione delle servitù, Napoli, 1947, p.25; B. Biondi, La categoria romana delle “servitutes”, Milano, 1938, pp.346, 419.

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persisteva per intero, sempre che la situazione nel

fondo servente non fosse resa più gravosa; a parte

questo caso, ciascuna frazione del fondo dominante

dava diritto all’intera servitù, così come ciascuna parte

del fondo servente determinava il dovere di sopportare

la servitù per intero.

Poiché si trattava di un diritto inerente al fondo,

la servitù seguiva le sorti di esso. Non era ammessa la

sua alienazione indipendentemente dal fondo. Il

titolare non poteva disporre di essa liberamente dal

bene, né questa costituiva un cespite patrimoniale.

Dalle fonti che ci sono pervenute, alcune di esse

interpolate, emerge un’eccezione all’inseparabilità

della servitù dal fondo dominante rappresentata dal

rapporto pignoratizio. In particolar modo, è necessario

porre attenzione ad un frammento di Paolo21, il quale

ammette l’ipotesi che il creditore pignoratizio, cui

appartiene un fondo vicino, sarebbe stato immesso

nell’esercizio della servitù con facoltà di venderla ad

un proprietario di un altro fondo vicino. Il frammento,

riportante il quesito postosi da Pomponio, non ci

fornisce una costruzione giuridica nella quale si

traducesse la pignorabilità ed è altrettanto discusso

fino a che punto, nel diritto pretorio, fossero tollerati i

rapporti costituiti attraverso l’immissione

21Paolo D. 20.1.12 (Paul. 1. 68 ad ed.): sed an viae itineris actus aquaeductus pignoris conventio locum habeat, videndum esse Pomponius ait, uttalis pactio fiat, ut, quamdiu pecunia soluta non sit, eis servitutibus creditorutatur (scilicet si vicinum fundum habeat) et si intra diem certum pecuniasoluta non sit, vendere eas vicino liceat: quae sententia propter utilitatemcontrahentium admittenda est.

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nell’esercizio. Nel diritto giustinianeo, invece,

essendo ammessi traditio e possesso delle servitù,

questi diritti reali limitati potevano essere costituiti

con la venditio pignoris da parte del creditore

pignoratizio.

È necessario rammentare che il titolare del fondo

servente non poteva essere tenuto ad un’attività

positiva a favore del proprietario del fondo

dominante22, anche se, relativamente a questo aspetto,

gli studiosi di diritto romano discutono riguardo ad un

particolare tipo di servitù: la servitus oneris ferendi 23.

In particolare, ci si domanda se quest’ultima sia

un’eccezione alla regola secondo la quale “servitus in

faciendo consistere nequit”, oppure, se il suo

contenuto sia solo apparentemente anomalo, poiché

l’obbligo del proprietario del fondo servente

consisterebbe pur sempre in un “pati”, cioè nel

sopportare un appoggio, mentre la riparazione –

reficere parietem – sarebbe stata solo un dovere

accessorio. In termini generali, il contenuto di questo

diritto reale poteva sostanziarsi in un facere, a cui il

proprietario del fondo servente non doveva opporsi,

oppure poteva avere contenuto negativo, implicando

che il titolare del fondo vicino si astenesse dal

compiere certe attività.

22D. 8.1.15.1 (Pomp. 33 Sab.): servitutem non ea natura est, ut aliqid faciatquis… sed ut aliquid patiatur aut non faciat.

23Questa servitù prediale imponeva al proprietario del fondo servente disostenere con un muro o una colonna di sua proprietà la parte del fondodominante.

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3. LA COSTITUZIONE

Per la costituzione delle servitù dobbiamo far capo

alla configurazione dei cosiddetti iura in re aliena; la

stessa concezione di diritto reale – sentita anche se

non formulata dai Romani – importava un certo

parallelismo nei modi di acquisto fra proprietà e questi

diritti su cosa altrui. Innanzitutto è bene precisare che,

perché le servitù potessero essere costituite, era

necessario che i due fondi fossero situati in suolo

italico, che i loro proprietari fossero domini ex iure

Quiritium e che fosse posto in essere uno dei modi di

costituzione riconosciuto dal ius civile. A partire

dall’età postclassica, cessata la distinzione tra fondi

italici e provinciali – venute meno mancipatio e in

iure cessio – subentrò omogeneità nei modi di

costituzione, scomparvero i presupposti poc’anzi

enunciati e si procedette ad individuare nuovi negozi

giuridici atti a dare origine alle servitù. Fatte queste

premesse, possiamo dire che dalle origini fin all’età

giustinianea le servitù si costituivano come segue:

A. Per le quattro servitù rustiche più

antiche ( e non più in epoca giustinianea ) con

la mancipatio servitutis e, in alternativa, per

tutte le altre servitù (rustiche ed urbane),

mediante l’in iure cessio. A questi negozi

formali e solenni di ius civile, non sappiamo

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però quali ritocchi furono apportati alla formula

traslativa del dominium ed in che modo fosse

rappresentata la cosa durante la formula

cerimoniale.

B. Per le servitus nec mancipi , ossia

quelle sorte posteriormente al momento in cui il

mancipium era l’unico rapporto assoluto

riconosciuto dal diritto romano, il diritto

classico prevedeva l’in iure cessio servitutis,

cioè un processo fittizio di vindicatio servitutis

esercitata dall’acquirente e di cessio in iure da

parte dell’alienante.

C. In origine, l’usucapione biennale

era fonte di servitù. Questa impostazione deve

aver trovato la sua più antica radice nella

coappartenenza della striscia di passaggio o del

rivus, mentre col sorgere delle servitù urbane

essa poteva ben adattarsi alla originaria

immedesimazione di queste nell’edificio. Fu la

Lex Scribonia, emanata alla fine dell’epoca

repubblicana, a sancire il principio di

inusucapibilità delle servitù, fondandolo sulla

loro natura di res incorporales24. Ma in diritto

postclassico si ritornò a ritenere rispetto a talune

servitù che la vetustas o la prerogativa

temporis, cioè il lungo esercizio di fatto di una

24Paul. D. 41.3.4.28(29): libertatem servitutium usucapi posse verius est,quia eam usucapionem sustulit lex Scribonia, quae servitutem constituebat,non etiam eam, quae libertatem praestat sublata servitute.

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servitù, potessero essere prova dell’esistenza

stessa.

D. In epoca classica, e post classica sia

le servitutes mancipi che quelle nec mancipi

potevano essere oggetto di deductio servitutis,

vale a dire la riserva di servitù a favore

dell’alienante, che tratteneva presso sé nella

mancipatio o in iure cessio di un fondo a favore

di un altro fondo, sottoposto sempre alla suo

dominium. I Romani parlavano, a tal proposito,

di excipere servitutem; la deductio si faceva

nella dichiarazione stessa di questi due negozi

solenni di ius civile, e poiché secondo il

formalismo romano chi faceva la dichiarazione

era l’acquirente, questi dichiarava che il fondo

era suo“excepta servitute”.

E. Con legatum per vindicationem,

avente effetti reali, il testatore poteva attribuire

a favore del legatario la servitù25.

F. Nei giudizi divisori si ammise che

il iudex costituisse servitù mediante adiudicatio

qualora egli, trovandosi a dividere un fondo in

regime di dominium ex iure Quiritium

collettivo, ravvisasse necessario assegnare una

servitù su una cosa o su parte di essa.

25G. Grosso, Miscellanea critica, in Studi Albertario, 1, Milano, 1953, p.587.

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G. Un modo tipicamente postclassico

che contribuiva al sorgere delle servitù fu la

cosiddetta destinatio patris familias, la quale

presupponeva una correlazione di servitù di

fatto tra due fondi appartenenti alla stessa

persona. Quando questi finivano con l’essere di

appartenenza di diversi proprietari, poiché

esisteva già un rapporto economico tra i due

fondi, si ritenne che tacitamente venisse ad

essere costituita la servitù tra i medesimi.

H. In età classica, non essendoci

alcuna res da consegnare, non si ammise che le

servitù potessero essere oggetto di traditio,

successivamente fu ammessa la “quasi traditio”

delle servitù, detta anche “patientia”, la quale

consisteva nell’accettazione non formale

dell’esercizio di una servitù rustica e positiva da

parte del proprietario del fondo servente, ovvero

la patientia di costui nel subire che il

proprietario di un altro fondo ponesse in essere

degli atti sul proprio26.

I.Siccome le servitù potevano costituirsi

solo su suolo italico e poiché solo gli Italica

praedia erano oggetto di dominium quiritario, in

età post-classica, per regolare iure praetorio

rapporti di natura analoga nelle province, si

26S. Solazzi, Requisiti e modi di costituzione delle servitù, Napoli, 1947, p.149; B. Biondi, Le servitù prediali nel diritto romano, Milano, 1954, p. 265.

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ricorse a pactiones et stipulationes. I giuristi

romani distinguevano nettamente tra negozi ad

effetto reale e quelli ad effetto obbligatorio; allo

stesso tempo, mal tolleravano che un negozio

iuris gentium, come la stipulatio, potesse

produrre effetti diversi da quelli che le erano

stati attribuiti sin dalla nascita. Si cercò di

inquadrare le pactiones et stipulationes nella

categoria che noi, oggi, chiamiamo

obligationes propter rem, ovvero quelle

prestazioni accessorie ad un diritto reale e ad

esso strumentalmente collegate. Si ritiene27 che

l’effetto reale debba ricollegarsi alla pactio (e

del resto è abbastanza noto che il diritto

onorario non disdicesse ad essa efficacia reale).

Ma allora qual è la funzione della stipulatio?

Occorre prendere le mosse dalla funzione che

ebbe questo negozio, in particolare nelle servitù

in suolo italico, con cui si prometteva allo

stipulante ed ai suoi eredi di non turbare

l’esercizio di una servitù. Come venne

osservato dal Segrè28, ogni volta che si fosse

dovuto adempiere ad un’obbligazione,

trattandosi di una res corporalis ci si sarebbe

dovuti procacciare il possesso; non essendo

27H. Siber, Römisches Recht in Grundzügen für die Vorlesung, I,Darmstadt, 1968, p. 110 e n. 10; M. Kaser, Römisches Privatrecht: einstudienbuch, I, München, 1977, p. 373 ss.

28G. Segrè, Corso di diritto romano 1919-20, Torino, post 1920, p. 262 ss.;id. Obligatio, obligare, obligari nei testi della giurisprudenza classica e deitempi di Diocleziano, in Studi Bonfante, III, Milano, 1930, p. 546, n. 131.

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possibile ciò per le servitù, si sarebbe dovuti

ricorrere ad una stipulatio d’esercizio. Questa,

col suo effetto obbligatorio, non concorreva alla

costituzione del diritto ma sostituiva la traditio

del possesso.

Per concludere, l’espressione “pactiones et

stipulationes” indica un procedimento ed un

effetto giuridicamente complesso che accoppia

la costituzione di un rapporto reale e la

stipulazione d’esercizio29; ma essa indica anche

l’evoluzione di una prassi storico-giuridica

determinatrice della “messa a punto della

pactio”.

4. MODI DI ESTINZIONE

A. I Romani parlavano di remissio

servitutis per indicare un atto di rinuncia della

servitù; essa, per poter essere giuridicamente

rilevante doveva sostanziarsi in una finzione

consistente nel fatto che il titolare del fondo

servente esercitasse un’actio negatoria,

29S. Solazzi, Stipulazioni di servitù prediali, Napoli, 1954, ora in Scritti diDiritto romano 5, Napoli, 1972, p. 551.

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sostenendo che il fondo fosse libero, e che a

fronte di questa il proprietario del fondo

dominante operasse l’in iure cessio 30. Qualche

Autore31 sostiene che per le più antiche servitù

rustiche la remissio potesse avvenire anche

mediante mancipatio, ma è quanto meno

difficoltoso ravvisare una mancipatio negativa

soprattutto per l’affermazione che essa contiene

della “rem emptam esse”, mentre per la sua

natura e per il suo profilo formale di finto

processo, l’in iure cessio era sicuramente più

adattabile32.

B. Un altro modo di estinzione era la

confusione, la quale aveva luogo allorché i due

fondi in correlazione di servitù venissero a

trovarsi, per un qualunque motivo, sotto il

dominium della stessa persona. In tale caso

l’estinzione attuava il principio del “nemini res

sua servit”.

C. Anche il non uso determinava la

cessazione della servitù. Le servitù positive,

come quelle rustiche, venivano meno col non

30B. Biondi, Le servitù prediali nel diritto romano, Milano, 1954, p. 309.

31G. Grosso, Le servitù prediali nel diritto romano, Torino, 1969, p. 243.

32Diversamente S. Perozzi, Instituzioni di diritto, Firenze, 1906-1908, p.774, non ritiene ammissibile l’in iure cessio nella forma del “ius non esse”per l’usufrutto e per le servitù a carattere affermativo, e costituisce perremissione di questi diritti una in iure cessio avente ad oggetto il iusprohibendi del dominus. Di parere opposto è A. Treves, Sull’estinzionedella servitù, in «Labeo», II, Napoli, 1956, p. 228.

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esercizio continuativo per due anni; tale

termine, in età postclassica, fu portato a dieci

anni o venti anni, a seconda che si trattasse di

rapporti tra presenti o assenti, secondo le regole

della praescriptio longi temporis. La ragione

giustificativa di questa causa di estinzione sta

nel fatto che l’inutilizzo della servitù da parte

del fondo dominante faceva sì che il

proprietario di quello servente acquisisse come

libero il fondo, in quanto optimus maximus, a

titolo di usucapione. Alle servitù negative,

quindi principalmente quelle urbane, non

bastava l’astensione dal godimento da parte del

proprietario del fondo dominante (perché egli

non era tenuto ad esercitare alcuna attività

positiva). Era necessario di conseguenza che ci

fosse un qualche altro fatto indicativo, che

poteva consistere anche in un atto di aperta

tolleranza da parte del proprietario del fondo

dominante nei confronti di un’attività posta in

essere da quello del fondo servente nettamente

incompatibile coi suoi doveri nascenti dalla

servitù33. Per cui, limitatamente alle servitù

negative, anziché di non usus, si parlò di

33Si prenda in considerazione – a titolo esemplificativo – la servitus altiusnon tollendi, dove l’utilità per il fondo dominante è rappresentata dal fattoche il proprietario del fondo servente non costruisca sul suo suolo oltre unacerta altezza. Quindi la servitù poteva dirsi non esercitata dal momento incui il dominus del fondo servente avesse tenuto un comportamentoincompatibile con il suo obbligo di non facere, sopraelevando.

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usucapio libertatis, realizzantesi a favore del

proprietario del fondo servente.

D. Il mutamento dello stato dei luoghi

era un fattore che contribuiva al venir meno di

questi diritti reali limitati, allorquando rendeva

perpetuamente impossibile il loro esercizio. Per

quanto riguarda le servitù rustiche, si ritenne

che la modificazione naturale dei luoghi non

determinasse la loro estinzione, ma soltanto

l’impossibilità del loro esercizio: pertanto,

quando questa possibilità fosse ripristinata – a

meno che non fossero decorsi i termini per il

non uso – la servitù riprendeva il libero

esercizio. Mentre le servitù urbane si

estinguevano con la demolizione degli edifici,

purché questa non avvenisse come presupposto

per una ricostruzione. Se l’edificio servente

fosse divenuto res extra commercium, la servitù

si estingueva per mancanza di oggetto.

5. AZIONI E INTERDETTI A DIFESA

DELLA SERVITÙ

Nel caso in cui il proprietario del fondo servente

ponesse degli ostacoli all’esercizio della servitù, a

quello del fondo dominante spettava – iure civili –

un’azione in rem, la cui intentio affermava l’esistenza

della servitù e per la quale i Romani parlavano di

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“vindicare servitutem”. Per i fondi provinciali, il

diritto pretorio accordava in via utile un’actio in rem

che, probabilmente, era la stessa concessa per la

vindicatio del fondo. In epoca giustinianea la

vindicatio servitutis34 era anche qualificata actio

confessoria, poiché essa mirava ad affermare

l’esistenza della servitù e a far quindi riconoscere

(confessare, appunto) all’avversario questa esistenza.

Data l’unificazione dei tipi di servitù, l’azione

confessoria divenne l’azione generale a tutela delle

servitù.

La formula della vindicatio servitutis era redatta

in modo tale da invitare il iudex a condannare il

convenuto nel caso esistesse il tipico ius praedii

vantato dall’attore; era un’azione che spettava al

dominus del fondo dominante contro chiunque gli

impedisse l’esercizio della servitù stessa. Al

proprietario del fondo su cui si sosteneva gravasse la

servitù spettava invece l’actio negatoria, tesa ad

ottenere l’optimus maximus35. La procedura di queste

due azioni, nonostante la differente formulazione dei

due iudicia (il primo positivo, il secondo negativo),

era corrispondente alla rei vindicatio. Il convenuto

poteva liberarsi delle conseguenze negative della

condanna mediante la restitutio, la quale consisteva o

34S. Solazzi, La tutela e il possesso delle servitù prediali, Napoli, 1949, p. 5ss.

35B. Biondi, Actio negativa ed actio prohibitoria a difesa delle servitù edell’usufrutto, Messina, 1929, p. 1 ss.

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nell’esercizio effettivo della servitù vantata o nella

impossibilità di avvalersi di essa da parte della

controparte36. In assenza di restitutio, si applicava la

condemnatio pecuniaria: quindi se il soccombente

pagava la litis aestimatio, la servitù veniva a

costituirsi (se non esisteva) o veniva ad estinguersi (se

esisteva). Dall’età postclassica – dato il sopravvento

del principio condemnatio in ipsam rem – si ottenne

con l’azione confessoria e negatoria, anziché un

importo in denaro, l’effettiva messa in azione della

servitù contestata o l’eliminazione della servitù negata

dal postulante.

Indipendentemente dalla esistenza effettiva delle

servitù e a prescindere dalle azioni volte a tutelarle, il

pretore romano introdusse un cospicuo gruppo di

interdetti (soprattutto in materia di passaggio e di

acquedotto) allo scopo di salvaguardare un fondo nei

confronti dell’altro. Questi interdicta concessi a

favore di chi si trova in una condizione analoga a

quella del titolare del fondo dominante rispetto al

fondo servente, non erano considerati in epoca

classica come degli interdetti possessori e davano

luogo ad una possessio ad interdicta37.

36P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1919, p. 116; E.Volterra, Istituzioni di diritto romano, Roma, 1961, p. 231.

37S. Solazzi, op. cit., p. 51 ss.; F. Musumeci, L’interdictum “quod vi autclam” nella tutela delle servitù e dell’usufrutto, in Studi C. Sanfilippo 7,1987, p. 487.

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