la storia - su ali d'aquila | just another …...la storia il comandante tedesco che salvò la...

1
Gallimard alla fine cede e rinuncia a Céline allimard getta la spugna. Bagatelle per un massacro, l’opu- scolo antisemita di Louis-Ferdinand Céline, non sarà riedi- to dalla storica casa editrice francese, che ha così preferito cedere alla richiesta di censura che impugnare fino in fon- do la bandiera della libertà di espressione. «A nome della mia libertà di editore e della sensibilità del tempo in cui vivo, sospendo questo progetto, poiché non esistono le condizioni metodologiche per un giudizio sereno», ha affermato Antoine Gallimard, che in una nota inviata all’agenzia France Presse indica come la «memoria» di quan- to subito dagli ebrei già negli anni della pubblicazione del pamph- let (1937, un anno prima della Notte dei Cristalli) sia ancora viva. G JO KOOPMAN ttraversando l’Olanda il treno aveva spesso sosta- to, ma una volta giunto in Germania proseguì senza fermarsi. Auschwitz dista- va circa millecinquecento chilometri e la raggiun- gemmo in quaranta ore, sotto i bom- bardamenti degli Alleati. Era una splen- dida notte di settembre quando gli spor- telli furono aperti e ci riversammo fuo- ri, felici di respirare finalmente aria fre- sca. Il posto era illuminato da numero- si riflettori. Eravamo a soli centocin- quanta chilometri dal fronte, ma l’illu- minazione veniva oscurata soltanto in caso di allarme aereo. Prigionieri in u- niforme a righe scaricarono i bagagli e aiutarono donne e bambini a scendere. Nessuno volle rispondere alle nostre do- mande. Numerosissime le SS e i Grüne. Il nostro gruppo, di circa cento persone, comprendeva sia coppie di ebrei, sia e- brei di discendenza mista, aventi un so- lo genitore o nonno ebreo. Dopo l’ap- pello ci fecero marciare fino agli edifici amministrativi di Birkenau, a tre chilo- metri dalla stazione. Nell’aria c’era un fetore che non si riu- sciva a identificare e che preoccupò tut- ti. Continuammo il cammino in silenzio, troppo stanchi e troppo inquieti per po- ter parlare. Della strada ricordo il fango e i fili del reticolato percorsi dalla cor- rente. Così deve sentirsi, avvicinandosi al mattatoio, l’animale che sente aleg- giare intorno la morte dei compagni e avverte istintivamente il pericolo. Ap- prendemmo presto che quel fetore era dovuto alle centinaia di corpi bruciati appartenenti a un convoglio arrivato ventiquattr’ore prima dalla Francia. In poco meno di un’ora arrivammo agli edifici amministrativi. Era mezzogiorno ma i riflettori erano accesi dovunque e si lavorava senza sosta per lavare, rasa- re e tatuare un gruppo di donne polac- che; poi sarebbe toccato a noi, degrada- ti a oggetti, non più esseri umani. Fra i prigionieri in giacca a righe che si aggi- ravano in quel luogo riconobbi un o- landese dall’aspet- to ben nutrito che, guardandosi intor- no con aria intimo- rita, mi disse che e- ra lì da un anno. Questo mi sollevò un poco e lui do- vette accorgersene, perché aggiunse, raggelandomi: «Dei millecinquecento arrivati con me siamo rimasti al massi- mo in quindici». Lo guardai stupito: «Ma tu hai l’aria di star bene!». «Sì», replicò, «perché faccio parte del Kommando Ka- nada, incaricato di selezionare tutti gli oggetti dei nuovi arrivati; per questo, quando lavoriamo, possiamo mangiare quanto vogliamo; non ci permettono però di portar via niente». Questo non mi spiegava tuttavia una così alta per- centuale di morti: «Le altre squadre ri- cevono così poco cibo?». chiesi. «Il resto passa per le camere a gas: nel campo c’è una selezione continua e i musulmani, cioé i più deboli, passano per il cami- no», mi disse, scrutandomi per vedere l’effetto delle sue parole. «All’arrivo si è subito registrati; quello che resta del vo- stro convoglio è stato selezionato appe- na siete scesi dal treno. I più fortunati vanno subito nelle camere a gas». «I più fortunati?», chiesi. «Sì, fortunati, perché non si rendono conto di quello che li a- spetta: credono di dover fare una doc- cia e invece sono gassati. Al momento della selezione si sa già come andrà». Fui così introdotto nei segreti di Au- schwitz, segreti che sono ora conosciu- ti nel nostro Paese, ma ai quali allora non potevo credere. Avevo sentito delle ca- mere a gas da Radio Londra, ma avevo pensato che si trattasse di propaganda. Mi aspettavo cattive condizioni igieni- A che, lavori pesanti, maltrattamenti, ma non l’uccisione scientifica di milioni di uomini che qui mi si palesava. Nel tardo pomeriggio, noi che eravamo entrati nei bagni vestiti decentemente ne uscimmo vestiti di stracci, lavati, ra- sati e con un nume- ro tatuato sul brac- cio, ormai pronti. Quando lasciammo dal retro l’edificio non ci riconosceva- mo più: tutto quel- lo che avevamo portato con noi era rimasto lì. Ci met- temmo allora in marcia verso Au- schwitz, a cinque chilometri da Birke- nau, un poco sollevati perché ci allon- tanavamo dal fumo del forno cremato- rio e perché Auschwitz, a quanto dice- vano alcuni prigionieri, non aveva una fama troppo cattiva. Faceva molto caldo e le donne rimane- vano indietro. In tre giorni avevamo mangiato e bevuto poco o niente, i più non avevano nemmeno dormito. Pur in quello stato, fummo sottoposti a una marcia così pesante che molti per lo sfi- nimento non reggevano e dovevamo so- stenerli, trascinandoci, sempre sotto la stretta sorveglianza delle SS. Incon- trammo gruppi di donne ungheresi che, a mani nude, portavano mattoni; avan- zavano una dietro l’altra, in un lungo, triste corteo. Quella stessa strada, mesi più tardi, l’a- vremmo percorsa di nuovo, costeg- giando il mostruo- so spettacolo di centinaia di cada- veri accatastati nel- la neve che i nazisti avevano lasciato dietro di sé come e- redità. Ma allora, sfiniti come erava- mo, non pensava- mo al futuro. Arrivammo così all’entrata principale del lager. Sopra l’ingresso non stava scrit- to: “Lasciate ogni speranza, o voi ch’en- trate”, ma Arbeit macht frei, a testimo- nianza dell’alta considerazione che i na- zisti avevano del lavoro; considerazio- ne che valeva non solo per i cittadini te- deschi, ma anche all’interno dei campi di concentramento, dove le persone “a- sociali” venivano “rieducate all’opero- sita”, secondo quanto diffondeva da tempo la propaganda. Di questa “alta considerazione per il la- voro” sembrava far parte il suono di mar- cia con cui la mattina uscivamo per an- dare a lavorare; anche se percosso a mor- te, la sera dovevi rientrare nel lager allo stesso modo, accompagnato dalle note allegre di una vivace marcetta. La pro- paganda messa in giro non era natu- ralmente diretta ai prigionieri che, co- me previsto, non a- vrebbero mai potu- to raccontare qual- cosa, ma a quanti dall’estero visitava- no il lager, di cui do- vevano natural- mente riportare u- na buona impressione. Nelle baracche erano affissi cartelli a colori che esorta- vano all’“onestà”, alla “lealtà”, alla “puli- zia”, allo “zelo”, «tutte pietre miliari sulla via della libertà». Altri cartelli proibiva- no le percosse e c’erano nell’Ambulans avvisi in cui si faceva obbligo ai medici, nel caso riscontrassero ferite causate da percosse, di comunicarlo «anche se si trattava di ebrei». Gli stranieri che visitavano il lager vede- vano degli edifici dall’aspetto gradevo- le, tegole rosse, tendine e vasi di fiori al- le finestre. Ma tutt’intorno il campo era circondato da un reticolato elettrico e pure l’alto muro di cemento, dal lato in- terno, era percorso dalla corrente. Non avevano un aspetto rassicurante le otto alte, cupe torrette da cui spuntavano mi- nacciose le canne delle mitragliatrici. Ma, voltando le spalle a tutto questo, ve- devi edifici accoglienti, un prato, un fi- lare di betulle, la famosa Birkenallee, del- le panchine, una vasca, un campo da pallacanestro. Non c’era quindi da mettere in dubbio il rapporto redatto da una commissio- ne e quanto venne in seguito comuni- cato da un ministro olandese al Parla- mento: «In un campo di concentra- mento non c’è alcun pericolo di morte». © RIPRODUZIONE RISERVATA anzitutto La storia Il comandante tedesco che salvò la famiglia ebrea CULTURA, RELIGIONI, TEMPO LIBERO, SPETTACOLI, SPORT La legge del LAGER era la menzogna Giornata della Memoria. Nel suo diario inedito Koopman racconta l’arrivo ad Auschwitz, inferno da cui nulla trapela fuori LUCIA BELLASPIGA mmaginate un antico convento occupato dalle truppe naziste della Wehrmacht, che ne hanno fatto il loro quartier generale, nei giorni convulsi in cui Churchill in persona guida le operazioni contro i tedeschi: bombardamenti senza sosta sul colle dell’edificio. Ma immaginate ora che nelle grotte dello stesso convento siano rifugiati 300 civili, che da mesi vivono a stretto contatto con la Wehrmacht, e tra questi ci siano anche sei ebrei, la famiglia di Alfredo Sarano, accolti dai frati francescani... Una trama inverosimile, si direbbe. Ma la realtà supera la fantasia e succede anche che il comandante tedesco Erich Eder, 21 anni, cattolico di Baviera, pur avendo scoperto la presenza della famiglia ebrea, decida di non deportarla e di proteggerla insieme agli altri civili. Accadeva nell’estate del 1944 sulle colline di Pesaro, tra il santuario del beato Sante Brancorsini e il paese di Mombaroccio, anche se a ben guardare lì si apriva solo il cerchio, che si è chiuso ieri sera a Milano, con l’incontro tra le figlie dell’ebreo Alfredo Sarano, scampate al lager grazie al sottufficiale tedesco, e i figli dello stesso Eder, tutti ignari di questa storia fino a poco fa. A chiuderlo, il cerchio, è stato il giornalista Roberto Mazzoli, che per anni ha seguito le tracce del militare tedesco, ha ritrovato (in maniera che ha dell’incredibile) la famiglia di ebrei da lui salvati (ormai in Israele), ha ricevuto da loro il diario di Sarano rimasto per 70 anni in un cassetto, in Germania ha rintracciato i figli di Eder, ha infine pubblicato Siamo qui, siamo vivi - Diario inedito di Alfredo Sarano (San Paolo, pagine 192, euro 17,00), presentato all’Umanitaria di Milano insieme ai figli di entrambe le famiglie. «Seppi dell’atto eroico di Eder dai francescani – racconta Mazzoli, direttore del settimanale diocesano pesarese “Il Nuovo Amico” e collaboratore di “Avvenire” –, ma degli ebrei da lui salvati si era perso il nome. Quando avevo quasi rinunciato a scoprirlo, casualmente sul mio pc è apparsa la notizia di un concorso per ristoratori a Tel Aviv, e i vincitori accennavano a una loro salvezza dalla deportazione a Pesaro. Conobbi così le sorelle Matilde, Vittoria e Miriam Sarano, che all’epoca dei fatti erano bambine». «Il diario di nostro padre stava aspettando Mazzoli – hanno detto ieri – affinché il cerchio della nostra salvezza si potesse chiudere per essere finalmente raccontato. L’incontro, a prima vista casuale, è stato senza dubbio predisposto in più alte sfere». Attenzione: Alfredo Sarano restò sempre convinto che nessuno li avesse scoperti, non seppe mai che a salvare la sua famiglia era stato Eder, «e nemmeno a noi nostro padre disse mai nulla», aggiungono Günther e Peter, figlio e genero del militare, «semplicemente perché non riteneva eroico il suo gesto, ma assolutamente ovvio». Tante le "coincidenze" in questa rocambolesca storia, compreso il fatto che il 2 aprile 1990, proprio il giorno in cui Alfredo Sarano muore in Israele, Erich Eder, ormai 66enne, torna al santuario del beato Sante un’ultima volta prima di morire. «La prima volta ci era andato in bicicletta dalla Baviera nel 1953 per assolvere a un voto», ha ricordato Mazzoli. Infatti aveva promesso al beato che, se avesse salvato tutti gli occupanti del monastero, sarebbe tornato. E se invece fosse morto sotto le bombe? «Aveva affidato ai frati una lettera per sua mamma in cui le diceva “sappi che mi sono comportato da cristiano”». L’opera autobiografica di Alfredo Sarano, e il libro che Mazzoli ne ha tratto, è fondamentale anche dal punto di vista storico, perché prima di fuggire a Pesaro la famiglia viveva a Milano, dove Alfredo era segretario della comunità ebraica e teneva il censimento, aveva cioè in mano le identità dei 13mila ebrei della città. A rischio della vita si rifiutò di consegnare la “Lista di Sarano” e la nascose, salvando migliaia di persone: su 13mila, solo 800 verranno deportate. «Una storia ebraica così a lieto fine fa bene allo spirito – ha commentato la scrittrice e testimone Liliana Segre –. Incontrare persone così buone è un lenimento a ferite ancora aperte dopo 70 anni. I miei nonni furono traditi per 5.000 lire e mandati al macello. Eder è stato un giusto, un coraggioso soldato tedesco». «Questo testo nutre la memoria in tempi di smemoratezza – ha commentato il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio –. Insegna che si salva chi non salva solo se stesso: Sarano a suo rischio protegge l’intera comunità ebraica milanese, Eder a 21 anni ha valori così saldi da mettersi in pericolo per la vita altrui, e così fanno i frati. Nessuno si salva da solo». A raccogliere la bellezza del gesto di Eder c’erano il presidente della Comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, Davide Milani, responsabile della Comunicazione dell’Arcidiocesi di Milano, Simone Bruno, direttore della San Paolo, e Davide Romano, assessore alla cultura della Comunità ebraica, che ha concluso con le parole del filosofo Edmund Burke: «È l’indifferenza che ha permesso quello che è successo». Erich Eder, militare tedesco, rifiutò di restare indifferente. © RIPRODUZIONE RISERVATA I A Pesaro nel 1944 Erich Eder, 21 anni, protesse Alfredo Sarano, il quale raccontò la vicende in un diario scoperto da Roberto Mazzoli, che ha anche rintracciato i figli dei due, incontratisi ieri sera a Milano «Radio Londra parlava di camere a gas ma pensavo fosse propaganda. Ovunque cartelli esortavano all’onestà, alla pulizia e allo zelo, “pietre miliari della libertà”» «Gli stranieri che visitavano il campo vedevano begli edifici e filari di betulle, al punto che poi affermavano che non ci fosse “alcun pericolo di morte”» Un anno nella notta più buia Ha una prosa asciutta e senza retorica “La notte di Auschwitz”, il diario di Jo Koopman inedito in Italia e ora pubblicato da Edb (pagine 128, euro 12,50) con introduzione di Piero Stefani, di cui anticipiamo qui un estratto dalle pagine che raccontano il primo impatto con il lager. Scritto tra 1945 e 1946 (racconta infatti anche la liberazione a opera dei russi, il difficile viaggio di rientro e il deludente ritorno in patria), il testo di Koopman, ebreo olandese, restituisce la vita quotidiana, le paure, le vessazioni come se accadessero in presa diretta. 11 Venerdì 12 Gennaio 2018

Upload: others

Post on 09-Aug-2020

5 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: La storia - Su ali d'aquila | Just another …...La storia Il comandante tedesco che salvò la famiglia ebrea CULTURA, RELIGIONI, TEMPO LIBERO, SPETTACOLI, SPORT La legge del LAGER

Gallimard alla fine cedee rinuncia a Céline

allimard getta la spugna. Bagatelle per un massacro, l’opu-scolo antisemita di Louis-Ferdinand Céline, non sarà riedi-to dalla storica casa editrice francese, che ha così preferitocedere alla richiesta di censura che impugnare fino in fon-

do la bandiera della libertà di espressione. «A nome della mia libertàdi editore e della sensibilità del tempo in cui vivo, sospendo questoprogetto, poiché non esistono le condizioni metodologiche per ungiudizio sereno», ha affermato Antoine Gallimard, che in una notainviata all’agenzia France Presse indica come la «memoria» di quan-to subito dagli ebrei già negli anni della pubblicazione del pamph-let (1937, un anno prima della Notte dei Cristalli) sia ancora viva.

G

JO KOOPMAN

ttraversando l’Olanda iltreno aveva spesso sosta-to, ma una volta giunto inGermania proseguì senzafermarsi. Auschwitz dista-va circa millecinquecentochilometri e la raggiun-

gemmo in quaranta ore, sotto i bom-bardamenti degli Alleati. Era una splen-dida notte di settembre quando gli spor-telli furono aperti e ci riversammo fuo-ri, felici di respirare finalmente aria fre-sca. Il posto era illuminato da numero-si riflettori. Eravamo a soli centocin-quanta chilometri dal fronte, ma l’illu-minazione veniva oscurata soltanto incaso di allarme aereo. Prigionieri in u-niforme a righe scaricarono i bagagli eaiutarono donne e bambini a scendere.Nessuno volle rispondere alle nostre do-mande. Numerosissime le SS e i Grüne.Il nostro gruppo, di circa cento persone,comprendeva sia coppie di ebrei, sia e-brei di discendenza mista, aventi un so-lo genitore o nonno ebreo. Dopo l’ap-pello ci fecero marciare fino agli edificiamministrativi di Birkenau, a tre chilo-metri dalla stazione.Nell’aria c’era un fetore che non si riu-sciva a identificare e che preoccupò tut-ti. Continuammo il cammino in silenzio,troppo stanchi e troppo inquieti per po-ter parlare. Della strada ricordo il fangoe i fili del reticolato percorsi dalla cor-rente. Così deve sentirsi, avvicinandosial mattatoio, l’animale che sente aleg-giare intorno la morte dei compagni eavverte istintivamente il pericolo. Ap-prendemmo presto che quel fetore eradovuto alle centinaia di corpi bruciatiappartenenti a un convoglio arrivatoventiquattr’ore prima dalla Francia.In poco meno di un’ora arrivammo agliedifici amministrativi. Era mezzogiornoma i riflettori erano accesi dovunque esi lavorava senza sosta per lavare, rasa-re e tatuare un gruppo di donne polac-che; poi sarebbe toccato a noi, degrada-ti a oggetti, non più esseri umani. Fra iprigionieri in giacca a righe che si aggi-ravano in quel luogo riconobbi un o-landese dall’aspet-to ben nutrito che,guardandosi intor-no con aria intimo-rita, mi disse che e-ra lì da un anno.Questo mi sollevòun poco e lui do-vette accorgersene,perché aggiunse,raggelandomi: «Deimillecinquecentoarrivati con me siamo rimasti al massi-mo in quindici». Lo guardai stupito: «Matu hai l’aria di star bene!». «Sì», replicò,«perché faccio parte del Kommando Ka-nada, incaricato di selezionare tutti glioggetti dei nuovi arrivati; per questo,quando lavoriamo, possiamo mangiarequanto vogliamo; non ci permettonoperò di portar via niente». Questo nonmi spiegava tuttavia una così alta per-centuale di morti: «Le altre squadre ri-cevono così poco cibo?». chiesi. «Il restopassa per le camere a gas: nel campo c’èuna selezione continua e i musulmani,cioé i più deboli, passano per il cami-no», mi disse, scrutandomi per vederel’effetto delle sue parole. «All’arrivo si èsubito registrati; quello che resta del vo-stro convoglio è stato selezionato appe-na siete scesi dal treno. I più fortunativanno subito nelle camere a gas». «I piùfortunati?», chiesi. «Sì, fortunati, perchénon si rendono conto di quello che li a-spetta: credono di dover fare una doc-cia e invece sono gassati. Al momentodella selezione si sa già come andrà».Fui così introdotto nei segreti di Au-schwitz, segreti che sono ora conosciu-ti nel nostro Paese, ma ai quali allora nonpotevo credere. Avevo sentito delle ca-mere a gas da Radio Londra, ma avevopensato che si trattasse di propaganda.Mi aspettavo cattive condizioni igieni-

A

che, lavori pesanti, maltrattamenti, manon l’uccisione scientifica di milioni diuomini che qui mi si palesava.Nel tardo pomeriggio, noi che eravamoentrati nei bagni vestiti decentementene uscimmo vestiti di stracci, lavati, ra-

sati e con un nume-ro tatuato sul brac-cio, ormai pronti.Quando lasciammodal retro l’edificionon ci riconosceva-mo più: tutto quel-lo che avevamoportato con noi erarimasto lì. Ci met-temmo allora inmarcia verso Au-

schwitz, a cinque chilometri da Birke-nau, un poco sollevati perché ci allon-tanavamo dal fumo del forno cremato-rio e perché Auschwitz, a quanto dice-vano alcuni prigionieri, non aveva unafama troppo cattiva.Faceva molto caldo e le donne rimane-vano indietro. In tre giorni avevamomangiato e bevuto poco o niente, i piùnon avevano nemmeno dormito. Pur inquello stato, fummo sottoposti a unamarcia così pesante che molti per lo sfi-nimento non reggevano e dovevamo so-stenerli, trascinandoci, sempre sotto la

stretta sorveglianza delle SS. Incon-trammo gruppi di donne ungheresi che,a mani nude, portavano mattoni; avan-zavano una dietro l’altra, in un lungo,triste corteo.Quella stessa strada, mesi più tardi, l’a-vremmo percorsadi nuovo, costeg-giando il mostruo-so spettacolo dicentinaia di cada-veri accatastati nel-la neve che i nazistiavevano lasciatodietro di sé come e-redità. Ma allora,sfiniti come erava-mo, non pensava-mo al futuro.Arrivammo così all’entrata principaledel lager. Sopra l’ingresso non stava scrit-to: “Lasciate ogni speranza, o voi ch’en-trate”, ma Arbeit macht frei, a testimo-nianza dell’alta considerazione che i na-zisti avevano del lavoro; considerazio-ne che valeva non solo per i cittadini te-deschi, ma anche all’interno dei campidi concentramento, dove le persone “a-sociali” venivano “rieducate all’opero-sita”, secondo quanto diffondeva datempo la propaganda.Di questa “alta considerazione per il la-

voro” sembrava far parte il suono di mar-cia con cui la mattina uscivamo per an-dare a lavorare; anche se percosso a mor-te, la sera dovevi rientrare nel lager allostesso modo, accompagnato dalle noteallegre di una vivace marcetta. La pro-

paganda messa ingiro non era natu-ralmente diretta aiprigionieri che, co-me previsto, non a-vrebbero mai potu-to raccontare qual-cosa, ma a quantidall’estero visitava-no il lager, di cui do-vevano natural-mente riportare u-

na buona impressione. Nelle baraccheerano affissi cartelli a colori che esorta-vano all’“onestà”, alla “lealtà”, alla “puli-zia”, allo “zelo”, «tutte pietre miliari sullavia della libertà». Altri cartelli proibiva-no le percosse e c’erano nell’Ambulansavvisi in cui si faceva obbligo ai medici,nel caso riscontrassero ferite causate dapercosse, di comunicarlo «anche se sitrattava di ebrei».Gli stranieri che visitavano il lager vede-vano degli edifici dall’aspetto gradevo-le, tegole rosse, tendine e vasi di fiori al-le finestre. Ma tutt’intorno il campo eracircondato da un reticolato elettrico epure l’alto muro di cemento, dal lato in-terno, era percorso dalla corrente. Nonavevano un aspetto rassicurante le ottoalte, cupe torrette da cui spuntavano mi-nacciose le canne delle mitragliatrici.Ma, voltando le spalle a tutto questo, ve-devi edifici accoglienti, un prato, un fi-lare di betulle, la famosa Birkenallee, del-le panchine, una vasca, un campo dapallacanestro.Non c’era quindi da mettere in dubbioil rapporto redatto da una commissio-ne e quanto venne in seguito comuni-cato da un ministro olandese al Parla-mento: «In un campo di concentra-mento non c’è alcun pericolo di morte».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

anzitutto

La storiaIl comandante tedescoche salvò la famiglia ebrea

CULTURA, RELIGIONI, TEMPO LIBERO, SPETTACOLI, SPORT

La legge del LAGERera la menzogna

Giornata della Memoria. Nel suo diario inedito Koopmanracconta l’arrivo ad Auschwitz, inferno da cui nulla trapela fuori

LUCIA BELLASPIGA

mmaginate un antico convento occupato dalle truppenaziste della Wehrmacht, che ne hanno fatto il loroquartier generale, nei giorni convulsi in cui Churchill inpersona guida le operazioni contro i tedeschi:

bombardamenti senza sosta sul colle dell’edificio. Maimmaginate ora che nelle grotte dello stesso convento sianorifugiati 300 civili, che da mesi vivono a stretto contatto conla Wehrmacht, e tra questi ci siano anche sei ebrei, la famigliadi Alfredo Sarano, accolti dai frati francescani... Una tramainverosimile, si direbbe. Ma la realtà supera la fantasia esuccede anche che il comandante tedesco Erich Eder, 21anni, cattolico di Baviera, pur avendo scoperto la presenzadella famiglia ebrea, decida di non deportarla e diproteggerla insieme agli altri civili. Accadeva nell’estate del1944 sulle colline di Pesaro, tra il santuario del beato SanteBrancorsini e il paese di Mombaroccio, anche se a benguardare lì si apriva solo il cerchio, che si è chiuso ieri sera aMilano, con l’incontro tra le figlie dell’ebreo Alfredo Sarano,scampate al lager grazie al sottufficiale tedesco, e i figli dellostesso Eder, tutti ignari di questa storia fino a poco fa. Achiuderlo, il cerchio, è stato il giornalista Roberto Mazzoli,che per anni ha seguito le tracce del militare tedesco, haritrovato (in maniera che ha dell’incredibile) la famiglia diebrei da lui salvati (ormai in Israele), ha ricevuto da loro ildiario di Sarano rimasto per 70 anni in un cassetto, inGermania ha rintracciato i figli di Eder, ha infine pubblicatoSiamo qui, siamo vivi - Diario inedito di Alfredo Sarano (SanPaolo, pagine 192, euro 17,00), presentato all’Umanitaria diMilano insieme ai figli di entrambe le famiglie. «Seppidell’atto eroico di Eder dai francescani – racconta Mazzoli,direttore del settimanale diocesano pesarese “Il NuovoAmico” e collaboratore di “Avvenire” –, ma degli ebrei da luisalvati si era perso il nome. Quando avevo quasi rinunciato ascoprirlo, casualmente sul mio pc è apparsa la notizia di unconcorso per ristoratori a TelAviv, e i vincitoriaccennavano a una lorosalvezza dalla deportazione aPesaro. Conobbi così lesorelle Matilde, Vittoria eMiriam Sarano, che all’epocadei fatti erano bambine». «Ildiario di nostro padre stavaaspettando Mazzoli – hannodetto ieri – affinché il cerchiodella nostra salvezza sipotesse chiudere per esserefinalmente raccontato.L’incontro, a prima vistacasuale, è stato senza dubbiopredisposto in più alte sfere».Attenzione: Alfredo Sarano restò sempre convinto chenessuno li avesse scoperti, non seppe mai che a salvare la suafamiglia era stato Eder, «e nemmeno a noi nostro padre dissemai nulla», aggiungono Günther e Peter, figlio e genero delmilitare, «semplicemente perché non riteneva eroico il suogesto, ma assolutamente ovvio». Tante le "coincidenze" inquesta rocambolesca storia, compreso il fatto che il 2 aprile1990, proprio il giorno in cui Alfredo Sarano muore in Israele,Erich Eder, ormai 66enne, torna al santuario del beato Santeun’ultima volta prima di morire. «La prima volta ci eraandato in bicicletta dalla Baviera nel 1953 per assolvere a unvoto», ha ricordato Mazzoli. Infatti aveva promesso al beatoche, se avesse salvato tutti gli occupanti del monastero,sarebbe tornato. E se invece fosse morto sotto le bombe?«Aveva affidato ai frati una lettera per sua mamma in cui lediceva “sappi che mi sono comportato da cristiano”». L’operaautobiografica di Alfredo Sarano, e il libro che Mazzoli ne hatratto, è fondamentale anche dal punto di vista storico,perché prima di fuggire a Pesaro la famiglia viveva a Milano,dove Alfredo era segretario della comunità ebraica e teneva ilcensimento, aveva cioè in mano le identità dei 13mila ebreidella città. A rischio della vita si rifiutò di consegnare la “Listadi Sarano” e la nascose, salvando migliaia di persone: su13mila, solo 800 verranno deportate. «Una storia ebraica cosìa lieto fine fa bene allo spirito – ha commentato la scrittrice etestimone Liliana Segre –. Incontrare persone così buone èun lenimento a ferite ancora aperte dopo 70 anni. I mieinonni furono traditi per 5.000 lire e mandati al macello. Ederè stato un giusto, un coraggioso soldato tedesco». «Questotesto nutre la memoria in tempi di smemoratezza – hacommentato il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio –.Insegna che si salva chi non salva solo se stesso: Sarano a suorischio protegge l’intera comunità ebraica milanese, Eder a21 anni ha valori così saldi da mettersi in pericolo per la vitaaltrui, e così fanno i frati. Nessuno si salva da solo». Araccogliere la bellezza del gesto di Eder c’erano il presidentedella Comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, DavideMilani, responsabile della Comunicazione dell’Arcidiocesi diMilano, Simone Bruno, direttore della San Paolo, e DavideRomano, assessore alla cultura della Comunità ebraica, cheha concluso con le parole del filosofo Edmund Burke: «Èl’indifferenza che ha permesso quello che è successo». ErichEder, militare tedesco, rifiutò di restare indifferente.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I

A Pesaro nel 1944 Erich Eder, 21 anni,protesse Alfredo Sarano, il quale raccontò la vicendein un diario scoperto da Roberto Mazzoli, che ha anche rintracciato i figli dei due, incontratisi ieri sera a Milano

«Radio Londra parlavadi camere a gas ma pensavofosse propaganda. Ovunquecartelli esortavano all’onestà,

alla pulizia e allo zelo,“pietre miliari della libertà”»

«Gli stranieri che visitavanoil campo vedevano begli edifici e filari

di betulle, al punto che poi affermavano che non ci fosse

“alcun pericolo di morte”»

Un anno nella notta più buiaHa una prosa asciutta e senza retorica “La

notte di Auschwitz”, il diario di Jo Koopmaninedito in Italia e ora pubblicato da Edb (pagine

128, euro 12,50) con introduzione di PieroStefani, di cui anticipiamo qui un estratto dallepagine che raccontano il primo impatto con illager. Scritto tra 1945 e 1946 (racconta infattianche la liberazione a opera dei russi, il difficileviaggio di rientro e il deludente ritorno in patria), iltesto di Koopman, ebreo olandese, restituisce lavita quotidiana, le paure, le vessazioni come seaccadessero in presa diretta.

11Venerdì12 Gennaio 2018

TECNAVIA [CROPPDFINORIG] crop = -45 -30 -45 -30